LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

N.B. La casella di ricerca qui sotto opera soltanto sul titolo della testimonianza (di norma, cognome dell'autore e anno).
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Risultati della ricerca

Roncetti (1985b)

«Il secondo dopoguerra, che vede l’istituzione presso la Biblioteca Augusta di un centro di lettura dell’USIS (primo esperimento a Perugia del metodo degli scaffali aperti, che tra l’altro consentì ad una generazione di lettori il primo impatto con i romanzi di Faulkner, di Steinbeck e di Hemingway) è contrassegnato anche dall’intimo collegamento che si stabilisce tra la Biblioteca e la chiesa suburbana di S. Bevignate, perfettamente in linea del resto, da un punto di vista architettonico, con la precedente esperienza di Montelabate. Solo che allora si trattò di una breve parentesi di pochi mesi: S. Bevignate invece significa per l’Augusta quasi vent’anni della sua storia.
La commissione di esperti incaricata di verificare la stabilità del Palazzo dei Priori, che specialmente nel versante di via della Gabbia dava qualche segno di cedimento, nell’intento di diminuire i carichi gravanti sulle strutture dell’edificio, oltre che ordinare l’alleggerimento delle volte della Galleria e lo svuotamento delle soffitte da tutti gli scarti e detriti che vi erano stati accumulati, dispose anche lo sgombero di buona parte delle raccolte librarie della Biblioteca, quelle appunto conservate nelle sale adiacenti alla parete occidentale del palazzo. Fu così che, nell’estate dell’autunno del 1950, tutto il fondo antico, tutti gli altri fondi chiusi e la raccolta delle miscellanee furono trasferiti nel deposito di fortuna allestito nella grande navata della chiesa templare, in condizioni ambientali abbastanza precarie. Provvisto di custodia notturna, detto materiale non fu tuttavia completamente sottratto all’uso pubblico, ma reso disponibile ai lettori mediante un servizio di prelevamento, effettuato con automezzi del Comune tre volte alla settimana, che prese il via nel mese di novembre dello stesso anno 1950. Il deposito di S. Bevignate rimarrà funzionante fino al novembre-dicembre 1968.»

(Mario Roncetti, Appunti per la storia della Biblioteca Augusta nel secolo ventesimo, p. 208-209).

Rosini (2003)

«Fra il 1953 e il 1958, pur continuando a lavorare per il Partito [comunista italiano] e per l’organizzazione dei contadini e per i partigiani della pace, dedicai tuttavia buona parte del mio tempo all’attività parlamentare, che mi piaceva soprattutto perché mi consentiva di frequentare la biblioteca della Camera, ricchissima e ottimamente organizzata. Fui nominato, senza competitori perché era una carica gratuita e del tutto innocua, membro della commissione di vigilanza sulla biblioteca. Fu quello il punto più alto della mia carriera politica.
I frequentatori della biblioteca erano pochissimi, quasi tutti comunisti o socialisti, e vi feci amicizie che durarono anche in seguito: Enzo Capalozza, che ricordo col naso sempre appiccicato al libro perché a distanza maggiore non ci vedeva, che poi fu nominato giudice costituzionale; Vincenzo Cavallari, che ci andava la mattina presto per preparare il concorso che gli fece conquistare la cattedra di diritto processuale penale nell’università della sua Ferrara; Giambattista Gianquinto, che era stato il primo sindaco di Venezia dopo la liberazione, avvocato anche lui.
La biblioteca della Camera mi servì per studiare il regime giuridico della laguna veneta e per proporre una legge che chiarisse le ambiguità e le contraddizioni che nei secoli s’erano accumulate sulla proprietà delle valli da pesca. La mia proposta non fu mai discussa ma mi divertii molto a prepararla e a scrivere una dotta relazione per presentarla.
Altre mie proposte di legge (sei, per l’esattezza, ma soltanto una memorabile) ebbero la stessa sorte.
[...]
Il lavoro serio, che facevo in biblioteca e nella commissione finanze e tesoro, era disturbato dai lavori dell’Aula: cioè dalle forzate lunghe permanenze nel grande salone di Montecitorio, il cosiddetto Transatlantico, dove si dissipava buona parte del nostro tempo in attesa delle votazioni, mentre i colleghi parlavano nell’aula vuota. Quasi tutti discorsi prolissi e inutili, perché le decisioni erano state prese prima che iniziasse la discussione.»

(Emilio Rosini, L'ala dell'angelo, p. 154-155, 157).

Rossanda (2005a)

«Alla fine di quell'anno [1942] avevamo perduto tutto, casa e indirizzo, si mormorava che quelli dell'Armir morivano di gelo in Russia, Stalingrado non era nominata e io studiavo e annotavo nella biblioteca vuota e odorosa di cera con la sensazione vertiginosa che non avrei fatto in tempo a leggere tutto, a vedere tutto, lo scintillante pensato, dipinto, lasciato, pozzo pieno di voci che percepivo di fretta temendo che qualcosa me ne tirasse via. In un presente dove non capivo nulla, non vedevo niente, tutto si chiudeva, una cosa dopo l'altra, tutto mi era impedito fuorché aprire un libro, essere rimandati a un altro prima di averlo chiuso, spalancare porte e intravvedere scorci del passato – mai avrei potuto fermarmi, andare al fondo, sapere davvero, e come si faceva a capire senza conoscere quel che è stato scritto prima?
Cosí un senso di incompiutezza accompagnava quel che mi veniva fra le mani, ma era un innamoramento. Come spiegare che ebbi un tuffo al cuore nel trovare inaspettato un Luca Pacioli a Brera, eccolo in quarto e pergamena, le nitide proiezioni, da quanto tempo nessuno sentiva l'odore di umido delle pagine che con precauzione scollavo? E come dire l'allegria del pescare fra le schede piú antiche della Marciana, ancora in inchiostro, l'acca svolazzante di Hemsterhuis? Sono piaceri solitari e contro il mondo e preziosi e non sapevo bene dove metterli, prendevo e lasciavo. [...]
La guerra cominciava a darci qualche morso ravvicinato, dovette perdurare a lungo l'illusione che dal peggio saremmo stati esenti se fino a tardi le biblioteche non vennero imballate e sfollate. Brera era in disordine ma a Milano avevo trovato una Fondazione Beltrami al Castello sforzesco. Traversavo la grande corte e poi il roseo cortile della Rocchetta, sul soffitto del portico correva il motto di Isabella d'Este, Sine metu nec spe, sine spe nec metu – naturalmente lo avevo fatto mio – e una porticina nella muraglia portava nel grande spazio alto e quadrato della torre a ovest. Là, nell'antica sala del Tesoro, stava la biblioteca del fondo Beltrami, non c'era quasi nessuno e potevo avere un lucido scranno tutto per me e sul piano a cera lasciare i libri, molti, e passare dall'uno all'altro confrontandoli. Mi pareva una grande liberalità, lo era. È come se fosse ieri che ho aperto il Riegl, la Kunströmische Spätindustrie [ma Spätrömische Kunstindustrie]. Titolo arcigno. E d'improvviso le gemme che mi erano parse imperfette e le monete irregolari si rivelavano un altro metro del corpo e dello spazio, andavano a posto, per dir cosi, classicità e alba del Medioevo. Fuori la città forse sarebbe stata devastata quella notte, ma intanto c'era silenzio e oltre i finestroni scendeva una gran pioggia quieta.»

(Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, p. 56-58).

Rossanda (2005b)

«Alla fine del 1942 [a Milano] ci trovammo senza casa per via del bombardamento, e in attesa di trovare due stanze da qualche parte i miei ci rispedirono un'altra volta a Venezia. [...]
Me ne stavo per ore alla Marciana, leggevo i Lehrjahre di Wilhelm Meister e poi la Theatralische Sendung, il solo Goethe che mi sedusse, mi vergogno a dirlo. O alla Querini Stampalia dove Manlio Dazzi teneva sulla scrivania una rosa nella boccia d'acqua e il sole si liquefaceva sul noce lucido dei grandi tavoli ovali.»

(Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, p. 63-64).

Rossanda (2005c)

«Non so chi mi disse: Ma [Antonio] Banfi è comunista. Ero cosí fuori di me che puntai dritto su di lui fra un esame e l'altro. Se ne stava in sala professori, appoggiato al termosifone freddo accanto alla finestra. «Mi hanno detto che lei è comunista». Mi guardò, mi aveva fatto già due esami, dovette concludere che ero quel che parevo, una in cerca di bussola, che non percepiva neppure il senso mortale di certe parole. «Che cosa cerca?» Gli dissi dei volantini che finora avevo visto, della confusione, del non sapere. Si staccò dal termosifone, andò alla scrivania e su un foglietto scrisse una lista nella sua grafia minuta. «Legga questi libri, – mi disse, – quando li avrà letti torni». Uscii, corsi alle Ferrovie nord, in treno apersi il foglietto. C'era scritto: Harold Laski, La libertà nello stato moderno e Harold Laski, Democrazia in crisi; K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte e K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850. Un libro di De Ruggiero, mi pare. Lenin, Stato e rivoluzione. «Di S. [Stalin] quel che trova».
Restai pietrificata. Era comunista, proprio comunista. Bolscevico. [...] Scesi a Como, andai alla biblioteca comunale. C'era un addetto non piú giovane, gentile. Gli tesi il foglietto. «Guardi nell'ultimo cassetto, – mi disse, – quello che non ha etichetta». Mi avviai al vecchio classificatore dai cassetti quadrati. In fondo, in basso, ce n'era uno in bianco, come fosse ancora da riempire. Tirai verso di me. Era pieno. In ordine. Trovai tutto, anche un K. Marx, Il capitale delle edizioni Avanti!, copertina di tela e una piuma rossa – o era una bandiera – sbiadita. Di S. non trovai niente. Sull'Urss c'era un libro di viaggi d'un ingegnere. Compilai le schede e il bibliotecario mi portò i testi. «Li posso portare a casa?» Annuí. Non ci dicemmo niente. [...]
A casa lessi tutta la notte, un giorno, due giorni. Non andai a Milano. Come rientrava, Mimma mi prendeva di mano gli stessi libri. Papà e mamma non chiesero che cosa leggessimo, non chiedevano mai. Da Laski saltai al 18 brumaio e da questo a Stato e rivoluzione. Mi venne la febbre, macigni interi cui ero passata accanto andavano a un loro posto, non potevo piú fare come se non ci fossero o fossero fatali. [...]
Lessi tutto, qualcosa rilessi. Solo Il capitale mi cadde dalle mani, come non fosse il piú urgente. [...]
Tornai a Milano, filai da Banfi. «Ho letto». Tutto? Annuii. Che cosa devo fare? Mi dette un nome, una signora, una professoressa di Como. Vi andai, mi aspettava. [...]
Non avevo sognato avventure, volevo passare la vita in biblioteca. E ora stavo in un'avventura di molti, accettando di fare e andare dove mi era detto.»

(Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, p. 73-75, 78. L'episodio si colloca nell'autunno 1943).

Rossanda (2005d)

«Andavo e venivo da Milano e commisi un errore. [...] eravamo riusciti a mettere a punto un'operazione ai danni della X Mas, [...] era un giorno dei primi di ottobre [1944] e parve opportuno che mi togliessi di mezzo. Andai in bicicletta nei pressi di Varese, a Venegono, dove nella biblioteca dei Caproni mi si permetteva di vedere un libro dell'Alberti ormai introvabile, Brera era sfollata. Piú innocenti di cosí si muore.
Verso il tramonto tornavo in bicicletta e sulla piazza di Como mi intercettò la bella creatura. Era terrea. «Non tornare a casa, ho già avvertito tuo padre». Aveva dovuto denunciarmi, era legata a un ufficiale tedesco che la aiutava.»

(Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, p. 93-94)

Rossanda (2005e)

«Alla fine del 1945 avevamo schiodato a Brera le casse dei libri che tornavano in sede, erano stati imballati in fretta, lavoravamo nel giubilo e nel disordine, fermandoci a leggere accoccolati sui talloni se un testo agognato veniva infine in mano. C'era un'aria di trasloco, ricominciamento.
Tornavano a funzionare Pinacoteca e Biblioteca, mentre fuori al bar Giamaica convenivano pittori, fotografi, scrittori».

(Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, p. 108).

Rossanda (2005f)

«Decisi di lasciare Hoepli e per far lavoro politico, dev'essere stato nel 1947. [...] Intanto avrei dato una mano ad avviare l'Associazione per i rapporti culturali fra l'Italia e l'Unione Sovietica. [...]
Ci installammo in via Filodrammatici, dove incrociavo sulle scale un ragazzo dagli occhi azzurrissimi, Gillo Pontecorvo. Montammo una biblioteca, presi contatti con università e centri di studio. Presi qualche lezione di quella melodiosa lingua ma mi arresi subito; in biblioteca officiò Vittorio Strada, allampanato e taciturno, non ricordo che nutrisse una passione politica, non so se nutrisse già i suoi dubbi. Raccoglievamo una messe di materiali e domande di scambi da istituti, università, musei e conservatori – erano interessati tutti.
Cosí partirono casse su casse, proposte su proposte, ma non ricevevamo se non giornali vecchi di due mesi, qualche settimanale come «Ogonëk» o «Donna Sovietica», qualche rivista come «Voprosy Filosofii» e «Sovetskoe Gosudarstvo i Pravo», dai quali ogni tanto Strada segnalava qualcosa perplesso. E una massa di fotografie di laminatoi e kolchoz spedite, credo, in modo equanime all'intero orbe terracqueo. In capo a un anno fu chiaro che nulla di quel che chiedevamo arrivava»

(Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, p. 121-122).

Rossi (1930-1931)

«Tu fammi un pacco di alcuni libri di studio. (Nel carcere c'è una bibliotechina, ma composta di romanzi che valgono ben poco).»
(Ernesto Rossi, lettera alla madre dal carcere di Bergamo, [1° o 2 novembre 1930], p. 30).

«Un po' di aiuto per passar la giornata l'ho avuto da alcuni libri del carcere. Così stupidi e falsi, però, da far venire il latte alle ginocchia; tutti meno uno: I Malavoglia, che ho riletto con grande interesse, apprezzandolo molto più di quando lo lessi la prima volta: è veramente un capolavoro.»
(lettera alla madre dal carcere di Regina Coeli – come le successive –, 11 novembre [1930], p. 32. Durante il trasferimento da Bergamo a Roma, alcuni giorni prima, Rossi era evaso ma si era poi costituito).

«Ho letto qualche libro del carcere, ma in quattro e quattr'otto li finisco, e valgono ben poco. Ne danno due alla settimana! Mi son fatto dare dal cappellano il Vangelo con gli Atti degli apostoli. Riconosco che aveva ragione [Carlo] Puini, quando si arrabbiava e diceva che "anche Gesù Cristo era un ebreo". Però è davvero meraviglioso che il cattolicesimo voglia ancora risalire al Vangelo: non conosco nessun libro che contenga una morale più anticattolica».
(lettera alla madre, 14 novembre [1930], p. 34).

«Non ho più nessun libro di lettura "amena" oltre quelli del carcere, ma son sicuro che me ne porterai presto. Cerca qualche romanzo voluminoso, che possa distrarmi per qualche ora, anche di autori vecchi, stranieri.»
(lettera alla madre, 27 marzo 1931, p. 62-63).

«Ho letto i primi due volumi delle Avventure di Martino Chuzzlewit del Dickens: il terzo lo leggerò quando me lo daranno, venerdì, dalla biblioteca del carcere. In gran parte è una caricatura dell'ipocrisia: abbastanza divertente. Ci sono, come al solito nei libri del Dickens, dei mattoidi molto buffi. Ce n'è uno ch'è sempre allegro e va in cerca delle situazioni più penose per aver più merito d'essere allegro. Mi farebbe comodo averlo con me nella cella.»
(lettera alla madre, 31 marzo 1931, p. 65).

«Oltre ai pochi libri che mi sono portati con me, ho da leggere quelli della biblioteca del carcere e quelli che mi prestano gli altri politici. Nonostante sian tutti operai, ad eccezione di un avvocato, hanno parecchi libri di storia e di filosofia interessanti.»
(lettera alla madre dal carcere di Pallanza, 13 luglio 1931, p. 75. Rossi era stato trasferito da Roma pochi giorni prima).

Rossi (1932-1933)

«Non so perché ancora ti meravigli che vengan cancellate delle righe nelle mie lettere. [...] So che potrei fare una lettera con sole definizioni del vocabolario da esser censurata da cima a fondo, e che mi basterebbe riportare dei brani dagli stessi libri della biblioteca del carcere per esser "deferito" al Tribunale Speciale.»
(Ernesto Rossi, lettera alla madre dal carcere di Piacenza – come le successive –, 22 luglio 1932, p. 139. Rossi era stato trasferito dal carcere di Pallanza a quello di Piacenza nel novembre 1931 e due anni dopo fu trasferito di nuovo a Roma).

«Ho dovuto portare molti dei miei libri, che ancora avrei desiderato rileggere, in magazzino; e pare che poco a poco ci verranno tolti tutti, meno qualche vocabolario, qualche grammatica e pochi altri libri di studio. Al resto dovrebbe provvedere la biblioteca del carcere, che verrebbe rifornita con i libri di storia e di scienza che più desideriamo. Per mio conto, non mi faccio molte illusioni, perché i libri costan cari e so che alla burocrazia sembreranno somme spaventose anche qualche centinaio di lire all'anno per ogni carcere. Speriamo. [...] Non mi è possibile far commenti a tutto questo, e consiglio anche a te di non farne. Contentiamoci di assumere anche questo come un indice della situazione.»
(lettera alla madre, 5 agosto 1932, p. 147).

«La restrizione per i libri e per i quaderni, che ci eran necessari per studiare, ci ha colpiti tutti in modo molto sensibile, ma ci facciamo coraggio e speriamo che vengano presto delle disposizioni meno restrittive.
Sono andato quest'oggi ad udienza, ma il ragioniere, in assenza del direttore, non ha potuto consigliarci altro che d'attendere. Per ora non ci vengon più consegnate neppure le riviste e i giornali illustrati di cui abbiamo pagato l'abbonamento. Dovremmo limitarci alla lettura della biblioteca del carcere.
La biblioteca di questo carcere è una della migliori e ne vanno assai orgogliosi, perché contiene 2.300 opere; un quarto di esse, però, son libri di religione, eredità della biblioteca di qualche vecchio seminario; un altro quarto son libri scientifici e di storia anteriori all'unificazione d'Italia; nella parte restante c'è una ventina di opere di studio interessanti, e poi romanzi, moltissimi polizieschi e d'avventure, e traduzioni nell'edizioni economiche da tre lire. Il direttore ci disse che per i nuovi acquisti avremmo potuto manifestare i nostri desideri, ma tutto lascia credere che rimarranno desideri.»
(lettera alla madre, 12 agosto 1932, p. 151).

«Purtroppo, mi resta anche ben poco d'interessante da leggere nella biblioteca del carcere, e ci son tante restrizioni per l'acquisto dei libri attraverso l'amministrazione che in tre mesi ho potuto acquistarne solo un paio. Dei libri mandati ultimamente dal Ministero alcuni ne conoscevo (Fustel de Coulanges, Sombart) e gli altri son quasi tutti di filosofìa di Gentile o di gentiliani; ho provato anche questa settimana ad assaggiarne qualcuno, ma non riesco a mandarli giù. Digerirei più facilmente l'olio di ricino. Adesso ho con me l'Antologia critica degli scrittori d'Italia del De Sanctis, a cura di L. Russo, in cui sono svolti più ampiamente gli stessi argomenti che già conosco per averli letti sulla Storia della letteratura dello stesso De Sanctis. È un bellissimo lavoro. Ma poi vorrei leggere qualcosa che corrispondesse di più alla mia forma mentis, ed al genere di studi che prediligo: economia, storia e diritto pubblico.»
(lettera alla madre, 9 dicembre 1932, p. 160).

«Non m'interessa che tu m'indichi altri libri di astronomia popolare. Ho letto volentieri quello del Fabre, tanto per avere qualche idea più chiara sull'argomento; ma non ho voglia di leggerne altri, almeno per ora.
Dopo il Fabre, Mario si è messo a leggere tutti i libri di storia naturale che ha trovato sul catalogo della biblioteca. Ce ne sono diversi, vecchiotti anzi che no, ma scritti bene.»
(lettera alla moglie Ada dal carcere di Piacenza, 6 ottobre 1933, p. 218. Mario era un detenuto comunista, romagnolo, non identificato. L'opera di Jean Henri Fabre, Il cielo, era stata acquistata da Rossi poco tempo prima).

Rossi (1933-1943)

«Sono stato cinque giorni senza niente da leggere. Ore eterne. [...]
Sabato ho potuto avere dal cappellano due libri: La storia del Regno di Napoli del Colletta e I colloqui con Mussolini del Ludwig.
La storia del Colletta era un pezzo che desideravo conoscerla e la leggo molto volentieri. È scritta bene e segue un indirizzo spirituale che corrisponde perfettamente al mio. I Colloqui del Ludwig sono interessanti press'a poco per le stesse ragioni per le quali ti dissi di leggere il libro dello Sherril. Mette conto di farlo conoscere a tutte le persone che hanno ancora un po' di senso critico.
Il cappellano ha per suo conto una discreta biblioteca, di cui ho visto il catalogo; ci son diverse "Storie universali" in parecchi volumi. Spero di poterne avere qualcuna da leggere, almeno fintanto che non mi siano arrivati i miei libri da Piacenza.»
(lettera alla madre dal carcere di Regina Coeli – come le successive –, 20 novembre 1933, p. 229- 230. Rossi vi era stato trasferito da Piacenza alcuni giorni prima).

«Quel che specialmente mi abbatte è lo stare senza far nulla. Ho avuto da leggere ben poco e di scarso interesse.
Il direttore mi ha consentito di scegliere qualche libro in una biblioteca, in cui son diverse opere storiche buone. Ma ancora non le ho avute. [...]
Ho letto i primi cinque libri della Storia del Regno di Napoli del Colletta, che m'imprestò il cappellano. Non son riuscito ad avere gli altri cinque, che completano l'opera. È una storia terribilmente triste, come son tutte le storie scritte da persone intelligenti, che hanno avuto una larga esperienza della vita. [...]
Non avendo altro, ho letto anche un grosso libro in cui sono stati raccolti tutti gli scritti e i discorsi di D'Annunzio aviatore durante la guerra. Ci sono delle pagine stupende. La commemorazione per la morte del compagno Fra Ginepro è veramente commovente. E dalla lettura di tutto il libro risulterebbe chiara l'impressione dell'alto valore che ha avuto l'attività guerriera di D'Annunzio. Ma poi, quando si legge che, scrivendo di se stesso, dice d'essere "un eroe che non può esser diminuito in nessun modo e che è predestinato a sempre più grandeggiare nel più remoto evo", e quando si legge nel libro del Ludwig che gli ha confessato, come artista, che a Fiume andò "solamente per agire", per amore della bella gesta, ci si domanda: tutto quel che ha fatto, anche senza guardare agli anni dopo l'impresa di Fiume, per i quali la nostra vista può essere offuscata dalla passione di parte, che vale? Dal punto di vista umano cosa ha affermato con la sua vita e con i suoi scritti? E si resta in dubbio, malgrado il riconoscimento dell'indiscutibile grandezza della sua arte.
In questo momento posso darvi una buona notizia. Il sottocapo m'ha portato sei libri che avevo scelti nel catalogo del direttore. Mi sembra di rinascere. Finalmente per parecchi giorni non sarò più solo.»
(lettera alla madre e alla moglie Ada, 1° dicembre 1933, p. 232-234).

«Leggo troppi libri stupidi e ne sono disgustato. Questa settimana: Eva ultima, di Bontempelli (che scemenza!), Cleopatra, d'un tedesco (nelle "Scie" di Mondadori: idem come sopra), e Dante vivo di Papini, che m'è piaciuto pochino, pochino.»
(lettera alla madre, 25 giugno 1934, p. 253).

«Riccardo [Bauer] mi parlava appunto giorni fa d'un libro della biblioteca "speciale" qua del carcere: La vita dello spirito [ma Il regno dello spirito] del Caird (edizioni Vallecchi), per dimostrarmi il valore completamente diverso del pensiero protestante antidogmatico, profondamente religioso, ma d'una religiosità in cui il concetto del divino tende a divenire immanente a tutti gli aspetti della vita, in confronto al pensiero cattolico, e specialmente al pensiero cattolico italiano.»
(lettera alla madre, 3 aprile 1936, p. 330).

«Il libro su Bismarck, di cui mi parli, fu uno dei primi che lessi della biblioteca del carcere, quando venni qua da Piacenza, e mi par d'avertene allora scritto a lungo.
Fra le biografie del Ludwig mi parve la migliore, non per quel che dice il Ludwig, ma per gli scritti che riporta del Bismarck, una delle più perfette realizzazioni che si sian conosciute nella storia moderna di quelle idee che più mi repugnano: superomismo, volontà di potenza, ragion di Stato.»
(lettera alla madre, 17 settembre 1937, p. 389).

«Ho anche letto una raccolta di novelle del Maupassant: Toine. L'ho avuto per combinazione. Mancando le prime pagine, nel catalogo del cappellano non c'era il nome dell'autore, ed io l'avevo richiesto, credendo fosse un saggio storico di Taine... Io sono un grande ammiratore del Maupassant: in questa raccolta c'è una novella: Les moustaches, molto frizzante, che, se tu la leggessi, credo varrebbe a farmi perdonare i baffi, quando me li farò crescere.»
(lettera alla moglie Ada, 12 febbraio 1939, p. 467).

«Sull'esistenza di Dio, ricordo, ebbi anche una curiosa discussione, se così si può chiamare, col cappellano d'allora, quando arrivai qua a Roma, subito dopo l'arresto. Non avevo niente da leggere e le giornate nell'ozio e nell'immobilità non passavan mai. Mi veniva voglia di batter la testa nel muro, tanto per far qualcosa. I due libri alla settimana della biblioteca del carcere, senza possibilità di scelta, servivano a poco meno di niente. Per disperazione chiesi il cappellano, pensando che avrei potuto ottenere da lui almeno i Vangeli.
– Vuoi il Vangelo, – mi domandò quando venne: uno spilungone giovane; – allora credi in Dio?
– No, no – precisai – ma il Vangelo è un libro che leggo sempre volentieri. [...]
E così ebbi un Vangelo piccino, piccino, senza neppure gli Atti degli Apostoli, ma sempre buono per tenermi compagnia.»
(lettera alla moglie Ada, 4 giugno 1939, p. 486-487).

«Ci hanno ritirato tutti i libri del carcere, perché devon fare un riscontro generale. Per noi non è gran male, ma per chi non ha libri propri, star senza per più d'un mese, specie se è isolato, è una sofferenza grave. Una delle cose, per mio conto, di maggiore importanza in un buon ordinamento carcerario, è proprio il servizio del prestito dei libri. È l'unica àncora di salvezza per impedire il completo abbrutimento di tanti poveri diavoli costretti all'ozio.»
(lettera alla moglie Ada, 16 luglio 1939, p. 495-496).

«A "Regina Coeli" siamo entrati verso le 21, e dopo le diverse formalità e il deposito della roba in magazzino, siamo stati condotti al quarto braccio, dove abbiamo passato sei anni. [...]
Questi primi giorni sono i più duri, perché ancora non abbiamo perso certe abitudini civili che avevamo riacquistate al confino, e perché nell'isolamento le ore non passan mai, se non si ha qualcosa da leggere. M'ero portato nella valigia due libri di studio – uno d'economia e uno di storia – ma, nonostante le mie insistenze, non sono ancora riuscito a farmeli consegnare. M'hanno portato il catalogo della biblioteca speciale del carcere: ma nei sei anni che sono stato qui li ho già letti tutti. Speravo ne avessero aggiunti dei nuovi, invece c'è solo qualche altro libro di religione. Ho, però, fatto un lungo elenco di quelli che rileggerò volentieri e spero oggi d'averne alcuni. Nei tre giorni passati ho avuto solo un paio di romanzetti Salani per signorine, idioti quanto mai, ma che pure ho centellinato più che ho potuto, per farli durare.» 
(lettera alla madre, 13 luglio 1943, p. 526. Dal novembre 1939 ai primi di luglio 1943 Rossi era stato al confino, a Ventotene).

Russo (1912 e 1917)

«Ora è un anno, una grande felicità intellettuale m’invase leggendo l’Estetica e le annate della Critica (Nocturna versate manu, versate diurna!) e la Biblioteca della Normale opportunamente mi forniva di quei libri; quest’anno ho proseguito l’antico culto (mi appare già antico), e ora mi rileggo molti articoli della Critica in Problemi d’Estetica, che ho potuto avere di mio»

(Luigi Russo, lettera a Benedetto Croce, Vittoria 28 agosto 1912, p. 3)

 

«Fino a qualche anno fa non possedevo la sua Estetica, perché mi pareva di possederla in un’altra maniera più ideale, dopo che l’esemplare esistente alla Biblioteca della Scuola di Pisa era stata tra i miei libri, per quattro anni, compagna»

(Luigi Russo, lettera a Benedetto Croce, S. Leucio 11 settembre 1917, p. 19)

Russo (1946)

«Ripensiamo a quei tre o quattro uomini di alta cultura e di non spregevole mente che si immisero nel movimento fascistico: la loro rovina mentale fu ruinosa nel giro di pochi anni, e con la rovina mentale anche quella morale e politica. [...] Sotto il fascismo, ci furono gli uomini claustrali, che si chiusero nelle biblioteche pubbliche e private, e salvarono gli studi e al tempo stesso segnarono come termine segreto di questo loro appartato elucubrare la liberazione dalla schiavitù fascistica e il nuovo risorgimento della nazione a una libera e progressiva civiltà.».
(Luigi Russo, Proemio, «Belfagor», 1, n. 1 (15 gen. 1946), p. 3-6: 3).

«Ci dissero che eravamo degli intossicati e dei malinconici, e il nostro capo spirituale, Benedetto Croce, fu assiduamente ingiuriato come un vile sedentario che dal chiuso della sua biblioteca non poteva intendere le nuove vie della storia. Purtroppo gli uomini di biblioteca hanno avuto ragione sul fatuo e gracchiante o belante ottimismo degli uomini della piazza, e la punizione della storia è giunta piú tremenda e piú grave di quella stessa che gli intossicati e i malinconici non avevano potuto o voluto, per pietas fraterna e filiale, prevedere.».
(Luigi Russo, discorso inaugurale tenuto all'Università di Pisa il 25 novembre 1944, poi pubblicato col titolo L'Università di Pisa riaperta, in De vera religione: noterelle e schermaglie, 1943-1948, [Torino], Einaudi, 1949, p. 31-49: 40-41).


Russo (1958)

«Ma ormai la Biblioteca [nazionale di Roma], tra una chiacchiera e l'altra, tra una guerra e l'altra, era in stato di disgregazione, per l'impossibilità materiale di ospitare i libri, per il pubblico sempre più numeroso e assillante, che non trovava soddisfazione, dato il numero limitato degli impiegati, proporzionalmente sempre più scarsi e mal pagati.
La situazione della Vittorio Emanuele in questo dopoguerra era veramente pietosa. Gli impiegati, stipati in poche celle semibuie, non riuscivano ormai a tener dietro a nulla: montagne di materiale bibliografico giacevano senza schedatura e senza sistemazione. Trovare un libro recente a catalogo era un'idea comica che dava luogo a facezie, migliaia di lettori al mese si accavallavano nelle sale male illuminate e mal sorvegliate, i fattorini erano costretti a trascinare letteralmente, dalle cantine fino al terzo piano, per chilometri, i libri che arrivavano naturalmente dopo ore. Finalmente il 6 luglio 1953 la Biblioteca cominciò forse per un intervento della divina Provvidenza, a scricchiolare e a crollare. Dato che i crolli dei muri non sono previsti dal regolamento per le Biblioteche, apparve un cartello sulla porta con sopra scritto: «Chiuso per la consueta spolveratura annuale». I soliti eufemismi, che in ogni tempo hanno fatto la fortuna della nostra nazione. La spolveratura durò molti mesi, fino al 4 gennaio 1954; ci furono sopraluoghi del Genio Civile che dichiarò indispensabili lavori per più di 80 milioni, vennero sfondati pavimenti, puntellate pareti, sgomberate totalmente le scaffalature centrali in tutti i corridoi dei vari piani, furono trasferite 26 tonnellate di pubblicazioni non schedate nel sottosuolo del monumento a Vittorio Emanuele II, al Museo del Vittoriano, detto ormai «la tomba del libro ignoto».
Era veramente la fine: ma non sembrò ancora sufficiente ai nostri governanti per decidersi a costruire rapidamente la nuova sede. Le aree nel centro di Roma erano ormai salite a prezzi folli: si cominciava a parlare di zone lontane e scomodissime, si consigliava di costruire la nuova Biblioteca centrale all'EUR, a mezza strada tra Roma e Ostia, questo sempre per incoraggiare gli studi e gli studiosi, come li incoraggiava un tempo Teodorico o Alarico. Il Ministro Segni, che almeno è un professore universitario e un accademico dei Lincei, nominò una Commissione ministeriale per studiare quale poteva essere la zona di Roma più adatta per costruirvi la Biblioteca. La Commissione, dopo varie riunioni, indicò saggiamente l'intera area del Castro Pretorio, nella quale sorgevano e sorgono tuttora delle caserme. Nel frattempo la Biblioteca si riapriva al pubblico, cambiava la Direzione, si cominciò a vedere qualche muro imbiancato, un po' più di ordine e di pulizia, qualche scheda di più ai cataloghi.
Il posto riservato alle nuove pubblicazioni era però ridotto al minimo: i libri nuovi venivano spesso francescanamente sistemati sulla nuda terra, mancando le scaffalature; i carri funebri per il monumento a Vittorio Emanuele si susseguivano periodicamente rovesciando montagne di materiale inutilizzabile. Bisogna pensare che l'incremento annuo della Biblioteca Nazionale è di diecine di migliaia di volumi. I duemila lettori quotidiani erano costretti a chiedere in lettura parte delle opere un giorno per l'altro, in seguito ai dislocamenti di intere sezioni della Biblioteca in zone del palazzo sempre più scomode e distanti.
È certo comunque che la Vittorio Emanuele sarebbe rimasta per altri cinquanta anni a dormire i suoi scomodi sonni e a rivoltarsi nel suo letto, come la vecchia di Dante che suo dolore scherma, al Collegio Romano, se nel febbraio del 1958 non si fossero rotte simultaneamente quattro biffe applicate nel 1953 dal Genio Civile ad antiche crepe murarie. La rottura delle biffe dimostrò chiaramente che i muri continuavano a lesionarsi in maniera preoccupante. La Direttrice fece chiudere immediatamente la Biblioteca al pubblico, mentre il Genio Civile iniziava i sopraluoghi. Soltanto gli impiegati dovevano restare al loro posto, col pericolo di restare schiacciati e sotterrati come mastro Misciu e Rosso Malpelo nella cava di rena di una celebre novella del Verga. Apparve un cartello sulla porta con la scritta: «Per lavori in corso la Biblioteca rimane chiusa».
[...] I bibliotecari e i custodi della Vittorio Emanuele, finalmente tornati a una pace claustrale, iniziavano il riordinamento della Biblioteca, rendendosi improvvisamente conto che il loro numero era appena sufficiente a tenere in ordine gli uffici, la schedatura, insomma i servizi inerenti alla conservazione e alla sistemazione del materiale bibliografico. Le Biblioteche in Italia non prevedono quasi mai la frequenza del pubblico, e la Nazionale di Roma, nonostante l'enorme afflusso di studiosi negli ultimi anni, meno delle altre.
Nell'aprile del 1958 fu ricostituita la Commissione Ministeriale, presieduta dal Prof. Ferrabino e composta tra l'altro dai senatori Ermini e Ciasca, dai Professori Morghen, Levi Della Vida, dalla Direttrice della Biblioteca Dott. Laura De Felice, per indicare ancora una volta quale sede sembrasse più adatta per la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Dall'aprile al settembre la Commissione ha ristudiato tutte le possibili soluzioni, dalle più assurde (EUR, a 18 km. da Roma), alle più complicate (Ospizio di San Michele a Ripa sul Lungotevere, con la necessità di sfrattare centinaia di famiglie), fino a riproporre quella già adottata dalla Commissione del 1953: l'area del Castro Pretorio o del Macao. Questa area sembra veramente l'unica possibile, per la relativa vicinanza alla stazione centrale e alla Città Universitaria. Il centro storico della città è infatti ormai intoccabile e la futura biblioteca ha bisogno di molto spazio.
[...] La Biblioteca intanto è chiusa, e la decisione si fa attendere.»

(Pietro l’Eremita, Storia inverosimile ma vera della Biblioteca nazionale di Roma, «Belfagor», 13, fasc. 6 (1958), pp. 735-738. Nonostante lo pseudonimo, a firmare l’articolo fu Luigi Russo, come segnalato da una nota a piè di pagina inserita in coda allo scritto: «Queste notizie sono state raccolte diligentemente dal direttore di «Belfagor» in persona, e la noterella porta una firma generica per non invischiare i singoli informatori in polemiche superflue e nocive. La responsabilità è tutta dunque del direttore di «Belfagor». E a lui vanno indirizzate aggiunte o correzioni, o proposte, sperando che quella del nostro intimo amico Pietro l'Eremita non rimanga una vox clamantis in deserto.»)

Saba (1957)

«Mia cara Linuccia, nato nel secolo del dolore (quale fu l'Ottocento), vissuto (ed anche sopravvissuto) in quello che ebbe, oltre il dolore, l'angoscia, mi è singolarmente penoso ricordare, sulle soglie della notte, il passato. Ma voglio e devo rispondere ad una tua domanda: quali cioè erano i libri che leggevo quando, a 17 anni circa, incominciai a scrivere, con la coscienza di scrivere. [...]
Dei libri che possedevo, quello che piú leggevo era il Leopardi [...]. Ma un amico della mia età mi disse che esisteva, viveva ancora, un poeta ben piú grande del Leopardi: che egli considerava del tutto sorpassato. Il poeta si chiamava G. C. [Giosue Carducci] Pregai l'amico di prestarmelo: ma non ce l'aveva nemmeno lui. Mi consigliò di leggerlo alla B. C. [Biblioteca civica di Trieste], dove ce l'avevano sicuramente.

La B. C. non era nel 1900-1901 quella che è oggi: consisteva in una sala polverosa aperta al raro pubblico, e preceduta da un'anticamera, alle pareti della quale erano appesi dei ritratti (che si assomigliavano tutti) e rappresentavano personaggi in parrucca bianca ed incipriati. Entrati nella stanza pubblica, bisognava empire una scheda, firmarla, e presentarla ad uno strano inserviente (che attendeva in piedi davanti ad una finestra, dalla quale finí poi col buttarsi giú). Era una figura terribile, quasi agghiacciante: credo che l'avesse, in modo particolare, con gli scolari, che sospettava, a ragione, di firequentare la B., e quindi di togliere lui alla silenziosa meditazione di tristi pensieri, al solo scopo di copiare le difficili versioni dal greco e dal latino. Dopo una mezz'ora circa di attesa, mi portò le opere in versi del C.»

(Umberto Saba, Della Biblioteca civica ovvero della gloria, 1957, in Prose