LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

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Risultati della ricerca

Sciascia (1989b)

«Negli anni di scuola – tra guerra di Spagna e seconda guerra mondiale – si leggeva molto Croce. Ma, debbo dirlo, senz'altra passione che quella del dispetto a chi voleva non lo si leggesse. I fascicoli della Critica, che un bibliotecario indulgente ci faceva leggere di straforo, senza farci compilare la scheda di richiesta (sulle schede spesso si posava lo sguardo vigile delle questure), non ci entusiasmavano per i giudizi e soltanto rispondevano al nostro sentimento per qualche allusione. Né trovavamo di meglio nei volumi sulla letteratura della Nuova Italia, nei saggi di Poesia e non poesia, nel saggio su Pascoli, in quello su Dante.»

(Leonardo Sciascia, Di Croce vale più la prosa che il pensiero, «Tuttolibri», n. 645, 4 marzo 1989, p. 1).

Scotti (1963)

«Finito il liceo mi iscrissi all'Università di Milano. Avevo scelto la facoltà di medicina e potevo così utilizzare anche i libri di mio fratello.
Ben presto, la parte più intensa della giornata divenne quella dei viaggi in treno che facevo insieme agli operai.
Non solo si discuteva, ma li aiutavo a portare il materiale di propaganda, a procurargli e consigliargli i libri che mi parevano più adatti a scuotere le coscienze di coloro che s'erano intorpiditi.
L'amore ai libri, alla lettura divenne allora per me come una seconda natura.
Proprio nella ricerca ostinata di ogni libro che potesse rafforzare le idee in cui credevo, strinsi le prime amicizie con alcuni librai milanesi.
Erano in gran parte anarchici, socialisti e comunisti e non pareva loro vero di poter alimentare la passione politica in un giovane studente.
Ebbi così la possibilità di leggere i primi libri formativi: quelli di Kropotkin, Bakunin, Reclus e molti altri. Poi passai a Marx, Engels e Lenin anche se non riuscivo né a comprenderli completamente né ad assimilarli. Alcuni li avevo scovati sulle bancarelle, altri nella Biblioteca di Brera.
Mi interessarono particolarmente: Il manifesto dei comunisti di Marx, L'origine della famiglia, l'Antidühring di Engels, Stato e rivoluzione, La dittatura del proletariato e il rinnegato Kautski di Lenin.
Verso la fine del 1928 si offrì l'occasione, attraverso un libraio, di conoscere di persona gli uomini che redigevano la rivista «I problemi del lavoro» ed entrai soprattutto nella simpatia di Maglione, che era uno dei direttori.
Maglione mi aprì la stanza riservata all'archivio e lì potevo leggere le pubblicazioni comuniste, socialiste e degli altri partiti, che erano clandestine e arrivavano dalla Francia.
La lettura di «Stato operaio», di «Battaglie sindacali» e de «l'Unità» mi servì particolarmente per condurre l'azione politica, nel casalese e nell'Università.»

(Testimonianza di Francesco Scotti, in Davide Lajolo, Il "voltagabbana", Milano, BUR, 2005, p. 82-83. Il libro di Lajolo fu pubblicato per la prima volta nel 1963 dalla casa editrice Il Saggiatore).

Segrè (1971)

«[All'Istituto di fisica di via Panisperna] L'officina meccanica era antiquata in quanto a macchine utensili e non era all'altezza della situazione; la biblioteca, invece, era ottima e aggiornata.»
(Emilio Segrè, Enrico Fermi, fisico, p. 51. La biografia fu pubblicata per la prima volta in inglese nel 1970).

«Al tempo in cui l'Istituto venne invaso dai "ragazzi di Corbino", Lodovico Zanchi era già un factotum efficiente e autorevole: teneva l'amministrazione dell'Istituto; i conti dei professori e degli assistenti; faceva da segretario a chi ne aveva bisogno e, quale segretario della Società Italiana del Progresso delle Scienze, organizzava congressi. Ma la carica che gli stava piú a cuore era quella di bibliotecario: si occupava personalmente della biblioteca di fisica, dalla quale non usciva un libro se egli non lo aveva prima segnato sul taccuino; acquistava i nuovi volumi e li catalogava.
I giovani fisici che con baldanza si misero a spadroneggiare all'Istituto lo turbarono dapprima. [...] Ma gli studenti, specialmente Emilio Segrè e Edoardo Amaldi, preoccupavano Lodovico. Da bonario che era abitualmente, diventava burbero e cercava di impedir loro l'ingresso nella biblioteca e nei laboratori, temendo che con la loro baldanza giovanile mettessero disordine fra i libri e facessero danni agli apparecchi. Ma essendo giusto e disposto a riconoscere i meriti altrui, ben presto cambiò atteggiamento».
(Laura Fermi, Atomi in famiglia, p. 79-80. L'opera fu pubblicata per la prima volta in inglese nel 1954 e poi nello stesso anno anche in versione italiana).

«Già nel 1928 Fermi aveva quasi cessato di usare trattati e testi di fisica; una collezione di formule matematiche di Laska e le tabelle di costanti fisiche di Landolt-Börnstein erano praticamente i soli libri di consultazione che aveva nel suo studio. Quando aveva bisogno di una formula complicata per qualche funzione speciale di solito se la ricalcolava; spesso scommetteva che sarebbe riuscito a ricalcolarla prima che uno di noi la trovasse in biblioteca (due porte accanto) in un libro. In genere vinceva la scommessa.»
(Emilio Segrè, Enrico Fermi, fisico, p. 55).

«Tra gli Americani che ci visitarono ricorderò Eugene Feenberg perché era specialmente caro a Majorana. La loro reciproca simpatia si manifestava col sedersi uno di fronte all'altro allo stesso tavolo della biblioteca, in silenzio, perché non avevano in comune una lingua in cui parlarsi.»
(ivi, p. 59).

«Quando partimmo per le vacanze estive del 1935 eravamo di umore tutt'altro che allegro. Gli sviluppi politici degli ultimi tempi e in particolare i preparativi per la guerra di Etiopia e il grave peggioramento della situazione europea ci preoccupavano tanto da interferire seriamente col nostro lavoro. Ci mancava la tranquillità necessaria per una concentrazione totale. Io ero ben conscio di tutto ciò e ne parlai a Fermi che mi rispose che avrei trovato la risposta sul tavolo della biblioteca dell'istituto. Su questo tavolo c'era un atlante geografico e se si provava ad aprirlo a caso da sé si apriva alla pagina dell'Etiopia: era stata consultata tante volte che la rilegatura era già leggermente deformata.»
(ivi, p. 90).

«Verso la fine del 1935 il ritmo di lavoro era fiacco, i risultati scarsi, o per lo meno cosí la pensava Emilio Segrè, il quale, avendo provato una volta il gusto del successo, avrebbe voluto assaporarlo di nuovo. Non si sapeva capacitare di questo mutamento e, poiché gli piaceva andare a fondo delle cose, si consultò con Fermi.
«Tu sei il Papa e sai tutto. Dimmi dunque perché di questi tempi concludiamo cosí poco.»
Il Papa non mostrò la minima esitazione e rispose immediatamente, in termini da oracolo.
«Vai nella nostra biblioteca. Tira fuori l'atlante del Touring. Aprilo. Troverai la spiegazione.»
Emilio fece quel che gli fu detto. L'atlante si aprí da sé alla pagina sull'Etiopia. La guerra etiopica, scoppiata il 3 ottobre di quell'anno, teneva in ansia i fisici come tutti gli italiani. Accadeva da mesi che spesso interrompessero le ricerche per andare in biblioteca a studiare l'atlante, cercandovi invano una scusa, se non una giißtificazione, a una tale guerra coloniale. Ma l'atlante insisteva a far vedere un'Etiopia senza grandi risorse naturali, senza miniere, senza pozzi di petrolio, senza obiettivi militari, senza porti. Dallo scoppio delle ostilità in poi, i fisici avevano seguito sull'atlante le poco felici campagne africane.»
(Laura Fermi, Atomi in famiglia, p. 111-112).

Segre (1990)

«Una testimonianza di quarant'anni, la mia. [...]
Per un crìtico alle prime armi, c'erano stimoli inesaurìbili [...]. Anche il lavoro filologico era agevole: chi stava entro la cerchia dei Navigli poteva trotterellare a piedi tra la Biblioteca Braidense e l'Ambrosiana, fra la Trivulziana e la Cattolica. Tesori di manoscritti antichi, di vecchi fondi bibliografici, di donazioni di grandi filologi e linguisti. Trascorsi anni, si può dire, nella sala riservata di Brera (tessera n. 33), di cui Marino Berengo sfruttava l'orario continuato pranzando con un panino al bar Giamaica.
[...]
Dai miei primi contatti con Milano ad oggi molto è cambiato, e non direi in meglio. [...]
Molte delle biblioteche hanno ridotto gli orari, o sono praticamente chiuse, e le proteste dei pochi studiosi suonano troppo fioche a governanti e amministratori a cui la cultura importa solo se procura pubblicità o permette commesse agli architetti di regime. Quando si vedono, all'estero, biblioteche in continua espansione, aperte al pubblico, e integralmente, sino a notte, fornite di cataloghi computerizzati, collegate a rete per fornire in poche ore ciò che non esiste in sede, si è invasi dalla vergogna e dall'invidia.»

(Cesare Segre, Sapessi com'è strano sentirsi non più innamorati: Milano: breve storia di una vivibilità in continuo declino, «Corriere della sera», 115, n. 80 (4 apr. 1990), p. 4).

Selden-Goth (1927)

«Da gibt es unter einem der braunen, vorspringenden Palastdächer in Florenz an der stillen Piazza s. Spirito ein paar hohe. lichte Säle voll schöner Bücher und Bilder; da kannst du hineingehen, niemand frägt dich nach Woher und Wohin, du brauchst keinen Bestellzettel auszufüllen, an keiner Ausgabestelle zu warten, kannst stundenlang an den regalbedeckten Wänden entlang wandern, dich an einen der breiten Arbeitstische setzen, lesend, schauend, blätternd, niemand stört dich. Du läßt dein Buch einfach liegen. Der alte Kustode reicht dir beim Fort ­gehen höflich Hut und Mantel, ohne auch nur einen prüfenden Blick auf die volle Aktenmappe zu werfen, die du vielleicht unter dem Arm trägst. Eine Bibliothek, die den Lesenden als willkommenen Gast, nicht als möglichen Bücher-dieb oder -schänder empfängt. Diese Einstellung ist mir ein bleibender, freundlicher Eindruck geblieben, seitdem ich - gewöhnt an deutsche Bibliotheksordnung, deren mannigfache Vorsichtsmaßregeln und Mißtrauensvota mein Leserempfinden oft verletzt haben — zum ersten Male die Räume des Kunsthistorisches Institutes betrat. Ich habe mich zwischen seinen vielen tausend Büchern stets heimlich gefühlt, wie zu Hause zwischen meinen eigenen, und die Freude des Lesens in solcher Umgebung hat mich oft an die ewige Diskussion alter Bücherfreunde denken lassen: Ob Bibliotheken offen oder verschlossen aufzustellen seien? Zugunsten der Ansicht, daß keine Behütung vor möglichem Schaden die Psychologische Freude des Benutzers am durch keinerlei Glasscheibe oder Schutzordnung behinderten, beseligenden Stöbern aufwiegt. [...]
Nun ist vor kurzem das Institut wieder in eigene Räume übersiedelt, es nimmt seine Arbeit in den gleichen Sälen des Palazzo Guadagni auf, die es schon vor dem Kriege inne hatte und die, großzügig und vornehm adaptiert, für jede künftige Entwicklung reichlich Raum bieten. [...]
Hier sitzen junge Gelehrte, zumeist Stipendiaten des Deutschen Reiches, glückliche Menschenkinder, die ein Stück Lebensferien in Florenz genießen, und grübeln über Probleme, wie die Rekonstruktion irgendeiner Pisanoschen Kanzel oder die ursprüngliche malerische Dekoration einer alten toscanischen Kirche. Die Kunstgeschichte ist unerschöpflich reich an solchen Problemen; man hört in diesen Sälen auf Schritt und Tritt, wie viel es noch überall zu tun gäbe, trotzdem die Bibliothek auf über 15.000 Bände angewachsen ist und auf dem Tisch der Neuerwerbungen täglich Sendungen eben erschienener kunstgeschichtlicher Werke aufgelegt werden. Es steckt ein gutes Stück Idealismus in dieser Arbeit, bei jenen, die sie leisten, wie auch bei jenen, die sie unterstützen. Die lange Liste der Mitglieder jenes Freunde-Vereines zeigt, in wie vielen Ländern, in wie verschiedenen Berufsklassen das Interesse für die Arbeit des kunsthistorischen Institutes rege ist. Oeffentliche Anstalten und Privatpersonen, in erster Linie selbstverständlich aus Deutschland und Italien, doch auch aus Oesterreich, der Schweiz und Amerika sind mit regelmäßigen Jahresbeiträgen vertreten, bis Glasgow und Moskau, Amsterdam und New Haven, U.S.A. werden von allen Seiten Bücher und Photographien gespendet, so daß die dem Institut im letzten Jahre als Geschenke zugeflossenen Bibliothekswerte siebzig Prozent der Anschaffungen betragen. Die erst in letzter Zeit systematisch ausgebaute Photographiensammlung verdient ob ihrer Leitung ein besonderes Wort. [...]
Seitdem das Institut seine Vortrüge und wissenschaftlichen Besprechungen für seine Freute wieder aufgenommen hat, ist es für die Florentiner deutsche Kolonie zu einer Artgeistigen Heims geworden. Sonderbare Berufsnotwendigkeiten und Lebensschicksale haben viele Deutsche herverschlagen, andere Eigenbrötler hält die Liebe zum Sonnenduft über dem Lungarno schmerzlich und unlösbar hier fest. Im Palazzo Guadagni finden sie sich manchmal auf einige Stunden zusammen, um Diskussionen über toscanische Frühplastik oder die Arazzi der Medici zu hören. Die gastfreundliche Bibliothek nimmt sie in ihren Bann.»
(Gisela Selden-GothDeutsches Kunsthistorisches Institut in Florenz, p. 9)

«Nella tranquilla piazza S. Spirito, sotto uno dei tetti marroni e sporgenti di Firenze, ci sono alcune sale alte e luminose, piene di bei libri e quadri; ci puoi entrare, nessuno ti chiederà da dove vieni o dove stai andando, non avrai bisogno di compilare un modulo d'ordine o di aspettare in qualche punto di distribuzione; puoi vagare per ore lungo le pareti ricoperte di scaffali, sederti a una delle grandi scrivanie e leggere, guardare e sfogliare senza che nessuno ti disturbi. Lascia lì il tuo libro. All’uscita il vecchio custode ti porgerà educatamente cappello e cappotto, senza nemmeno dare un'occhiata alla borsa piena che porti sotto il braccio. Una biblioteca che accoglie il lettore come un ospite, non come un potenziale ladro o dissacratore di libri. Questo atteggiamento mi è rimasto impresso in modo indelebile da quando sono entrata per la prima volta nelle stanze del Kunsthistorisches Institut, abituata, come sono, ai regolamenti delle biblioteche tedesche, le cui molteplici precauzioni e cautele hanno spesso offeso il mio senso della lettura. Mi sono sempre sentita tra le sue migliaia di libri, come a casa tra i miei e il piacere di leggere in tale ambiente spesso mi ha fatto schierare, nell'eterna discussione dei vecchi bibliofili se le biblioteche debbano essere aperte o chiuse, a favore dell'opinione che nessuna cautela possa battere la gioia dell'utente che vaga non ostacolato da alcun vetro o ordine di protezione. [...]
Da poco l'Istituto si è ritrasferito nelle sue stanze, riprendendo l’attività nelle stesse sale di Palazzo Guadagni che occupava prima della guerra e che, generosamente e nobilmente adattate, offrono ampi spazi per qualsiasi sviluppo futuro. [...]
Qui siedono giovani studiosi, per lo più borsisti del Reich tedesco, felici creature che si godono una fetta di vacanza a Firenze, meditando su problemi come la ricostruzione di qualche pulpito pisano o l'originale decorazione di una vecchia chiesa toscana. La storia dell'arte è inesauribilmente ricca di tali problemi; si sente ovunque in queste sale quanto ci sia ancora da fare, anche se la biblioteca è cresciuta fino a superare i 15.000 volumi e le opere di recente pubblicazione sulla storia dell'arte sono disposte quotidianamente sul tavolo delle nuove acquisizioni. C'è una buona dose di idealismo in questo lavoro, sia da parte di chi lo fa che di chi lo sostiene. La lunga lista di membri degli Amici dell'Istituto mostra quanti paesi e quante professioni diverse sono interessate al lavoro dell'Istituto di Storia dell'Arte. Istituzioni pubbliche e privati, dalla Germania e dall'Italia, naturalmente, ma anche dall'Austria, dalla Svizzera e dall'America, partecipano con regolari contributi annuali. Libri e fotografie vengono donate da tutte le parti del mondo, da Glasgow a Mosca, Amsterdam e New Haven, U.S.A., tanto che il patrimonio della biblioteca ricevuto in dono dall'Istituto nell'ultimo anno ammonta al settanta per cento delle acquisizioni complessive. La collezione fotografica, che solo recentemente è stata sistematicamente ampliata, merita una menzione speciale. [...]
Da quando l'Istituto ha ripreso le sue conferenze e le discussioni scientifiche è diventato una sorta di casa spirituale per la colonia tedesca a Firenze. Strane necessità professionali e destini di vita hanno portato qui molti tedeschi, molti altri sono dolorosamente e definitivamente trattenuti qui dal loro amore per il profumo del sole sopra il Lungarno. Si incontrano talvolta a Palazzo Guadagni per qualche ora, per ascoltare discussioni sulla prima scultura toscana o sugli Arazzi dei Medici. La biblioteca ospitale li affascina.»

Si ringrazia Giovanni Petrocelli per la segnalazione della testimonianza e per la traduzione del testo

Serao (1885)

«L'onorevole Sangiorgio saliva al terzo piano, alla biblioteca [della Camera dei deputati]. Nel corridoio chiarissimo che ha le sue finestre proprio sul lucernario dell'aula, due o tre impiegati, innanzi agli alti leggii di legno, scrivevano in certi libroni il catalogo generale delle opere che si conservavano in biblioteca, e il loro lavoro era continuo, incessante: essi scrivevano senza far rumore, senza parlare. Un deputatino, già calvo, col naso rosso, era sempre innanzi a un leggio e sfogliava, sfogliava, in uno di quei libroni, come se cercasse un'opera introvabile: piccolino, ritto sopra uno sgabello per arrivare all'altezza del leggio, con un par d'occhi miopi che gli facevano mettere il naso sulla carta per leggere, pareva sempre che dovesse scomparire dentro il librone e restarvi schiacciato come un segnacarte. Nella fuga delle stanze, tutte piene di libri, l'onorevole Sangiorgio non trovava alcuno: i tavolini coperti di carta, di penne, di calamai, di matite, per gli studiosi, erano deserti.
In qualche angolo di stanza, innanzi a uno scaffale semivuoto, arrampicato sopra una scala, l'erudito deputato bibliotecario, il dantofilo paziente dalle sopracciglia nere, che sembravano tracciate da un colpo di carbone troppo forte, rovistava fra i libri, furiosamente, con la passione per quella biblioteca che egli avea tratta dal disordine in cui giaceva. Nemmeno si voltava, l'onorevole deputato bibliotecario, al passo cauto dell'onorevole Sangiorgio: o, accorgendosene, si voltava e lo guardava con un paio d'occhi nerissimi e vivi, ancora sbalorditi e pregni della ricerca letteraria che stava facendo.
Francesco Sangiorgio, di nuovo imbarazzato, come un disturbatore, messo in soggezione da quel silenzio e da quello sguardo stralunato del bibliotecario, camminava anche più adagio, e nell'ultima stanza si metteva a leggere i titoli delle nuove opere, a uno anno, sbalordendosi di tutta quella scienza amministrativa, economica, politica, che era accumulata in quelle scansie. Poi, per non parere, prendeva un volume del Buckle, Storia della civilizzazione in Inghilterra, il secondo, e leggeva.
Come gli amanti che non possono staccarsi dalla donna che amano, subendone il fascino dolcissimo, cercano dei piccoli pretesti, per poter restare accanto a lei, così egli si tratteneva nei corridoi a guardare le carte geografiche in rilievo, nell'aula a studiare la distribuzione dei posti, in sala di lettura a leggere i giornali, in biblioteca a leggere un libro qualunque, di cui poco o nulla gl'importava. Con la naturale salvatichezza del suo spirito e la timidità del provinciale, egli temeva, in cor suo, che quel questore che lo salutava così compostamente, ma senza mai dirgli niente, che quegli uscieri così indifferenti che lo vedevano passare, che quel bibliotecario così amoroso della sua biblioteca, non lo giudicassero quello che realmente era: un provinciale, un novellino, stordito dalla sua prima fortuna politica, che fremeva di piacere a distendersi nei seggioloni parlamentari e che non sapeva staccarsi da quel posto.»
(Matilde Serao, La conquista di Roma, p. 26-28. Il ritratto del deputato bibliotecario è ispirato a Filippo Mariotti, che fece parte per più legislature della Commissione di vigilanza sulla Biblioteca della Camera dei deputati, a partire dal 1878, e la presiedette nel 1886-1887).

«L'onorevole Oldofredi non era un frequentatore troppo assiduo della biblioteca della Camera: ci andava qualche volta per cercarvi un amico; ma non leggeva, nè chiedeva mai libri e giornali. Dicevano anzi le maligne lingue parlamentari, ch'egli non sapeva leggere. Ora, come quel giorno entrò in biblioteca, e trovò Sangiorgio seduto davanti a un vero monte di volumi, che scartabellava opere di statistica, e sfogliava libri di economia politica, di storia, di scienze sociali, con quell'intemperanza di ricerche e di preparazione che è propria dei provinciali meridionali, quel fatuo anconetano ebbe un lieve sorriso di scherno.»
(ivi, p. 196-197).

«Sotto il portone di Montecitorio Francesco Sangiorgio s'indugiava, mentre dietro a lui gli uscieri avevano man mano spento il gas della biblioteca, delle sale di lettura e di scrittura, degli uffici: egli guardava il cielo stellato estivo e la piazza, non sapendo decidersi a ritornare in casa.»
(ivi, p. 406-407).

«L'usciere ritornò: la Camera accettava le dimissioni, vista l'insistenza; il presidente aggiungeva qualche amichevole parola di rimpianto, augurando buona salute. Era tutto: ed era finito. [...] E uscì di là, lentamente, resistendo al forte desiderio di guardare un'altra volta le sale, i corridoi, gli ambulatori, la biblioteca, la buvette, i saloni degli uffici, uscì senza rivederli, avendo paura d'incontrare troppi deputati, di dover dare troppe spiegazioni, di dover stringere troppe mani – e lo sentiva, sì, lo sentiva, se qualcuno, il primo capitato gli diceva addio, egli sarebbe scoppiato in singhiozzi».
(ivi, p. 415-416).

Sereni (1965)

«Qui, nel campo di Fedala, a pochi chilometri da Casablanca e a due passi dalle onde dell’Atlantico, il tempo della prigionia in tenda e in Algeria era oramai un ricordo: ma era già il ricordo, anche, di una fase in cui eravamo stati più vivi, più tesi verso l’esterno, verso un’immagine del futuro. Era stato il tempo degli esami di coscienza individuali, ma anche delle discussioni alimentate dalle brevi notizie che non senza riluttanza gli americani lasciavano ricavare dal giornale Stars and Stripes e condensare in un asciutto bollettino; e per il resto dalle voci incontrollate che penetravano nei campi. [...]
Le discussioni, il precedente e più aspro stato di prigionia ci avevano divisi e uniti a seconda dei casi, ci aveva uniti la comune necessità di organizzarci un’esistenza destinata a durare chissà quanto, riunioni e dibattiti, esercitazioni e corsi universitari veri e propri, biblioteche circolanti, spettacoli teatrali: e ora, lì in quel grande campo dai viali asfaltati, senza più torrette né sentinelle, dentro quelle baracche quasi linde, con belle docce funzionanti, una discreta cucina, sotto la tutela del capitano Kennedy, lì nel campo di Fedala, in vista di Casablanca e dell’Atlantico, niente più di tutto questo, ma l’insensibilità a ogni notizia che non fosse quella del rimpatrio, l’insofferenza reciproca, lo spiare nell’altro i sintomi di quell’insofferenza e di quella febbre del ritorno, come di un brutto male da cui tutti sapessero di essere colpiti e che tutti volessero nascondere agli occhi altrui».

(Vittorio Sereni, 25 aprile a Casablanca. Il testo, col titolo L’anno quarantacinque e piccole varianti, è stato ripubblicato in varie raccolte del poeta, tra le quali Gli immediati dintorni: primi e secondi, Milano, Il Saggiatore, 1983, p. 93-101)

Siciliano (1978)

«Carlo Alberto Pasolini arrivò a Roma, una volta trovata la casa a Ponte Mammolo: in quella casa priva di intonaco arrivò e non fece parola al figlio e alia moglie della loro fuga da Casarsa, quasi si fosse trattato di un normale trasferimento. In casa taceva, ma se gli capitava a tiro uno scrittore, uno di quei letterati di cui il figlio era amico, erano grandi chiacchiere: appariva felice dei successi di Pier Paolo.
Pier Paolo cominciò a lavorare alle due antologie, la Poesia dialettale del Novecento e il Canzoniere italiano, e lui, Carlo Alberto, non avendo altra occupazione, andava e tornava dalla Biblioteca Nazionale [di Roma] con i volumi in prestito, facendogli da segretario.»

(Enzo Siciliano, Vita di Pasolini, p. 227-228)

Siciliano (1980)

«volevo scrivere qualcosa che mi riportasse indietro agli anni dell'Università, che in qualche modo mi riportasse alle emozioni delle felici e disperate letture che facevo a quel tempo, quando frequentavo biblioteche. Però, come sgomitolando il filo di un gomitolo, da quella frase ne è nata tutta un'altra.».

(La vita è ambigua, «Il Messaggero», 24 novembre 1980. Intervista di Anna Mongiardo in occasione dell'uscita del romanzo La principessa e l'antiquario, pubblicato nel 1980).

Siciliano (1996a)

«In cosa credevano? Nella storia di cui l'Istituto [Gabinetto Vieusseux] era colmo, una storia il cui incunabolo era un librone compilato a penna non stilografica, dall’inchiostro non ingiallito, dentro il quale ricorrevano confuse tra loro firme da leggenda: “Le docteur Schopenhauer”, “Beyle”, “H. Heine”, “J. Fenimore Cooper”, Enrico Fermi, Kipling, Gertrude Stein, Valéry Larbaud, Aldous Huxley... meraviglioso “Libro dei soci”.»

(Enzo Siciliano, Un paio di buoi per via Strozzi, in Il Vieusseux: storia di un gabinetto di lettura, p. 279-280. Originariamente pubblicato in apertura del numero di «Antologia Vieusseux», n.s., 2, n. 3/4 (settembre 1995-aprile 1996), dedicato alla storia dell'Istituto).

Un'ulteriore testimonianza di Siciliano sul Gabinetto Vieusseux è apparsa in Diario italiano 1997-2006, in un testo scritto in occasione della scomparsa del critico Luigi Baldacci (26 luglio 2002): «Dunque, il Vieusseux era una realtà, in questo da non affidare a mediocri giochi municipali: luogo da rendere, fuori della polvere, memoria efficace e produttiva, il luogo dove quel Novecento «remoto» aveva casa al presente, nella sua intatta vitalità, nelle carte, negli autografi, nei libri ordinati biblioteca per biblioteca, di Savinio, di Bonsanti, di Cecchi, di Dallapiccola, di Pasolini, di Ungaretti, di Tobino, di Debenedetti e così via» (p. 244). 

Siciliano (1996b)

«Mi era stato detto che Manlio Cancogni da giovane fosse stato un frequentatore della biblioteca di Palazzo Strozzi. Gli ho scritto. Non credo di compiere indiscrezione se ricopio qui la sua risposta, – e il lettore comprenderà perché senza che io indugi a spiegazioni. Il Vieusseux è stato molte cose, ma anche ciò che ricorda Cancogni.

Caro Enzo
scusami per il ritardo, sono un imperdonabile pigro. Ma c'è anche una ragione se ho esitato a rispondere alla tua lettera. Ed è questa: io in realtà non ho mai frequentato il Vieusseux se non nel novembre del '43 sotto l'occupazione tedesca quando mi c'incontrai, un paio di volte, con Giorgio Bassani, allora rifugiato in Firenze. Mi ricordo che durante uno di questi incontri suonò l'allarme. Giorgio aveva preso in prestito "Farewell to Arms", che mi pare, voleva tradurre. Me ne stava leggendo le prime pagine. Ricordo ancora che finito l'allarme, usciti in via Strozzi, vedemmo un paio di buoi accasciati in terra che guardavano pazienti il viavai della gente che usciva dai rifugi. Giorgio si fermò ad osservarli, ed io con lui, colpiti dalla profonda espressione dei loro occhi, dalla loro umanità. La mia conoscenza del Vieusseux come vedi, si riduce a ben poco. Del resto, tranne nella primissima giovinezza, a Roma, fra il '34 e il '36, non sono mai stato un gran frequentatore di biblioteche. Mi dispiace caro Enzo di non potere esserti utile. Ti ringrazio di avermi dato questa occasione di scriverti. Remember me. Un abbraccio e tanti auguri.

Devo dire a Cancogni che ormai, ogni volta che esco su via Strozzi, gli occhi «umani» del suo paio di buoi mi tengono idealmente compagnia, mi accompagnano nell'uscire da questo benedetto rifugio di libri e memorie.».

(Enzo Siciliano, Un paio di buoi per via Strozzi, p. 3-4).

Slataper (1909)

«Gran maestro il passato! Un po’ troppo cattedratico, troppo laureato, troppo barbogio; ma un gran maestro. Trieste non lo ha: se il suo presente vuol istruirsi deve esser autodidatta: una virtù che le città del regno in generale, non posseggono. E Trieste la possiede. Ma studiamo i libri di cui si serve, per comprendere la sua coltura. [...]
A Trieste ci sono questi mezzi di coltura: istituti comunali: la biblioteca (con archivio storico), il museo artistico, d’antichità (e lapidario), di scienze naturali, l’università del popolo, le biblioteche circolanti. Società: il «Gabinetto di Minerva», il «Circolo di studi sociali», l’«Esposizione permanente», il «Teatro popolare». [...]
Biblioteca. Dal Museo di storia naturale ad essa pare ci dovrebbe essere per precauzione un gran salto. Invece a Trieste la stretta parentela dell’alcool con la carta è separata solo da un soffitto: nel terzo piano quello, nel secondo questa. Al primo poi e al pianterreno due scuole: la nautica e commerciale. I cui scolari, alle scampanellate lunghiecheggianti del riposo, rispondono, naturalmente, con chiassate altisonanti e scalpiccii e corse.
Se siete novellini non vi dovete spaventare: v’assicuro che gli studiosi nostrani si sono già assuefatti. Il Museo di storia naturale ha o dovrebbe avere il pesciolino senz’occhi delle grotte; certo la biblioteca possiede il topus librarius senz’orecchie. Legge di Darwin in azione, cari miei: è un altro termine di affinità tra i due istituti. Ma insomma entriamoci. Non sentite più per il rintronamento? Meglio: la vista vi sarà testimonio più attendibile che l’udito. Soltanto: quella zampogna dipinta in oro, nel muro, alla vostra sinistra, è l’etichetta dei fondatori: gli arcadi romano-sonziaci trasferitisi da Gorizia a Trieste.
Poche date di lor vita accademica: 1793 nascita; 1796 agonia, non confortata da ossigenazioni, e testamento: le loro raccolte di antichità, di storia naturale, di libri passano al comune; nel 1809 morte. L’eredità però agisce come spinta propulsiva per i musei e la biblioteca. La quale si forma sul nucleo iniziale (2735 opere) per merito, quasi assoluto in principio, di Domenico Rossetti, che l’aumenta delle sue collezioni: bellissime, massime la petrarchesca e la piccolominea. E così, con i lasciti qualche volta ricchi e importanti di molti altri cittadini, con le opere stampate nella nostra regione (copia d’obbligo), con l’assegno annuo, piccolino o grandetto che si voglia, del comune, con le riviste di scambio dell’Archeografo triestino, che la società «Minerva» le dona, la raccolta arcadica diventa biblioteca discreta, se non sufficiente, capace di utilità, se non utile.
Perchè essa è – mi servo di sintesi triestina – in malora. No, niente giudizi: guardate!
Un’anticamera con due panche e due tavoli, dove l’acqua d’inverno può gelare senza riguardi: è la prima sala. La seconda, vera, eccola qui: grande come un’aula scolastica; tre tavoli con trenta sedie; un banchetto di quelli per scrivere in piedi, sostenente i cataloghi: la metà circa delle lettere dell’alfabeto; due scaffaloni murali di enciclopedie e dizionari e traduzioni non prescritte dei classici prescritti nei ginnasi e licei; vicino al tavolo della consegna e della riconsegna uno scrittoio per il vice bibliotecario; dall’altra parte, in fondo, il tavolino dell’impiegato per i prestiti; un’altro [sic] accanto che funziona come può da sala di studio, dietro al quale sta una libreria. Una stufa; sui muri grigi, nerastri, neri, attaccapanni, due o tre incisioni e – auf! – ho finito.
Anche di ridere: è una cosa troppo seria l’aria di me ne impippo con cui Trieste butta un’occhiatina alla sua biblioteca e tira via facendo spallucce. I rappresentanti amministrativi della città si occupano se mai di coniglicoltura, come facente funzione della poca carne bovina; ma neanche per aberrazione di sogno capiscono che a rendere meno dannosa la mancanza di coltura passata bisogna favorire in tutti i modi quella che potrà essere. Altro che conigliuzzi di là da venire (per i ventri affamati, è vero)! Ma soprattutto qualche cosa di più che continua dimostrazione d’incuria a uno spirito già di per sè incurante; e discorsi agrucci contro le costrizioni politiche che veramente ci strozzano il respiro! Coltura! questa non ce la possono più impedire. Ebbene? hanno dato alla biblioteca un direttore: Attilio Hortis; le votano il sostentamento annuo, poi... braccia incrociate e orecchie tappate. Sicchè i libri, per mancanza di spazio, sono accumulati alla rinfusa negli angoli, sotto le tavole, nei vani delle finestre: chi li trova? e, trovati, in che stato di conservazione!; sicchè uno non può studiare in pace per il cicaleccio – interno questo! – degli studenti traduttori: è una sola la traduzione stampata in voga, e tanti i bisognosi! Onde si dispongono in giro: uno legge, gli altri ascoltano, interrompendo di tratto in tratto con commenti, discussioni facezie. Ancora: regnando sovrana l’incuria, tignola massima delle biblioteche, molti libri non si trovano più. Chiedevo due anni fa l’opera di Angelo Solerti sul Tasso: il primo volume era in prestito, il secondo no, ma neanche in casa. Onde una scena amenissima e tristissima fra l’impiegato e il distributore: – Dev’esserci! – Non c’è. – Lo cerchi. – (Dopo un poco): – L’ho cercato: non c’è. – Ma dev’esserci. – Non c’è. – E allora vuol dire... che non si trova.
La catalogazione fiaccona e frammentaria: tutte le opere di storia patria e molti lasciti hanno catalogo autonomo, senza cenno nel generale. Ci sono è vero – lusso che poche biblioteche si permettono – gli schedari per materia; ma è lusso d’orpello, quasi sempre: fatti con poca intelligenza e con pochissima diligenza. Si presta un’opera sola, per un solo mese: anche molti romanzi e robicciole in voga; si distribuiscono libri non ancora legati. Per quel che riguarda l’intrusione politica dello Stato è eloquente il fatto che non si potevano avere, nel periodo in cui erano sequestrate, le poesie del Carducci, nè ancora quelle del Mameli, gli scritti di Mazzini...
Ma due cose specialmente dimostrano e spiegano le condizioni della nostra massima istituzione di cultura: il modo della distribuzione e il criterio delle compere. S’entra e s’esce indisturbati, senza nessuno schedino o lascia passare; si scrive su d’un fogliettucciaccio (non stampiglia) il numero desiderato, a cui bisognerebbe aggiungere per regolamento, ma non per consuetudine di molti, il proprio nome e la data.
E tutti onesti, sì, va bene: ma se uno si mette in tasca il libro, la biblioteca non ha neanche la compiacenza di non avergli offerta l’occasione. Davvero che ne mancano troppo pochi, a questi lumi di luna e con coteste garanzie!
Il criterio con cui si comperano i libri è l’assenza di criterio. Le case editrici mandano quello che credono: è sempre, si capisce, il più buono! il bibliotecario tiene o respinge. O il vicebibliotecario.
Perchè Attilio Hortis è stato sempre occupato in cose che non riguardano la biblioteca, come ente da far prosperare. È un uomo tale che non ha bisogno di lodi: la sua fama è basata su opere salde. Ma non è atto per essere bibliotecario, benchè possieda la più ampia coltura bibliografica. È un letterato: la sua attività migliore fu dedicata ai suoi studi. Furono e sono sul Petrarca, sul Piccolomini, su Trieste? E tali da onorare la nostra città? Bene: anche per la Biblioteca: accrebbero d’importanza e di numero le sue collezioni più ricche e più degne. Ma anche un danno: molti trattati speciali, opuscoletti d’interesse esiguo, acquisti necessari forse alla Nazionale [Biblioteca nazionale centrale di Firenze] e alla Vittorio Emanuele [Biblioteca nazionale centrale di Roma], a Trieste hanno occupato il posto di opere capitali che son di prima necessità, mentre pochissimi possono comperarle per il loro prezzo. E per di più ognuno capisce come il criterio soggettivo sia troppo variabile di persona in persona, di epoca in epoca, per essere direttiva all’acquisto dei libri per tutti. In generale la manìa del bibliotecario letterato è vizio comune delle biblioteche italiane: indi vuoti spaventosi nella sociologia, nella filosofia, nella. religione... Manca all’Hortis, come a molti letterati, il bisogno dell’ordine pedantesco: felix culpa, del resto, per un uomo secondo me; ma non virtù cardinale nella scolastica bibliotecaria. [...]
Io sono sincero; posso sbagliare e sarò contento che dimostrazione di fatti mi dimostri il contrario; ma da Attilio Hortis non si può sperare più il riordinamento della Biblioteca. Perchè non basta più intelligenza: occorre battaglia continua, aspra, contro l’apatia degli amministratori, occorre sgobbamento e pedanteria interna, affinchè i triestini, che in fatto di coltura vogliono il piatto pronto, davanti alla bocca, per mangiare, comprendano l’importanza della loro Biblioteca.
Io penso che quest’opera Trieste la potrebbe affidare a Salomone Morpurgo. Capisco che riordinar la Civica, dopo la Marciana e la Nazionale [di Firenze], sarebbe più che un passo indietro. Non per fermarvisi a lungo, però; e addolcito un pochino il regresso dalla carità del natìo loco: carità, proprio carità. Anche nel senso non trecentesco.»
(Scipio SlataperLettere triestine. II. Mezzi di coltura, «La Voce», 1, n. 11 (25 febbraio 1909), p. 43.)

Soffici (1960)

«Nel novembre del 1900 partii, assieme a [Giovanni] Costetti e [Umberto] Brunelleschi, per Parigi. I primi mesi furon per noi terribili: miseria nera, freddo, fame. [...] Insieme a questi lavori di ripiego, [...] disegnavo per conto mio figure, ritratti, scene della vita parigina, dipingevo paesaggi della Banlieue; incidevo legni. Il resto del tempo lo passavo al Louvre, per gli altri musei, nelle biblioteche, dove il mio gusto si affinava, la mia mente si arricchiva di sempre nuove cognizioni e le mie idee spaziavano in più liberi campi.»

(Ardengo Soffici, testimonianza per Ritratti su misura, p. 393)

Soldati (1989)

«Nel 1929 [Henry Furst] tornò negli Stati Uniti, dove gli erano stati offerti due jobs a cui poteva attendere contemporaneamente: professore di italiano al Vassar College di Poughkeepsie, una cittadina sul Hudson a poche miglia da New York, e, a New York stessa, bibliotecario alla Paternò Library della Casa Italiana, nella Columbia University. Fu qui che ci conoscemmo, appunto in biblioteca, una tarda mattina del dicembre 1929. [...]
Lui arrivava in biblioteca di fuori solo in quel momento, quando l’ora consueta della pausa era già incominciata. Studenti e studiosi già si erano levati dai loro libri e dalle carte: uno dopo l’altro abbandonavano la biblioteca, uscivano per il lunch. Dai finestroni a sud, su Amsterdam Avenue, entrava, diretto e sfolgorante, il sole di una bella giornata d’inverno a New York. Quel sole sembrava avere con sé la grande luce azzurra dell’oceano verso cui la penisola di Manhattan avanza come la prua di un’immensa nave, e si rifletteva invitante sui mogani delle scrivanie ormai deserte. Nella biblioteca vuota, l’alto frastuono del traffico della metropoli giungeva attutito, confuso, musicale.
«Piacere della conoscenza...» e stesi la mano a Furst per salutarlo.
«Dove va?»
«Ma...» dissi con un’occhiata all’orologio «... al lunch, come tutti gli altri. È ora.»
«È ora? Ora di mangiare? Ma non trova che è più bello, proprio adesso, camminare? Non vede...» rispose Furst ridendo, e indicandomi dalla finestra l’avenue che scendeva, infinita e rettilinea, contro il sole: «... non vede le vie dorate?» [...]
Lavorava moltissimo, ma sempre fuori orario: era un sistema, un proposito, un’intima necessità sua. Entrato per la prima volta nella sua vita, in un ordine costituito, doveva per forza reagire in qualche misura, ribellarsi in qualche modo. Poiché il suo impegno non contemplava nessun obbligo specifico di orario, lui cominciava a lavorare quando tutti gli altri finivano, e finiva quando tutti gli altri cominciavano. Stava su le notti intere.
La biblioteca, fortunatamente, era isolata: due piani sulla strada, tre sotto le camere del piccolo college italiano. Furst cominciava a lavorare verso le otto o le nove di sera. All’una o alle due dopo la mezzanotte, si prendeva un po’ di riposo, prima di riattaccare: poi, restava a tavolino, tra libri, schede, dizionari, macchine per scrivere e registratori, fino all’alba e oltre. Il riposo consisteva nel suonare, per un’oretta, a tutto volume, dischi generalmente di Mozart, che era, per lui, quello che Leopardi era per me. Emeriti visiting professors, ospiti americani, lo stesso direttore della Casa Italiana, Giuseppe Prezzolini, talvolta rincasavano da qualche spettacolo o da qualche ricevimento ufficiale, e salendo con l’ascensore al college e passando al piano della biblioteca, udivano esterrefatti tuonare i timpani del Dies Irae, o cantare spiegati i violini della sinfonia K. 543, o incalzare il vaudeville finale del Ratto. In quest’ultimo caso, se si fossero fermati, e se fossero usciti dall’ascensore e se, attraversato l’atrio, avessero dischiuso un battente del grande portone lucido, avrebbero forse visto, nella severa sala deserta e tutta illuminata, in mezzo agli alti scaffali colmi di libri, Furst che danzava e saltava da solo sulla moquette bordò, con piroette ed inchini alla Pavlova, entrechats e battements alla Nijinsky. [...]
Furst in pochi mesi, senza l’aiuto di nessuno, né di un segretario né di una dattilografa, lavorando oltre ogni immaginazione, compilò il catalogo, che ancora mancava, della Biblioteca Paternò.»
(Mario Soldati, Rami secchi, pp. 126-132)

Starnone (1987)

«Noi sezione Cgil abbiamo tastato il polso ai tempi e abbiamo sentito: sale la febbre politica. Qualcuno anzi ha anche aggiunto: «Tra i giovani c'è domanda di '68»; cosa che vuol dire – ci siamo spiegati – domanda di trasformazioni radicali. E alla fine della riunione tutti ci siamo confessati il bisogno di attivare la memoria storica. Sicché abbiamo redatto un documento zeppo di citazioni di vent'anni fa (o quasi) in cui invitavamo i giovani a scendere in piazza compatti, sabato 9 novembre, contro la scuola schifo. Subito dopo il collega Vivaldi e io abbiamo dato un bel tema da svolgere. Nelle mie classi: «Ritorna il '68?». Nelle sue: «Il 9.11.85 è rapportabile al 23.5.68?». Tranne gruppi di fedelissimi che hanno esultato esclamando: questo sì che è un bel tema, gli altri hanno fatto le solite scene: ma che tema è questo, troppo difficile, basta con la politica, erano meglio i temi sugli U2. Timballo Daniele, rimbambito dalla crisi puberale, ha chiesto: il 68 è un autobus? [...]
Segarelli Matteo con deferenza mi ha chiesto di poter andare in biblioteca a prendere libri sul '68 e a preparare lo striscione con lo slogan da lui inventato: «Il governo Bettino è una discràxia», caduto in disuso e poi ridiventato attuale, grazie alla resurrezione del pentapartito (questa orribile parola dirà qualcosa a qualcuno tra qualche anno?). Gli ho concesso: ma certo Segarelli; e qualche malevolo ha ripetuto dal fondo della classe: ma certo, Segarelli, vai bello.
Durante la ricreazione, in biblioteca ci sono andato anch'io. Subito si sono accodati Di Marco e il suo fido Silvestrone. Silvestrone è uno che parla solo se interrogato: per il resto del tempo, in classe o nei corridoi, in piedi o da seduto, suona una batteria immaginaria facendo tum tum e ciaf ciaf con la bocca, torcendosi tutto per significare il piacere e la sofferenza del batterista, e sferrando colpi ai piatti e ai tamburi con bacchette maneggiate da maestro. L'hanno già cooptato perché si metta in testa al corteo degli studenti e lo accompagni con la sua musica impareggiabile.
Per ora fa la musica di sottofondo a Di Marco che dice che anche lui e il suo fido vorrebbero libri per farsi opinioni sul mondo come Segarelli. Ma non libri di sinistra: libri – lui chiede – oggettivi, che dicano le cose come stanno. «Va bene» accetto io, «venite con me», e ci spostiamo a fatica per l'atrio dove 1500 studenti divorano panini, si fanno docce con le lattine di coca cola ben agitate e si baciano nel pigiapigia senza togliersi la gomma di bocca. Di Marco mi espone la visione del mondo sua e di Silvestrone, che è: Craxi sta rovinando l'Italia con questi finanzieri – «Finanziaria» correggo io, «Finanziaria» si corregge lui – e con tutti questi uomini di colore che vogliono libicizzare – «Libanizzare» correggo io, «Libanizzare» si corregge lui – l'Italia: profughi, nigeriani, palestinesi.
Arriviamo in biblioteca dove fervono i lavori del comitato studentesco «Sempre con la democrazia». Segarelli mi fa vedere il suo striscione come se sperasse in un buon voto. Un folto gruppo scrive alacremente cartelli di fuoco col pennarello rosso.
Mi metto a cercare libri oggettivi per Di Marco e Silvestrone. Poi mi distraggo e torno ai tempi in cui io e Vivaldi insegnavamo a San Chirico Raparo e facemmo ferro e fuoco per buttar via dalla biblioteca tutte le opere di Ada Negri e 400 copie della storia di San Chirico a partire dal giardino dell'eden, redatta dal nostro preside di allora, che era storico di quell'insediamento e poeta-cantore delle sue bellezze. Cominciammo con Il capitale, passammo a tutto ciò che era stato scritto sui consultori come sulle droghe e con gli anni introducemmo anche una storia dell'astrologia, i King e molti manuali per calcolare il bioritmo. Poi torno qui e fisso a lungo La questione agraria di Karl Kautsky prima che diventasse un rinnegato. Controllo la scheda: non è mai stato chiesto in prestito. Allora lo consiglio a Di Marco. Se mi deve odiare, che lo faccia a ragion veduta.».

(Domenico Starnone, Ex cattedra; le vicende del romanzo sono ambientate a Roma presso l'Istituto tecnico per il turismo Livia Bottardi).