LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

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Risultati della ricerca

Venturi-Pavese (1945-1946)

«Accetto volentieri l’incarico per la prefazione alla corrispondenza Tocqueville-Gobineau. Non ho il testo, lo cercherò. Avrò bisogno di venti giorni di tempo dopo aver trovato il libro che, se non riesco a pescare vi richiederò. Quando mi mandi il testo di Humboldt? Ne ho bisogno per cominciare l’altro lavoro.»
(Franco Venturi, lettera a Cesare Pavese, Torino 22 agosto 1945, p. 166. Venturi aveva proposto di tradurre una scelta dei diari di Wilhelm von Humboldt).

«Si sta cercando per te nelle biblioteche romane il testo di Humboldt.»
(Pavese, lettera a Venturi, Roma 28 agosto 1945, p. 171).

«Mi par di vederti, solo in biblioteca, a fare le tue risate cavalline.»
(Pavese, lettera a Venturi, Milano 13 agosto 1946, p. 239. In quel periodo Venturi era a Parigi, dove è indirizzata questa lettera).

Verdone (2003a)

«[Silvia] Corradi: Pur essendo, quasi ad ogni effetto ma non all’anagrafe, senese, tu sei considerato un autorevole studioso di romanistica. Infatti – come si è detto – appartieni da diversi decenni al Gruppo dei Romanisti, votato allo studio della storia e alla difesa delle tradizioni di Roma (inizialmente aveva sede presso lo studio di Augusto Jandolo, ma da tempo tiene le sue riunioni nello storico Caffè Greco in Via Condotti), e, alcuni anni orsono, sei stato cooptato quale Socio Ordinario dell’Istituto di Studi Romani (che il Comune di Roma ospita in un prestigioso palazzo sull’Aventino). Dal Professor [Mario] Petrucciani, Presidente di quest’ultimo sodalizio hai recentemente ricevuto l’invito a tenere la prolusione per l’inizio del loro anno accademico e l’evento è documentato in una videocassetta, a cura di Isabella Madia, posseduta dalla biblioteca sull’Aventino [Biblioteca dell’Istituto nazionale di studi romani]. Ti prego quindi di dirmi come hai cominciato ad interessarti a Roma e al Belli, e a quali anni risalgono i tuoi primi scritti su questi temi.
Verdone: Prima e durante la guerra io frequentavo, quando abitavo a Siena, la Biblioteca Comunale di Via della Sapienza [Biblioteca degli Intronati]. Avevo conquistato l’amicizia e la stima del Direttore, Dottor Fabio Iacometti, il quale mi concesse di accedere al Fondo Porri che era una collezione di autografi depositata presso la Biblioteca. Nessuno dei frequentatori era ammesso a consultare il Fondo Porri – che era addirittura generalmente ignorato – ma a me fu consentito di esplorarlo perché il Dottor lacometti aveva letto qualche mio articolo sui giornali senesi e aveva apprezzato soprattutto quelli di carattere filologico; [...] La letteratura su Siena in quel momento mi interessava enormemente proprio per l’attaccamento che avevo alla mia città. Avevo letto Paul Bourget e le sue Sensations d’Italie da cui avevo tratto poi l’argomento per un articolo su Sienne la rouge, rossa per i mattoni, come si vede nei dipinti quattrocenteschi che sono al Comune o alla Pinacoteca di Via San Pietro. Leggevo Langton Douglas, uno studioso inglese che aveva scritto la storia di Siena. Leggevo Sienne la bien amiée, del francese André Suarez. Insomma tutti gli scrittori che si erano occupati di Siena mi attiravano, e questo mi procurava la fiducia e la simpatia del Direttore della Biblioteca.
Sfogliando, consultando le varie “filze”, cosi venivano chiamati i gruppi dei manoscritti del Fondo Porri, scoprii molti testi che effettivamente erano inediti e che potevano essere pubblicati con profitto per la informazione generale, ma, sia consentito, anche con profitto mio perché mi permettevano di mettermi in luce altresì, per così dire, come “filologo”. Ed ecco l’incontro con una lettera inedita di Voltaire, con lettere di Ippolito Nievo, con sonetti autobiografici di Edmondo De Amicis, inediti che pubblicai sulla rivista “Ausonia” diretta dallo scrittore Luigi Fiorentino, rivista che usciva a Siena. Tra i vari manoscritti trovai alcuni testi romani, per esempio, poesie di Filippo Pistrucci. [...] Però il romano che mi interessò di più, ovviamente, non poteva che essere Giuseppe Gioachino Belli, anche perché da tempo avevo letto i suoi sonetti, sia pure in vecchie edizioni. A quell’epoca il Belli non era molto celebrato. Era anche il periodo in cui, col fascismo, tutto ciò che era dialettale prudentemente veniva tenuto in disparte, e quindi il Belli, il Porta e il meglio del teatro dialettale. Siamo immediatamente prima della guerra.»
(Sofia Corradi, Primi scritti sul Belli e su Roma, in Sofia Corradi - Isabella Madìa, Un percorso di auto-educazione, p. 93-95)

Verdone (2003b)

«[Verdone:] Ero venuto a Roma nel 1941 ed avevo approfondito gli studi sul Belli. Quando abitavo a Roma mi recavo quasi quotidianamente alla Biblioteca Nazionale, a Piazza del Collegio Romano, nel reparto manoscritti, sezione diretta con grande professionalità e devozione da Egle Colombi (chiamata “la Vestale del Belli”), la quale, proprio in quel periodo, organizzò una mostra di inediti del Belli, di cui possiedo tuttora il catalogo. ll saggio era pronto per essere pubblicato, e mi si consigliò di farlo leggere a Pietro Paolo Trompeo. Io abitavo a Piazza Paganica, presso i miei amici coniugi Fiore, pittori, al quarto piano. Al secondo piano abitava Trompeo. Un giorno scendo le scale, suono, mi presento e gli dico: «Ho questo scritto, la pregherei di dargli un’occhiata». Lo guardò, lo sfogliò e mi disse: «È interessante, diamolo a Ceccarius». E così mi presentò a Ceccarius (Giuseppe Ceccarelli, romanista “mitico”) il quale decise subito: «Lo pubblichiamo sulla “Strenna dei Romanisti”». Questo mi pare che sia avvenuto attorno al 1946, dopo la fine della guerra, perché durante il conflitto la “Strenna dei Romanisti” non veniva pubblicata. [...]
Di quel periodo, il saggio che ritengo più importante fu Il Belli nel mondo dello spettacolo. Perché il Belli nel mondo dello spettacolo? Perché il Belli inizia la sua attività di scrittore tentando di fare delle commedie e dei libretti d’opera. [...] Era un frequentatore assiduo di teatri. Aveva anche scritto dei “bollettoni”, in romanesco, che erano delle specie di annunci propagandistici o pubblicitari per spettacoli teatrali. Quindi aveva avuto esperienze dirette con il teatro. Ironia della sorte, venne nominato Censore Pontificio dei libretti d’opera. Ricordo che una volta ho letto le sue relazioni di censura, conservate fra i manoscritti alla Biblioteca Nazionale di Roma, e ne ho presente una che mi divertì perché suggeriva di togliere determinate parole da un libretto e questo – ovviamente – non tanto per convinzione sua quanto per le superiori direttive che aveva avuto dalle autorità pontificie. Di una parola che poteva alludere agli angeli o ai santi o ad altro, scriveva: «Questa si può togliere, tanto non guasta il mercato».»
(Sofia Corradi, Primi scritti sul Belli e su Roma, in Sofia Corradi - Isabella Madìa, Un percorso di auto-educazione, p. 96-99)

 «Verdone: Copiai tutti i sonetti di una sua raccolta inedita, La proverbiade. Erano numerosi e ognuno aveva il titolo di un proverbio; mi proponevo di pubblicarli. Ho tuttora i fogli che ho ricopiato in biblioteca, però la cosa non andò in porto perché oramai il cinema mi aveva travolto e mi costringeva a trascurare un po’ gli studi belliani. Poi intervenne il Professor Vighi, esimio studioso, che desiderava pubblicarli, e io non gli volevo fare concorrenza, anche se li avevo letti vent’anni avanti. [...]
Sempre in quegli anni, nel 1945-50, io ero sempre benevolmente accolto nella Biblioteca Nazionale, a Roma, da Egle Colombi con la quale avevamo stabilito un’amicizia particolare perché durante il periodo della prima guerra mondiale era stata una collaboratrice di Federigo Tozzi alla Croce Rossa. Il fatto di essere tutti e due dei tozziani affezionati, dei fans di Tozzi e di Belli, ci legava molto. Era un’anziana signora, molto ben disposta nei miei riguardi, come amicizia, come simpatia, soprattutto di carattere intellettuale, letterario. Una volta la Colombi mi disse: «Guardi, Verdone – mi dava del Lei – qui ci sono dei foglietti del Belli che non hanno né capo né coda eppure meritano attenzione: sono terzine in dialetto romanesco. Il Belli ha scritto molti sonetti, ma terzine in dialetto romanesco ne ha scritte poche. Queste sarebbero interessanti, però non ci si capisce niente, forse sono legati male, bisognerebbe che Lei li studiasse».
Presi tutti i foglietti, me li lessi attentamente e rifeci il montaggio. I fogli erano disordinati, quasi un rompicapo: poniamo, a mo’ d’esempio, che corrispondessero ai numeri uno, sei, nove, dodici, quindici. Io li rimisi in sequenza: uno, due, tre, quattro, cinque, e così via, nel loro ordine giusto, ponendoci delle annotazioni a lapis, opportune frecce indicative, eccetera. Fatto questo lavoro, risultò un “capitolo”, o poemetto, bellissimo, di carattere gastronomico. Era proprio qualcosa da recitare in un convivio: non senza motivo io sostenevo che il Belli era uno scrittore di teatro, ma non di teatro normale, piuttosto da teatrino casalingo, da teatrino da camera. [...] Questo “capitolo” in romanesco – «Dico una cosa che nun è bbuscìa» – che riguarda “una gran magnata”, è divertentissimo. Ho dunque sistemato i versi nell’ordine in cui andavano messi. M’ero proposto di pubblicarli, ma poi sono stato ripreso dal cinema e, come ho detto, il professor Vighi, tenacissimo, affezionato al Belli, che ha fatto una bella edizione delle poesie del Belli, ha anche trovato le pagine da me numerate, un lavoro, dunque, già avviato, e lo ha pubblicato. ll poemetto è caduto in buone mani ed io, senza lamentarmene, ho citato questo episodio in qualcuno dei miei articoli, per cui non è fuor di luogo ricordare che la ricostruzione di questa poesia è opera mia.»
(ivi, p. 100-102)

Vichi (1953)

«La mattina prima delle nove, prima che suoni il campanello di apertura della Biblioteca, c'è sempre, davanti alla porta del piano terreno e del secondo piano, un gruppetto di gente che aspetta. Gente varia di età, di fisionomia, di atteggiamento: chi passeggia solo, su e giù come irrequieto; chi sta immobile appoggiato al muro, con la destra al mento o le mani in tasca; chi parla o scherza con qualche compagno. Quando la porta apre i suoi battenti, quelli che aspettavano si sparpagliano, e sembrano sparire, come ingoiati dai corridoi e dalle sale, a consultare febbrilmente il catalogo o a richiedere ai banchi di distribuzione il libro lasciato in deposito il giorno avanti.
Ma la marea ingrossa specialmente verso le dieci e dura così fino alle due del pomeriggio, con un brusio e un tramestio che, data l'angustia dei locali, genera, a volte, confusione e quasi tumulto. Allora è interessante e istruttivo, o appartandosi in un angolo o mescolandosi alla folla come un lettore, osservare il movimento e individuare alcuni fra i tipi più rimarchevoli.
Il catalogo è il primo punto di approdo, il primo esercizio della palestra, e subito vi si rileva il lettore novellino e maldestro che stenta a raccapezzarsi tra le file serrate dei volumetti prima di trovare la voce e la parola di cui ha bisogno, e poi si arrabatta col volumetto che non sta aperto se non è tenuto fermo con le mani o è alle prese con l'alfabeto (pare impossibile, ma anche l'alfabeto ha le sue difficoltà!) o con l'ordinamento delle schede sotto una stessa voce che, a dir il vero, in certi casi può presentare agli inesperti un aspetto quasi cabalistico.
Allora si notano atti di impazienza, se la ricerca riesce inutile, o di soddisfazione e quasi di sorpresa e di meraviglia per un improvviso o inaspettato ritrovamento.
Invece chi sa il fatto suo corre spedito al punto giusto e sfoglia e segna o, se non trova quello che occorre, conoscendo il congegno della Biblioteca e dei suoi uffici e l'andamenlo dei suoi lavori, cerca di raggiungere il suo scopo con fermezza ma con garbo, rivolgendosi a chi può dargli spiegazioni o consigli.
Talvolta, nel corso delle prime ricerche a catalogo, si accendono fra lettori che si conoscono discussioni vivaci su argomenti di studio, tal'altra, specialmente tra i giovani, intervengono pensieri e temi di conversazione d'altra natura, sicchè non è raro il caso di studiosi che, dimentichi di schede e di libri, si affaccino alle finestre e si attardino nella contemplazione del bel cortile dalle mura tutte tappezzate, nelle buone stagioni, di vite americana e di glicine e del bel cielo romano sovrastante, che inducono nell'animo pensieri di dolcezza e di tenerezza.
Composti, silenziosi, attenti, pazienti, sono sempre i religiosi (tanti, nella grande biblioteca che fu dei Gesuiti!): sacerdoti, frati di tutti gli ordini, monache sempre a coppia, che preferiscono portarsi i libri nelle loro case e, quando li ottengono (a dir il vero con molta larghezza, perchè sono i più precisi e i più ordinati e i più puntuali), se ne vanno lieti e grati come per un favore non sperato.
Ma la giostra più fervida è nelle sale comuni, dove tanti lettori tutti insieme, dopo aver superato, spesso con palese insofferenza, le difficoltà che incontrano nelle richieste per la varietà indispensabile dei moduli, si impazientiscono nell'attesa del libro o si irritano per il contrattempo di un errore non sempre del personale o per una risposta negativa e, se non fossero trattenuti o placati dai distributori, vocerebbero tutti insieme, chiedendo chi una cosa e chi un'altra. Per fortuna non mancano motivi di distrazioni: e molti ingannano l'attesa ripigliando nel corridoio del catalogo o sui pianerottoli delle scale il discorso interrotto con l'amico, mentre fumano l'immancabile sigaretta, o scendendo al bar del piano terreno per il caffè, o sedendo in giardino tra gli antichi alberi esotici o presso la chioccolante fontana.
Gli studiosi seri, consapevoli di ciò che vogliono, non esitano, non s'indugiano, non creano a sè stessi e agli altri motivi di irrequietudine e d'impazienza e, incutendo col loro contegno rispetto e soggezione, ricevono in cambio rispetto e deferenza.
Sono gli antichi frequentatori che lavorano metodicamente, esperti nel maneggiare i repertori, pratici del servizio del prestito esterno e internazionale a cui ricorrere per libri che non siano posseduti da biblioteche romane, e dell'Ufficio di informazioni bibliografiche che può guidare a sopperire con altri strumenti quello che essi hanno in mente, ma che è sfuggito ad ogni ricerca. Professori universitari e insegnanti di altre scuole che vogliono completare la loro lezione con qualche dato utile; magistrati che indagano su un loro problema o preparano una monografia; alti ufficiali o funzionari a riposo che ravvivano, con letture dotte e con notizie su avvenimenti a cui parteciparono, la monotonia della loro vita di pensionati; scienziati o professionisti seri che, volendo aggiornare la loro cultura e non potendo acquistarsi i libri necessari, consultano i manuali e i trattati più recenti sulla loro materia o ricercano nelle riviste l'esposizione dell'ultimo ritrovato o il risultato dell'ultima indagine; giornalisti di lunga data e di solida fama; ministri plenipotenziari, addetti ad ambasciate, capi di istituti di cultura stranieri, membri di accademie illustri, stranieri in genere: gente che ama la Biblioteca indipendentemente dall'utile che ne ricava, che ne apprezza la consistenza e il valore e il sussidio ch'essa porge agli studi, ne conosce i difetti, ma li comprende, li giustifica e cerca di non aggravarli, ne segue le vicende e ne assume le difese. Chi non conosce il vecchio conte polacco che a tutti chiede scusa delle noie che non dà, e i professori Paribeni e Toesca, Cellini e Trompeo, Maffio Maffii e Cecchelli, Giorgio Vigolo e Guglielmo Janni, il giudice Lococo, don Giuseppe de Luca, Falqui e Baldini e Alessandro Bocca e le signore Bellonci, Drago, Maggi, Panetta, la contessa Origo e lo stuolo dei donatori fra cui recentissimi e generosissimi Chiarini e Orrei che, oltre i libri, hanno lasciato in eredità alla biblioteca i bei scaffali che li contenevano?
Costoro, in massima parte, se vogliono o debbono protestare lo fanno con discrezione, con indulgenza, con fiducia, e provocano subito da parte del personale, chiunque esso sia, l'intervento immediato e diretto e la soluzione, spesso felice, del caso.
Invece non di rado avviene che si sentano dalle stanze dei capi servizio voci concitate, che s'avviano per il corridoio fino alla stanza della Direzione: sono generalmente i soliti insofferenti lettori occasionali, ricercatori di notizie araldiche, giornalisti da strapazzo, aiuto-registi, gente di passaggio insomma, che protesta in malo modo per il ritardo nell'arrivo del libro richiesto, per la sua assenza dal posto, sia che risulti mancante o smarrito o in lettura o in prestito, per la richiesta, pur sempre rispettosa, del custode alla porta di controllare la tessera o il contenuto della borsa, per un'opera negata in prestito, per le finestre delle sale chiuse o aperte, secondo la stagione, per la luce, per il freddo, per il sonno che durante la calura può aver colto il vicino di banco, per una risposta, secondo loro, poco educata del personale, e così via.
[...] Ogni disappunto è buono per protestare, e non è soltanto vizio di questi tempi, chè, ripercorrendo col pensiero la lunga serie degli anni trascorsi, ci offende ancora la memoria di offese da parte del pubblico che ci fecero arrossire, come arrossire in un altro senso dovemmo per il tentativo da parte specialmente di stranieri, di un compenso pecuniario al nostro zelo disinteressato nel dare spiegazioni e consigli per amore dell'Istituto, per desiderio di farlo figurare bene o di attenuarne i difetti.
Qualcuno, ma sempre più raramente, contrappone alle nostre deficienze il perfetto funzionamento delle biblioteche straniere, quasi che i nostri bibliotecari non le frequentassero sempre più spesso e più a lungo, constatando che anche per questo aspetto tutto il mondo è paese: il che ci fornisce gradito argomento di smentita.
Un gruppo a parte formano i lettori, o meglio i consultatori dell'Ufficio d'Informazioni Bibliografiche, e non tanto quelli che vi si rivolgono a voce, di persona, quanto quelli che esprimono i loro desideri e le loro necessità per iscritto. Qualcuna di quelle lettere desta non so se riso o rabbia, non solo per la sciatteria ma per gli errori di sintassi e anche di grammatica, nonostante i titoli di studi anche alti dichiarati dagli scriventi, ma molte rivelano una ingenuità, una fiducia, una gioia per questa insospettata fonte di notizie che veramente commuove. Le richieste, non soltanto di studenti o studentesse, ma di persone di ogni paese e qualità e grado di cultura svariano per tutto lo scibile: dal bacio nell'arte agli avari, dalla fisiologia e psicologia dei vecchi ai nani e buffoni di corte, dalla data (anno mese e giorno) del diluvio universale all'influenza di alte dosi di ormone luteinico sulla mammella dei topi castrati e così via. [...]
E che la Biblioteca goda tra il pubblico anche non studioso popolarità e simpatia e susciti interessamento e sensi di quasi solidarietà, lo provano fra gli altri due piccoli fatti accaduti recentemente e che non dispiace riferire: le preghiere rivolte alla Direzione da alcune donnette del quartiere, perchè fosse riattivato l'orologio settecentesco della torretta, fermo per riparazione, e la domanda di un lettore a uno dei capiservizio perchè un certo merlo che soleva cantare dal cortile della vite americana non avesse quest'anno fatto sentire la sua voce. [...] Invece nessuno si è accorto, o per lo meno ha fatto rilevare, che il bel lauro, il lauro altissimo, più alto assai del tetto della Sala di studio, che noi consideravamo come il simbolo e l'emblema della stessa biblioteca, è caduto spezzato alla base in una notte tempestosa di vento. [...]
Ma la meraviglia e il dolore e l'apprensione che provammo quel giorno si mitigarono d'assai, quando vedemmo che dal tronco spezzato nuovi e più vigorosi virgulti si ergono verso l'alto: nuovi elementi e argomenti di vita per la nostra vecchia, per la nostra cara, per la nostra inamovibile «Vittorio Emanuele».»

(Una che l'ama [Nella Vichi Santovito], Il viavai, p. 141-147. Nella Vichi lavorò alla Biblioteca nazionale di Roma dal 1919 e ne fu poi direttrice dal 1935 al 1955).

Vichi (1966)

«Primavera 1907: Biblioteca Universitaria di Bologna, stanza per le signorine. Una studentessa, seduta ad uno dei brutti tavoli di mezzo, volgendo le spalle alla finestra, tiene aperto dinanzi un atlante di epigrafi greche: mancano pochi giorni all'esame di quella materia, svolta dal prof. [Vittorio] Puntoni. Nella parete di fronte a lei sono, di qua e di là, due altri tavoli più piccoli e più meschini, se è possibile, davanti ai quali stanno seduti due impiegati della Biblioteca: i dottori Alberto Bacchi della Lega e Lodovico Frati. Lavorano, e ogni tanto si scambiano qualche breve parola. Ad un tratto la porta che si apre sul lato destro della stanza si spalanca quasi con violenza: ne entra un uomo alto e solido, con un buffo copricapo e un farsetto variamente colorato sul marrone. Gli occhi lanciano un rapido sguardo interrogativo e incrociano quelli della studentessa, anche lei curiosa: sono azzurri, vivi, come quelli di un fanciullo; nel movimento della testa s'intravede la breve barba che dev'essere stata bionda. Egli va diritto verso Bacchi della Lega e dice ridendo forte, sonoramente, qualche parola a proposito di non so che uccelli, mentre Bacchi della Lega, che ha levato ambedue le mani all'altezza del viso, quasi per difendersi, ride forte anche lui, tentando invano di pronunziare qualche parola. Durante questa scena, Lodovico Frati si è levato in piedi, pallido, smunto, come smarrito e incerto su quel che debba fare. Quando il signore dalla papalina se n'è andato, senza una parola né un gesto di saluto, egli si rimette a sedere in silenzio, Bacchi della Lega scuote la testa, ridendo ancora e borbottando qualche cosa.
Quella fu la prima volta che io vidi il Guerrini, la prima e anche l'ultima, perché noi frequentavamo la Biblioteca dell'Università solo per quelle opere che non risultavano possedute da quella dell'Archiginnasio, più familiare, più condiscendente, più aperta.»

(Nella Santovito Vichi, Olindo Guerrini = Lorenzo Stecchetti a cinquant'anni della morte, p. 201-202. Nella Vichi studiò all'Università di Bologna, laureandosi in lettere classiche nel giugno 1910).

Vigevani (2000a)

«Ma i libri che mi procuravo con i miei mezzi di ragazzino non bastavano mai. Così ricordo che mio padre, socio della Dante Alighieri, mi accompagnò alla piccola biblioteca circolante dell'associazione, in via Gesù (o Sant'Andrea), di cui divenni assiduo frequentatore, anche, penso, per la grazia della giovane e bella bibliotecaria, in quegli anni Camilla Cederna, che ebbi tante occasioni d'incontrare poi. Ma presto anche la Dante Alighieri non mi bastò più e mi feci iscrivere al Circolo Filologico, che mi servì, con le sue tristi e buie sale, di rifugio e pretesto 'culturale' quando, cattivo allievo quanto assatanato lettore, bigiavo le lezioni alle medie.»

(Alberto Vigevani, La febbre dei libri, p. 10).

Vigevani (2000b)

«A Ginevra mi recavo ogni mattina alla Bibliothèque Cantonale, dove lessi l'opera completa di Saint-Simon nell'edizione in una quarantina di volumi di Hachette.»

(Alberto Vigevani, La febbre dei libri, p. 72-73. Vigevani era riparato in Svizzera con la moglie e il figlio, da Milano, durante l'occupazione tedesca).

Villari (2006)

«Qual è la caratteristica più importante delle collezioni della Biblioteca del Senato?
Ho frequentato la Biblioteca del Senato soprattutto per una parte delle mie ricerche indirizzata verso la storia locale e verso lo studio degli statuti, perché mi sembra che questa sia una parte importante della collezione della Biblioteca. Qui è rappresentata molto ampiamente e in maniera soddisfacente, anche per una ricerca approfondita, la storia delle città italiane, e la storia di tutto quel travaglio politico-istituzionale che è attestato dagli statuti delle città, cioè dalle costituzioni locali.

Qual è la funzione e l'importanza delle biblioteche parlamentari per l'attività politica?
Penso che il rapporto tra l'attività politica e la cultura dovrebbe essere strettissimo, però devo constatare che non lo è quanto io, come semplice cittadino, desidererei che fosse. Sono stato deputato per un breve periodo, e ricordo che il fatto che esistesse una biblioteca alla Camera dei deputati era per me un fatto molto positivo e interessante. Ci passavo molto tempo, però – devo dire la verità – mi trovavo molto spesso da solo; mi sono così domandato come mai la Biblioteca fosse sottoutilizzata dai suoi utenti istituzionali; certamente il poco tempo a disposizione può essere considerato la causa principale della limitata abitudine alla frequentazione della biblioteca. D'altra parte, pur essendo la biblioteca un elemento importantissimo e fondamentale della cultura, non è l'unico. Molti dei deputati che io frequentavo allora operavano per esempio nel campo della scienza e della medicina e quindi frequentavano soprattutto laboratori.

Che ne pensa dell'offerta bibliotecaria della città di Roma?
Io penso che Roma sia una città privilegiata. C'è un asse che parte dalla stazione, cioè dalla Biblioteca nazionale, e arriva fino al Vaticano, attraversando quindi il centro della città, via Nazionale, via IV Novembre, corso Vittorio Emanuele. In quest'asse ci sono le più belle biblioteche del mondo: la Biblioteca nazionale che, pur non essendo tra le più belle del mondo, è certamente una biblioteca importante e che, anche prima del trasferimento nella sede attuale, si collocava sempre su quest'asse, ossia al Collegio romano; c'è la Casanatense, la Vallicelliana, l'Angelica, e molte altre biblioteche, fino ad arrivare alla Biblioteca Vaticana. Naturalmente in questo itinerario si collocano anche le Biblioteche del Senato e della Camera dei deputati. Questo è stato ed è il mio personale itinerario quasi quotidiano.

E cosa ne pensa delle biblioteche straniere?
Una delle biblioteche che io ho frequentato di più e che a mio avviso dovrebbe rappresentare un modello di organizzazione per tutte le altre biblioteche è la British Library. Lì ho passato moltissimo tempo della mia vita, e un "bel" tempo della mia vita. Ogni volta che vi trascorro dei periodi sono molto contento, perché mi sento completamente a mio agio in quella biblioteca. Una volta, mentre stavo lavorando e scrivendo al computer, seduto ad uno dei tavoli di lettura della biblioteca, alzando lo sguardo, mi resi conto che intorno a me era tutto deserto, non c'era più nessuno in biblioteca. C'era solo una persona in piedi, un impiegato, che stava lì, senza dirmi niente, ad aspettare - dieci minuti, un quarto d'ora dopo la chiusura - che io mi accorgessi che la biblioteca era chiusa. Mi sono scusato; mi ha detto di non preoccuparmi. Ho restituito i libri, me ne sono andato, e c'erano almeno cinque o sei persone che aspettavano la restituzione dei testi che io avevo preso in consultazione. Penso che non sarebbe successo in nessun'altra biblioteca.»

(La biblioteca delle città italiane: intervista a Rosario Villari; tratta dal DVD I libri di Minerva, l'intervista è disponibile anche in video all'indirizzo <https://www.youtube.com/watch?v=WWbb8NbC5dc>).

Vinay (1967a)

«E [Giorgio] Falco ascoltava e poiché non ne sapeva più di me badava alla coerenza e, la facciata non presentando vistose screpolature, andava sempre bene e io avevo una pessima opinione della scuola e soprattutto di me che mi sbattevo di qua e di là per il Piemonte in cerca di biblioteche che non c'erano e dove c'erano non sapevo da che parte cominciare né perché ci fossi venuto.»
(Gustavo Vinay, Pretesti della memoria per un maestro, p. 60).

«Interpretai così perché questo era un aspetto costitutivo di Falco pedagogo e lo sapevo ormai bene perché era un suo modo di rendere omaggio alla giustizia per la quale almeno una volta mi aveva spellato. Me lo vedo venir incontro in biblioteca con la faccia nera di mia madre quando nascondeva un salice dietro la schiena... e mi squadernò un libro con i margini segnati di punti esclamativi e di grossi insulti: le mie postille a Buonaiuti. Falco aveva una avversione viscerale per quel tipo di storiografia, ma l'uomo andava rispettato, non avendolo fatto avevo offeso prima di tutto lui Falco e poi me stesso e mi toccò incassare la più dura lezione della mia carriera. [...] E allora mi diede l'ultima zampata: comunque i libri delle biblioteche non si scarabocchiano, che era un modo di dirmi che sul fondo della questione ci si poteva anche metter d'accordo ma al tempo stesso un espediente per farmi ricordar a lungo il brucior della frusta con l'amaro della ragazzata che toglieva ogni decoro alla mia ribellione metodologica.»
(ivi, p. 61-62. L'episodio si colloca probabilmente nella Biblioteca della Facoltà di lettere dell'Università di Torino).

«Quel mio Gregorio di Tours ebbe poi una cattiva sorte. [...]
L'insuccesso del volume fu una delle tante ragioni che mi convinsero il senso storico e la fantasia esser gli unici beni dei quali i professori di storia sono del tutto sprovvisti. [...] Un prete notò in margine all'esemplare di una biblioteca qualcosa che vuol dire «a questo portano le storture del crocianesimo» ed espresse quello che dev'essere stato e certo ha da essere ancor oggi il giudizio dei miei pochi lettori.»
(ivi, p. 106-107).

Vinay (1967b)

«Con Salvatorelli avevo il mio solito conto aperto. Per non so quanto tempo (dalla vivacità del ricordo di ogni suo atto, arrivare, sedersi, alzarsi, ritirare i volumi in deposito al mobile-leggio vicino alla finestra, prender la scala, appoggiarla salire scegliere il volume e portarlo giù, dovrei desumere sia stato un decennio e invece fu assai meno ma moltiplicato dalla densità della mia tensione) lavorai al suo stesso tavolo nella mitica sala VIII della Nazionale [di Torino] dove a turno comparivano un po' tutti i grandi salvo i letterati fermi alle prime quattro, e nella prima entrando (ma si chiamava terza) si fermò appunto, l'unica volta che lo vidi, Benedetto Croce floscio e di malumore e sembrava che non ce l'avrebbe fatta ad arrivare fin lì se non gli si fosse prodigato intorno il Ginzburg per l'occasione raggiante e tutto spianato che non gli si vedevano neanche più i segni della barba nera che nessun rasoio era mai valso a cancellare, come si fosse incipriato. In quell'ottava era pure capitato Ruffini, la più bella testa che io abbia visto da vicino e poi si diceva che se hai bisogno di un libro e lo ha solo lui ti fa venire nella sua biblioteca ti lascia solo ti dice quando-esce-tiri-la-porta e se ne va per i fatti suoi... E Salvatorelli me lo covavo con gli occhi: ha rinunziato a tutto tranne ad esser se stesso, lavora come un negro per tirare avanti e si tien tutto dentro... mi si afflosciava un poco le poche volte che udivo la sua voce che mi suonava prepotente e sicura, ma appena svaniva l'eco riprendevo il mio ricamo e stavo attento a ogni occasione per farmi notare con una cortesia... non mi vide mai [...]».
(Gustavo Vinay, Pretesti della memoria per un maestro, p. 65-66).

«Uscì il mio Gregorio di Tours e vinsi il concorso per le biblioteche [...]. Dalla Nazionale di Torino era scomparso un uomo che in quella biblioteca mi aveva fatto sentire a casa mia, il «dottor Levi», il più ebreo degli ebrei che io abbia mai conosciuto: non gli mancava nessuno dei marchi cari agli antisemiti: il naso, la gobba, i peli ispidi, i piedi piatti da clown. Matricola mi aveva accolto con un gran sorriso come ci conoscessimo da sempre. Aleggiava intorno a lui la leggenda: aveva rinunziato per anni alle vacanze per attendere al rispetto del sabato e alle sue devozioni; in tempi remoti e prerazziali un impiegato l'aveva colpito in testa con un grosso libro urlandogli ebreo-schifoso e si era rifiutato di scrivere il suo rapporto e opposto a qualsiasi provvedimento [...]. Senza quel volto forse non avrei pensato che il mestiere di bibliotecario fosse fatto per persone intelligenti e sagge.»
(ivi, p. 119-120).

Violante (1996)

«Il mio primo tuffo nel mondo internazionale degli istituti scientifici e delle biblioteche internazionali lo feci a Roma nel gennaio 1948. Provenivo da Napoli, dall'Istituto Croce, il cui direttore Federico Chabod, avendo deciso che la mia tesi di laurea su Ariberto, famoso arcivescovo di Milano del secolo XI, potesse diventare un libro, aveva ritenuto giunto il momento che consultassi tutte le edizioni delle fonti riguardanti Milano, il papato, il regno italico e l'impero e che cominciassi a ricercare la bibliografia sull'argomento. Infatti a Catania, dove ero stato catapultato dalle vicende conseguenti alla guerra, non esistevano, allora, nemmeno i Monumenta Germaniae Historica e, a parte le principali opere storico-giuridiche, c'era poco o nulla di storiografia medioevistica che non riguardasse Arabi, Normanni, Svevi e Aragonesi in Sicilia. Così sbarcai a Roma, munito di un biglietto di Chabod per Ernesto Sestan, che andai subito a trovare a Palazzo Caetani, all'Istituto Storico Italiano per l'Età Moderna e Contemporanea, dov'era segretario. [...] E mi inviò, con un suo biglietto, da Raffaello Morghen, che non solo medioevista lo era, ma mi avrebbe potuto procurare l'accesso alla biblioteca dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo. [...]
Spalancatemi le porte dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, fui quasi stordito dalla quantità di libri per me utilissimi che vi potevo trovare e rimasi impressionato specialmente dalle famose «tesi di abilitazione» tedesche.
Nel seguente anno accademico mi stabilii a Pisa, ma non solo mi fermavo a Roma tutte le volte che passavo di lì nei miei viaggi da e per Catania, dove vivevano i miei genitori, ma parecchie altre volte, durante l'anno, vi facevo una rapida scappata di un giorno tra due notti di treno. Allora per sfruttare la preziosa biblioteca dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, poiché non avevano ancora inventato i microfilm né le fotocopie, mi impegnavo all'estremo nella lettura di lunghi saggi e di libri, magari in tedesco, cercando di cogliere, quasi divinatoriamente, le linee essenziali della trattazione e di individuare i passi cruciali, fissandoli febbrilmente in appunti che dovevano essere sintetici al massimo. Certo l'organismo doveva essere in quelle ore frustato da terribili scariche di adrenalina. Ma fu quello un prezioso allenamento mentale a cogliere subito l'essenza di un saggio storico. [...]
Ma già allora Roma non significava più soltanto la frequenza della biblioteca dell'Istituto di piazza dell'Orologio, bensì anche l'accesso alla Biblioteca Vaticana, dove mi indirizzò Delio Cantimori, mio antico professore alla Scuola Normale di Pisa, con la raccomandazione di rivolgermi per qualsiasi esigenza scientifica ad Augusto Campana, il quale, con la sua prodigiosa memoria, ricordava tutte le persone, le opere, i luoghi, che aveva incontrati negli innumerevoli codici studiati o solo consultati e nei tanti saggi di erudizione e di filologia che aveva letti e aveva una straordinaria capacità di trovare corrispondenze e connessioni tra quei nomi e quelli presentatigli da chi gli chiedeva lume. [...]
Roma cessò di essere, per me, essenzialmente la lontana mecca delle biblioteche, quando, nella primavera del 1952, vinsi, insieme al filologo Arrigo Castellani, il concorso per un «comando» di sei anni presso la Scuola Nazionale di studi medievali annessa all'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo. [...]
A dir la verità, in quei quattro anni (dalla primavera 1952 alla primavera 1956) che passai a Roma presso l'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo non frequentai molto gli analoghi Istituti stranieri, se non per studiare nelle loro preziose biblioteche: quella dell'École française, quella dell'Academia Belgica e – specialmente – quella dell'Istituto Storico Germanico. Allora la vita accademica internazionale a Roma era abbastanza limitata. Gli istituti italiani e stranieri stavano ancora riparando i danni della guerra e colmando le lacune, il personale scientifico era esiguo, ma cominciavano a venire a Roma (solo dalle nazioni al di qua della cortina di ferro) nuove leve di studiosi, ancora giovanissimi e un po' disorientati. Perciò conobbi e frequentai poche persone degli istituti stranieri: alla Biblioteca Vaticana, preparando il libro sulla pataria milanese, lavoravo spesso a fianco di Heinrich Schmidinger, dell'Istituto Austriaco di Cultura, che studiava il patriarcato di Aquileia.»

(Cinzio Violante, Il mio incontro con Roma, in: «Hospes eras, civem te feci», p. 113-120).

Vittorini (1946)

«Infine sto scrivendo una Storia della letteratura americana [...]. Io la vado pubblicando a puntate su «Politecnico» mentre la scrivo: e Lei può vederne i due primi capitoli sul n. 29 e sul n. 30 [...]. Ho cominciato questo lavoro da prima della guerra, l'ho interrotto nel '43 quando sono stato arrestato, ho avuto distrutto tutto quello che avevo fatto, gli appunti presi e i libri nell'incendio della mia casa durante i bombardamenti dell'aprile '43 mentre ero in prigione; e solo dall'inverno scorso ho potuto ricominciare ma, purtroppo, senza piú libri e senza piú appunti. Mi occorrerebbero anche dei testi critici come il saggio su Melville di Mumford, e The liberation of American literature di V. F. Calverton che non avevo ancora potuto consultare, ma spero che l'U.S.I.S., cui mi sono rivolto, li faccia venire per la propria biblioteca, come, dietro mia richiesta, ha fatto venire Mathiessen [ma Matthiessen], Hock e altri. Da Lei, tuttavia, avrei certo un piú grande aiuto se volesse interessare i Suoi amici scrittori e critici a mandarmi le loro pubblicazioni.»

(Elio Vittorini, lettera a James Laughlin a New York, Milano 11 novembre 1946, p. 85).

Vittorini (1948)

«La signora Rosmunda mi ha messo in camera un tale che non so se giudicare cretino o genio. È un ragazzo di provincia bocciato agli esami di passaggio dal ginnasio al liceo in storia e geografia. [...] Ma è un mistero come abbiano potuto bocciarlo proprio in storia e geografia. Per la storia sa persino quanti ebrei militavano sotto il Sassanide nella guerra contro Roma, e quali fatti condussero al massacro del Campo di Marte nella rivoluzione francese e uno per uno quali deputati della Convenzione votarono la morte del re, quali la prigionia, quali la libertà provvisoria... Per la geografia è capace di dirti tutte le città che si trovano lungo il 48° parallelo e in quale rapporto coi meridiani. Dal giorno che ho scoperto le sue qualità passo ore e ore a sfogliarlo come un atlante. E non lo faccio per approfittarne, m'incanta... [...] Inoltre non è affatto uno sgobbone, i libri non li apre nemmeno, quelli di testo, ma va in biblioteca a copiare incisioni. E in casa disegna, ritaglia, incolla, ha fabbricato di carta e cera tutta Parigi del 1789 con Notre-Dame e la Bastiglia, col Pont-Neuf, la Tour de Nesle, i caffè del Palais Royal e via di seguito come sono nelle incisioni dell'epoca.»

(Elio Vittorini, Il garofano rosso, in Le opere narrative, a cura di Maria Corti, [Milano], Mondadori, 1974, I, p. 314-315. Il romanzo fu pubblicato per la prima volta nel 1948, dopo essere stato in parte anticipato a puntate nella rivista «Solaria» tra il 1933 e il 1936).

Volponi (1962)

«Leggevo giornali e riviste e anche qualche libro. Mi buttavo nella lettura e mi specchiavo in dolori e fatti atroci; ma senza ricavarne forza per me, senza riuscire a considerare migliore la mia situazione. [...] Il parroco mi esortò a fare letture migliori. Così andai nella biblioteca della fabbrica. Era un bel locale anche se io, dentro, a guardare migliaia di libri mi sentivo confuso e pensavo di non trovare la strada per uscire libero come prima, come quando ero entrato.
Negli intervalli di lavoro frequentavo spesso la biblioteca e il cinema a passo ridotto. Mi iscrissi anche a un corso di lingua francese e a un altro di storia del Risorgimento italiano.
Parecchi erano i giovani che venivano in biblioteca e a questi corsi; giovani nuovi e strani, che facevano sempre molte domande di chiarimenti e scuotevano la testa per dire di sì o no o per ascoltare, un poco come fanno i preti. Al cinema m'accorsi che veniva anche qualche vecchio operaio, soprattutto per dormire. Io stavo bene nell'oscurità, mi divertivo.
Una volta nelle sale della biblioteca incontrai sorridente come sempre il dottor Tortora. Usciva da una lezione, con intorno un gruppo di ragazze. Aveva l'aria gentile di chi è privo di preoccupazioni e di cattivi pensieri e di chi è convinto di poter avere sempre la stessa serenità. Egli non mi vide; ma giunto alla porta si voltò verso l'angolo dove io mi ero appartato; strizzò gli occhi, smettendo di ridere, e guardò dalla mia parte con cattiveria. [...] Mi aveva visto e riconosciuto? Gli dispiaceva che io frequentassi quel posto per ritrovare un poco della mia forza?»
(Paolo Volponi, Memoriale, p. 87-88. Il romanzo è incentrato su una grande fabbrica nella zona di Ivrea, tra il 1946 e il 1956. La fabbrica è dotata anche di una biblioteca e di una sala per proiezioni, ma non coincide necessariamente con l'Olivetti, dove Volponi lavorò come dirigente a partire dal 1956).

«Non dissi nulla e accettai di andare in montagna, a Valtournanche, in Val d'Aosta. Non era un sanatorio; era un albergo, dove noi della fabbrica occupavamo tutto un piano. [...]
Io passeggiavo la mattina e la sera; il resto del tempo dormivo o leggevo. Prima di partire avevo preso alcuni libri in biblioteca, in italiano e in francese, per tentare di riprendere un poco la lingua della mia infanzia. Avevo preso anche un libro proprio sulla Val d'Aosta: Le lépreux de la cité d'Aoste. Questo libro, che leggevo lentamente, cominciò ad appassionarmi tanto che molto spesso piangevo insieme al povero lebbroso, comprendendo quanto la sua sorte fosse crudele e quanto la mia potesse ancora diventarlo. Quando fui alle pagine in cui la sorella del lebbroso muore, non riuscii a trattenere la mia commozione e sentii terribile la mia solitudine, tanto che la notte stessa [...] lasciai l'albergo e il paese per tornare a casa.»
(ivi, p. 154).

«La sera uscivo lentamente dalla fabbrica perchè non avevo voglia di correre ancora a prendere il treno, a ricacciarmi in questa altra fabbrica [...]. Uscito dalla fabbrica andavo adagio verso il centro della città; passavo un momento in biblioteca, sceglievo a lungo ma senza riuscire a trovare un libro che mi piacesse e camminavo fermandomi davanti a tutti i negozi.»
(ivi, p. 163).

«Mia madre venne ad appoggiarsi accanto a me sul davanzale della finestra; prima stette in silenzio, poi accennò alla campagna e alle disgrazie del temporale, alla fortuna invece di avere un posto sicuro in fabbrica. [...] Non cercai di capire o di chiederle la verità del discorso e andai a chiudermi nella mia stanza; mi spogliai e cominciai a leggere un libro della biblioteca che avevo da alcuni mesi. Smisi presto la lettura e, mentre cercavo di prendere sonno, in un angolo della mia mente erano in piedi mia madre e l’assistente sociale; ma non riuscivo bene a vedere in che rapporto fossero tra di loro ed erano un enigma, se non volevo pensare che fossero un’altra strada dei miei mali.»
(ivi, p. 180-181).

«Per attendere il nuovo reparto dovetti restare alcuni giorni lontano dal lavoro.
Andavo in biblioteca, al cinema del mezzogiorno e ai corsi di lingue: ovunque potessi sentirmi legato alla fabbrica.»
(ivi, p. 193).

Vossler-Croce (1900-1910)

«Mi dispiace immensamente di non poterla servire subito nella questione del Winckelmann. L'edizione del 1847 non si trova nemmeno nella biblioteca nostra e non son riuscito a rinvenire alcuna osservazione sul Gravina in alcuna delle altre edizioni per quanto fornite di indici abbastanza esatti. Ho paura che sia inesatta la citazione dello Stein. Ma scriverò a un mio amico di Strassburg che cerchi nella biblioteca di colà.»
(Karl Vossler, lettera a Benedetto Croce, Heidelberg 26 novembre '900, p. 29. La richiesta di Croce non è conservata).

«Vi ringrazio della recensione delle mie osservazioni sulla storia della critica: non ho visto ancora il «Literaturblatt [für germanische und romanische Philologie]», il cui fascicolo di febbraio non è giunto ancora in biblioteca; ma lo vedrò.»
(Benedetto Croce, lettera a Karl Vossler, Napoli 23 febbraio '904, p. 53).

«Ho parlato molto e a lungo al Borgese. Mi fa l'impressione di un giovane molto avvilito. È stato qui per quattro settimane senza far conoscenze, senza parlar tedesco, senza aver visto né la città né i dintorni, passando il suo tempo fra la biblioteca e la sua cameretta.»
(Vossler, lettera a Croce, München 29 settembre '10, p. 144).