LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

N.B. La casella di ricerca qui sotto opera soltanto sul titolo della testimonianza (di norma, cognome dell'autore e anno).
Per testimonianze relative a singole biblioteche vedi l'Indice delle biblioteche, per quelle di/su singole persone vedi l'Indice delle persone, per quelle relative alle biblioteche di una singola località vedi l'Indice delle città.
Per fare ricerche sulle parole delle testimonianze usare la casella Cerca nella barra in alto a destra.

Risultati della ricerca

Salvemini (1923)

«Mentre ero a leggere nella Biblioteca della Camera, è passato [Pietro] Baldassarre, mi ha riconosciuto, si è fermato a parlarmi. È salandrino, è antifascista.»
(Gaetano Salvemini, Diario 1922-1923, Roma, 1° maggio 1923, p. 355).

«Mentre lavoravo nella Biblioteca della Camera, è venuto [Giacomo] Matteotti. Ci siamo salutati molto cordialmente. Mi ha detto che sperava di rivedermi nel partito. Ho risposto che non c’era speranza: non ho fede nei vecchi uomini, e non ho fede che possano essere messi da parte. Così siamo entrati in discorso.»
(ivi, Roma, 3 maggio 1923, p. 358).

Salvemini (1949a)

«Non c'era nessuna biblioteca nè nella scuola [il Seminario di Molfetta] nè nella città. I soli libri che esistessero ufficialmente, erano i libri di testo. Fino a quattordici anni soffrii le forme più spaventose di inedia intellettuale. Mi toccò leggere finanche i romanzi di Padre Bresciani in una collezione della Civiltà Cattolica, che vegetava in casa di un compagno [di scuola].»

(Gaetano Salvemini, I miei maestri, in Che cosa è la coltura?, p. 31-60: 33. Discorso tenuto all'Università di Firenze il 15 novembre 1949 riprendendo l'insegnamento di Storia moderna, già pubblicato col titolo Una pagina di storia antica, in «Il ponte», 6 (1950), n. 2, p. 116-131. Salvemini studiò al liceo-ginnasio del Seminario di Molfetta fino alla licenza liceale).

Salvemini (1949b)

«Ai libri provvedevano la biblioteca dell'Istituto [di studi superiori di Firenze], la Nazionale e la Marucelliana. Quest'ultima badava d'inverno anche al riscaldamento, la sera, fino alle dieci; dopo di che correvamo a ripararci in letto, e dalla bocca e dalle nari si levavano colonne di vapore acqueo che era un piacere vederle»

(Gaetano SalveminiI miei maestri, in Che cosa è la coltura?, p. 31-60: 39. Discorso tenuto a all'Università di Firenze il 15 novembre 1949 riprendendo l'insegnamento di Storia moderna, già pubblicato col titolo Una pagina di storia antica, in «Il ponte», 6 (1950), n. 2, p. 116-131. Salvemini iniziò gli studi universitari nel 1890, a Firenze, vincendo una borsa di studio).

Sandri (1963)

«Fu al Seminario Romano Minore che incontrai per la prima volta don Giuseppe De Luca.
Parlo di più che quaranta anni fa, novembre 1922.
Mi era capitata si direbbe oggi una piccola «grana».
Ero arrivato a Roma da Bologna, nel cui seminario per «i piccoli» tutto il mondo esterno di lotte, polemiche, risse si riverberava accesissimo; [...]
Ma ciò che rendeva vivissimo l’ambiente era il gran fervore di studi, la libertà nelle letture culturali; la biblioteca [del Seminario arcivescovile di Bologna] ricca e varia era aperta sempre anche ai più giovani, ad eccezione d’uno scaffaletto protetto da grate rugginose, sul quale un cartello sbilenco ammoniva «scomunica per tutti».
Quando arrivai al Seminario Romano trovai invece un ambiente ovattato: e se il mondo esterno vi entrava, era come se vi si movesse in punta di piedi, quasi per non disturbare, in quel palazzetto posto lì a due passi dalla Basilica di S. Pietro, una quiete di sempre. [...]
Gli studi erano curati, controllatissimi, il diario dei corsi avvertiva «prima nix scholae vacant» come negli orari scolastici di cento anni prima.
Può darsi che una biblioteca ci fosse, ma né in quell’anno né dopo vi misi mai piede. [...]
[De Luca] Aveva avuto il permesso di frequentare la Biblioteca Vaticana anche fuori orario; lo si vedeva uscire subito finito l’insegnamento, tra le undici e mezzogiorno, e rientrare verso le due o più tardi; in refettorio, alla tavola dei «superiori», nessuno pensava a fargli trovare qualcosa di caldo, sicché mangiava quasi sempre freddo.»
(Leopoldo Sandri, Ripetitore nel Seminario Romano Minore, in Don Giuseppe De Luca: ricordi e testimonianze, pp. 309-315: 309-313; il volume di ricordi su De Luca ebbe una prima edizione nel 1963 presso i tipi della Morcelliana, per poi essere ristampato nel 1998 in anastatica con le Edizioni di storia e letteratura).

Saponaro (1918)

«Son passato dalla biblioteca Vittorio Emanuele per una ricerca oziosa. Professori nella sala riservata. molti professori. Quanti professori! «Perchè studian tanto? Perchè tanto si dilettano o si affannano di ficcar gli occhi (anche il cervello? anche l'anima?) tra vecchi libri? Perchè rinunziano alla pomeridiana passeggiata in villa Borghese o ai concerti dell'Augusteum? perchè non vanno a incontrare presso Bocconi la Ines? E quando escono di qui non san fare niente perchè non hanno appreso l'azione, non sanno dire la parola nuova perchè non han conosciuto che parole vecchie. E non riconoscono la verità perchè ne han veduto soltanto la maschera, e non san guardare in faccia la bellezza perchè non han fatto che sezionarne il cadavere. Ho chiesto una guida di Frascati, me l'han pôrta dopo lunga attesa. l'ho scorsa, son disceso.»

(Michele Saponaro, Peccato: sette mesi di vita rustica, «Il mondo», 4, n. 50 (15 dicembre 1918), p. 14-15: 14. Il romanzo fu pubblicato a puntate, a partire da quel numero).

Savinio (1943-1944)

«Ma se tu credi la nota bibliografica [su Luciano] necessaria, ti prego di scusarmi e di farla fare a un altro, per esempio a [Celestino] Capasso che in mezza giornata in biblioteca la metterà a posto, perché io, che come tu sai mi devo stare un po’ riguardato, non posso uscire per andare in biblioteca.»
(Alberto Savinio, lettera a Valentino Bompiani, [Roma] 12 novembre [1943], p. 193).

«Pregavo dunque Capasso di prendersi nella biblioteca il Luciano di [Luigi] Settembrini, ritrovare le parole greche omesse dal tipografo e trascriverle nelle bozze.»
(Savinio, lettera a Bompiani, Roma 2 giugno 1944, p. 235).

Scalfari (2012)

«Avevo scritto un saggio sulla politica finanziaria della Destra italiana nel periodo tra il 1862 e il 1865, quando la nascita dello Stato unitario aveva imposto come primo problema quello di edificare la struttura amministrativa e l’architettura finanziaria d’un Paese che aveva ereditato il pesante lascito di diversi Stati e staterelli. Quel tema mi affascinava e avevo fatto ampie ricerche alla Biblioteca Nazionale e in quella dell’Università, del Senato e dell’Istituto di Agricoltura. Attraverso alcuni suoi amici mio padre riuscí a far leggere il mio saggio al direttore della «Nuova Antologia», rivista culturale tra le piú autorevoli dell’epoca. Inopinatamente, visto che il mio nome era del tutto oscuro, il saggio fu accettato e pubblicato. Era il 1947, avevo ventitre anni e quello fu il mio battesimo da pubblicista dopo le esperienze adolescenziali di «Roma Fascista».»

(Eugenio Scalfari, Racconto autobiografico. Il testo è stato pubblicato per la prima volta in Eugenio Scalfari, La passione dell'etica: scritti 1963-2012, saggio introduttivo di Alberto Asor Rosa, racconto autobiografico di Eugenio Scalfari, notizie sui testi e bibliografia ragionata a cura di Angelo Cannatà, Milano, Mondadori, 2012, "I meridiani")

Scappini (1979)

«Coi suggerimenti dei funzionari, a Empoli riuscimmo a mettere in piedi una buona attrezzatura per stampare volantini, riprodurre giornali e materiali del partito. Tra Livorno e Empoli vi era una stretta collaborazione. I compagni di Livorno erano più attrezzati, ma anche noi riuscimmo a mettere in piedi una rudimentale stamperia nella casa di un simpatizzante [...]. In quel tempo furono organizzate anche delle piccole biblioteche con l'acquisto di libri di Gorki, Romain Rolland, Barbusse, Zola, Garibaldi. Inoltre furono organizzate letture collettive di materiali del partito».

(Remo Scappini, in: I compagni di Firenze: memorie di lotta antifascista, p. 1-108: 51).

«Verso la metà di novembre [1933], in treno, fui trasferito a Roma, a Regina Coeli [...]. A Regina Coeli fui messo in una cella da solo [...]. Avevo ricevuto del denaro dai miei a Forlì, e ne ricevetti ancora a Roma, così organizzai la mia vita di carcerato per una lunga durata. Richiesi i mezzi per scrivere, ma il giudice non me li concesse; non potevo fare altro che leggere e camminare, in una cella lunga 2,60 m e larga 1,80! La biblioteca del carcere passava soltanto 2 libri alla settimana, tutti di scarso valore culturale (Salgari, G. Verne, Guido Da Verona ecc.). C'erano anche libri di Flammarion, di Verga e di Manzoni, ma per avere questi occorreva l'amicizia con lo «scopino», e bisognava «ungere» (cosa che imparai a fare in seguito). Dopo molto tempo riuscii ad acquistare una grammatica tedesca, perché per acquistare i libri ci voleva l'autorizzazione del giudice di sorveglianza, e questa o tardava o non veniva.»
(Ivi, p. 89).

«Al carcere di Fossano (un vecchio convento) non si stava male, c'era aria e non molta disciplina. Fui messo in un camerone assieme ad un'altra ventina di detenuti, tutti comunisti, meno 2 anarchici [...]. Già funzionava il «circolo» di studio, con l'insegnamento di diverse materie (la storia d'Italia, il movimento operaio italiano e internazionale, la storia del P.C.d'I. e quella del P.C.U.S., l'economia politica, e anche la lingua e la letteratura italiana). C'erano testi legali italiani e testi illegali, come il saggio sul materialismo storico di Bucharin, un compendio di economia politica, la «Storia della socialdemocrazia tedesca» del Mehring, la «Storia del P.C.U.S.» di Jaroslaski, ed altri libri che venivano tenuti nascosti di giorno sotto il pavimento, dove era stata scavata una buca. Un giorno, ritornando dal passeggio, trovammo la camerata chiusa. Era successo che in una perquisizione avevano scoperto la buca [...]. Ne seguì un «processo» interno, e una quindicina dei compagni più in vista furono puniti e trasferiti a Civitavecchia (io fui punito con 35 giorni di pancaccio, con pane e acqua quattro giorni alla settimana, e senza potere fare la spesa. Una punizione dura, considerata la rigidità della vita carceraria, anche perché durante la punizione eravamo privati dei libri).»
(Ivi, p. 91-92).

Scerbanenco (1966)

«Poi venimmo a Milano, dove mamma cominciò ad ammalarsi e a entrare e uscire dall'ospedale, più tardi seppi che era un tumore, e dopo l'operazione rimase per sempre in una sala dell'ospedale in via Commenda, dove andavo a trovarla molto raramente. Dovevo lavorare, dovevo leggere i libri presi in prestito alle biblioteche, dovevo scrivere e non capivo niente della vita intorno a me, non vedevo nulla, ero come cieco e certo per questo soffrii pochissimo in quel periodo che pure fu così amaro.
[...]
Rimasi lì da Borletti un anno e mezzo. Feci anche carriera. Si accorsero che ero un poeta e mi misero al magazzino spedizioni, a scrivere l'entrata e l'uscita delle merci. [...] Come nelle biografie degli eroi americani, la sera studiavo. Soltanto non avevo lo spirito pratico degli eroi americani, e così studiavo filosofia. Prendevo i libri in prestito alla biblioteca del Castello Sforzesco, e li leggevo poi all'osteria dove mangiavo. Siccome l'osteria chiudeva all'una, smettevo di leggere i trattati di filosofia all'una, poi andavo a dormire all'albergo popolare. Lavorando, stavo diventando ricco, e non stavo più nel dormitorio comune, ma avevo la stanzetta che costava di più. In quella stanzetta, non più larga di un grosso baule, ho imparato la logica di Kant e la dialettica di Hegel e lo scetticismo di Hume.»

(Giorgio Scerbanenco, Io, Vladimir Scerbanenko [1966], p. 223-252: 229, 234).

Schiaparelli (1954)

«C'era una terrazza circondata da begonie di un rosa vivace dove mettevano la culla di Schiap, che rimaneva per ore sotto un albero del pepe. Lei se ne ricorda perfettamente, anche se aveva solo un anno. La terrazza si trovava di fronte alle finestre della biblioteca dell'Accademia dei Lincei, e per qualche strana ragione quella biblioteca resta per lei un ricordo legato all'infanzia più che all'adolescenza. Senza dubbio, con le alte colonne e il gigantesco mappamondo la biblioteca sembrava enorme.
Anche quando ero così piccola, quel luogo tanto diverso da tutto ciò che conoscevo mi avvolgeva con una deliziosa sensazione di pace e di distacco. Quando fui più grande, ebbi il permesso di guardare quei libri meravigliosamente illuminati in cui, sotto cieli blu e rosso sangue, erano dipinte figure di personaggi fiabeschi. In seguito, la biblioteca privata di mio padre [Celestino] divenne per me rifugio e fonte di gioia. Nelle pagine di libri rari e preziosi trovai un mondo fantastico di antiche religioni e scoprii il culto delle arti. Alla morte di mio padre, mia madre donò i libri alla Biblioteca nazionale. Ne fui tremendamente dispiaciuta. Li avrei voluti io.»

(Elsa Schiaparelli, Shocking life: autobiografia di un genio della moda, p. 19. L'opera, col titolo Shocking life, fu pubblicata per la prima volta a Londra nel 1954).

Sciascia (1963)

«Lo stesso giorno, un prete del mio paese, casualmente parlando di libri, mi raccontò di quando, ragazzo di seminario, aveva assistito alla defenestrazione della biblioteca del vescovo Lagumina [...]. Il Lagumina, vescovo di Girgenti (io ho un vago ricordo di una sua visita pastorale al mio paese), era un grande arabista, e uomo di viva intelligenza; aveva una grande biblioteca [...]. E mi affiorò il ricordo di un saggio del Lagumina, una specie di perizia postuma, sui falsi dell’abate Vella: e subito andai a cercarlo in biblioteca.
La perizia del Lagumina mi portò a rileggere lo Scinà, e poi la prefazione dell’Amari alla sua Storia dei musulmani di Sicilia

(Leonardo Sciascia, Perché ho scritto «Il Consiglio d’Egitto», p. 177. Probabilmente lo scrittore andò a consultare lo scritto in una biblioteca di Palermo).

Cfr. Alberto Petrucciani, Don Giuseppe Vella, l’“ignorantissimo impostore maltese”: tra fonti, torchi e biblioteche, «Todomodo: rivista internazionale di studi sciasciani», 8 (2018), p. 75-118.

Sciascia (1976)

«Lavoro per ora a raccogliere documenti, testimonianze e interpretazioni su un momento confuso ed oscuro della storia siciliana, su un fatto di cento e più anni fa in cui "mene reazionarie" (così sono intestate le cartelle dei rapporti di polízia) si esaltano in gratuite atrocità e si astraggono e svaniscono [...] nei silenzi più o meno interessati. [...]
Per questo lavoro, ogni mattina vado all'archivio di Stato o alla biblioteca comunale. Ci vado servendomi di un mezzo pubblico e ne torno a piedi, attraversando quasi tutta la città. Quelle strade [...] sono come una parte di me, corrispondono a quello che sono, a quello che conosco, a quello su cui mi arrovello; e corrispondono anche alla mia quasi quotidiana delusione delle ore passate all'archivio o in biblioteca. Ogni mattina, o quasi, aprendo una cartella di documenti o un volume a stampa in cui qualcosa dovrei trovare di quello che cerco, non la trovo. [...] Raccolte di giornali: e mancano proprio i numeri che io cerco.»

(Leonardo Sciascia, Lettera ai siciliani, p. 1. Lo scrittore stava lavorando al racconto I pugnalatori, pubblicato nell'autunno di quell'anno).

Sciascia (1977)

«Tra il '36 e il '38, nella scuola che io frequentavo [l'Istituto magistrale di Caltanissetta], insegnavano due giovani professori che si erano laureati con una tesi su De Roberto. Uno dei due era Vitaliano Brancati. Non più letto e quasi dimenticato, Federico De Roberto era dunque noto a una ventina di ragazzi, e da tre o quattro amato. Trovare i suoi libri non era facile: qualcuno in biblioteca, qualche altro in prestito dagli stessi professori: ma siamo arrivati, credo, a leggere tutti i romanzi e i racconti. I saggi ci sembrarono, al primo assaggio, noiosi [...]. L'impressione più forte ci venne allora dai racconti: i Processi verbali, La sorte, Cocotte. Su I Viceré pesava, come ancora pesa, il giudizio di Croce e dei crociani: ed era difficile, nella scuola di allora, mandare al diavolo Croce e i crociani, la poesia e la non poesia, e leggersi I Viceré, come poi durante la guerra li lessi, pensando che tanto peggio per la poesia, se poesia non c'era».

(Leonardo SciasciaPerché Croce aveva torto, «La Repubblica», 14/15 agosto 1977, p. 10. Ripubblicato in Federico De Roberto, I Viceré, introduzione di Luigi Baldacci, con uno scritto di Leonardo Sciascia, Torino, Einaudi, 1990, p. XXVI-XXVIII,  e in «La Repubblica», 10 novembre 2007, col titolo Croce sbagliò: 'I Viceré' è un grande romanzo)

Sciascia (1987)

«A scuola, al secondo anno di storia della filosofia [...], ebbi la fortuna di trovare un professore che la filosofia amava raccontarcela per problemi [...].
Alla prima lezione, il professore – si chiamava Giuseppe Bianca [...] – sulla lavagna disegnò un cerchio da un lato, un albero dall'altro [...].
Tra i filosofi di cui si conversava (propriamente si conversava, e anche, cosa che allora era incredibile potesse accadere in un'aula scolastica, fumando), il professore evidentemente amava molto Spinoza; e io ne ero affascinato. E mi consigliò, il professore, di leggere un libro che su questo filosofo aveva scritto, chiarendone ogni oscurità, un filosofo italiano che il fascismo aveva allontanato dall'insegnamento universitario: Giuseppe Rensi.
Trovai il libro alla biblioteca comunale: e avidamente lo lessi pigliando qualche appunto, copiando qualche pagina. Libro davvero di cristallina chiarezza e di grande passione: e oltre a rendermi più affascinante Spinoza, mi affezionò a Rensi così intensamente e durevolmente che non solo lessi e rilessi allora tutti i suoi libri che riuscii a trovare, ma ancora oggi [...] spesso mi accade di riprenderne uno suo».

(Leonardo Sciascia, Prefazione, in Giuseppe Rensi, Lettere spirituali, p. 1-3. Il ricordo deve riferirsi all'anno scolastico 1939/40, all'Istituto magistrale di Caltanissetta).

Sciascia (1989a)

«Allora, Caltanissetta era una città di provincia, ora lo è ancora più disperatamente, ma allora era una città di provincia fatta d'intelligenza, di vitalità, era la capitale praticamente dell'industria zolfifera. La grande risorsa era lo zolfo. C'erano tutte le scuole medie e superiori, e c'erano dei professori disseminati in tutte le scuole, che facevano società.
È inimmaginabile – è una delle incongruenze anche del fascismo – come, per esempio, nell'Istituto di cultura fascista si trovassero dei libri che aprivano orizzonti straordinari. Io ho letto lì il libro di Mondolfo Sulle orme di Marx, per esempio. Ho letto lì, ho tentato di leggere lì, Ulisse di Joyce tradotto da Valery Larbaud.
Coesisteva all'oppressione del fascismo una grande libertà, tutto sommato. E poi c'erano delle personalità straordinarie di professori. Lì insegnava anche Vitaliano Brancati. Non fu mio professore, ma era lì nell'istituto magistrale che io frequentavo. È stato un professore di lettere a darmi Il 42° parallelo di Dos Passos, perché la scuola veramente dava un'immagine di libertà, d'intelligenza, che mi auguro ci sia ancora, ma ne ho qualche dubbio.»

(Leonardo Sciascia, intervista dell'8 aprile 1989 alla Radio Svizzera italiana, pubblicata in «Un mio amico dice che la Democrazia Cristiana è un fatto prodigioso», p. 5)