LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

N.B. La casella di ricerca qui sotto opera soltanto sul titolo della testimonianza (di norma, cognome dell'autore e anno).
Per testimonianze relative a singole biblioteche vedi l'Indice delle biblioteche, per quelle di/su singole persone vedi l'Indice delle persone, per quelle relative alle biblioteche di una singola località vedi l'Indice delle città.
Per fare ricerche sulle parole delle testimonianze usare la casella Cerca nella barra in alto a destra.

Risultati della ricerca

Ridolfi (1983)

«L'autore è continuamente bersagliato dai suoi affezionati lettori del «Corriere» con richieste d'informazioni o anche con strane proposte: perfino di spedir loro il volume in prestito; senza sapere che ho un solo esemplare della prima edizione [de I ghiribizzi] e nessuno della seconda, tanto è vero che quando ho voluto (proprio per scrivere queste pagine) saperne la data precisa ho dovuto ricorrere a una pubblica biblioteca.»
(Roberto Ridolfi, Storia de I ghiribizzi, in I ghiribizzi, Firenze, Sansoni, 1983, p. 7; Ridolfi pubblicò la prima edizione de I ghiribizzi nel 1968, presso l'editore Vallecchi).

Rodari 1973

«Nell'inverno 1937-38, in seguito alla raccomandazione di una maestra, moglie di un vigile urbano, venni assunto per insegnare l'italiano ai bambini in casa di ebrei tedeschi che credevano - lo credettero per pochi mesi - di aver trovato in Italia un rifugio contro le persecuzioni razziali. Vivevo con loro, in una fattoria sulle colline presso il lago Maggiore. Con i bambini lavoravo dalle sette alle dieci del mattino. Il resto della giornata lo passavo nei boschi a camminare e a leggere Dostoevskij. Fu un bel periodo, fin che durò. Imparai un po' di tedesco e mi buttai sui libri di quella lingua con la passione, il disordine e la voluttà che fruttano a chi studia cento volte più che cento anni di scuola. [...] 
Io allora, ripartiti i miei ebrei in cerca di un'altra patria, insegnavo nelle scuole elementari. Dovevo essere un pessimo maestro, mal preparato al suo lavoro e avevo in mente di tutto, dalla linguistica indo-europea al marxismo (il cavalier Romussi, direttore della Biblioteca civica di Varese, benché il ritratto del duce fosse bene in vista sopra la sua scrivania, mi consegnò sempre senza batter ciglio qualsiasi libro di cui gli avessi fatto regolare richiesta); avevo in mente di tutto fuor che la scuola. Forse, però, non sono stato un maestro noioso. Raccontavo ai bambini, un po' per simpatia un po' per la voglia di giocare, storie senza il minimo riferimento alla realtà né al buonsenso, che inventavo servendomi delle «tecniche» promosse e insieme deprecate da Breton.
Fu in quel tempo che intitolai pomposamente un modesto scartafaccio Quaderno di Fantastica, prendendovi nota non delle storie che raccontavo, ma del modo come nascevano, dei trucchi che scoprivo, o credevo di scoprire, per mettere in movimento parole e immagini»

(Gianni RodariGrammatica della fantasia: introduzione all'arte di inventare storie, Torino, Einaudi, 1973, pp. 3-4.

Rolland (1895)

«Je me permets d'adresser tous mes remerciements à ceux qui, au cours de ma mission en Italie, m'ont facilité, par leurs conseils ou par leurs collections, ces recherches artistiques; à M. le professeur Riccardo Gandolfi, bibliothécaire du R. Istituto musicale de Florence; au Rev.dmo Padre Priore Dom Ambrogio Amelli, supérieur du Mont-Cassin; à S. E. le prince Chigi. J'ai une reconnaissance toute spéciale à M. le cavalier Berwin, le savant directeur de la bibliothèque S. Cecilia, à Rome, dont j'ai mis si souvent à contribution l'érudition sûre et l'obligeance infatigable.
J'ajouterai un regret: c'est d'avoir pu constater dans trop de bibliothèques, un esprit étroit et hostile au travail, qui n'est plus de notre temps. Entre toutes, je nommerai celle du Conservatoire de Naples.
                                                                                                    Février 1894.»
(Romain Rolland, Histoire de l'opéra, p. 1. Il volume costituisce la tesi di dottorato di Rolland, che era stato due anni borsista dell’École française de Rome e menziona varie altre biblioteche italiane, pubbliche e private, in cui aveva lavorato, fra le quali la Barberini di Roma).

«Au reste, c'est à peine s'il faut le regretter; car «quod non fecerunt barbari, fecerunt... bibliothecarii»; et (à l'exception de quelques villes, parmi lesquelles je m'empresse de nommer Rome, Florence et Venise), il est tout à fait indifférent pour les artistes que les oeuvres de [Giacomo] Carissimi existent encore en Italie, puisqu'il est défendu de les lire. C'est ainsi que le Liceo musicale de Bologne détient une Messe autographe de Carissimi à huit voix dont il est interdit de transcrire une note (2).

(2) Le veto s'étend naturellement à tous les manuscrits quels qu'ils soient, ou du moins à ceux qui ont «une certaine importance», comme le dit la lettre que j'ai eu l'honneur de recevoir du municipe de Bologne, et que je m'empresse de transcrire:

«Libertas.                                                                                  19 maggio 1893.
»   Ill.mo Signore,
»Sono dispiacente di doverle significare che la dimanda dalla S. V. diretta all'Ill.mo Signor Sindaco non può essere esaudita, non accordando questo municipio per deliberazionc di massima più volte confirmata, facoltà di trascrivere manoscritti della Biblioteca del Liceo Musicale che abbiano una peculiare importanza.
»                                                             Con distinta osservanza, dev.mo,
»                                                                                         Il capo-ufficio. »

On me donna de cette mesure une raison singulière: la Ville voulait se réserver le monopole de ses manuscrits ignorés, pour maintenir la célébrité de son conservatoire. Il me semblerait plus sûr de l'illustrer par de nouveaux chefs-d'oeuvre, que d'y enterrer les anciens. Il est vrai que cela est moins aisé.
Au Conservatoire de S. Pietro a Majella de Naples, le veto ne s'étend pas seulement aux manuscrits, mais à tout livre, quel qu'il soit. Je me suis amusé à demander la permission de copier une page du Barbier de Séville de Rossini (édition courante), pour me l'entendre refuser.»
(ivi, p. 183-184).

«Francesco Provenzale est né vers 1610. [...] C'est à peine s'il signait ses musiques [...]. Il n'est donc pas douteux que beaucoup de ses oeuvres ne soient perdues dans les bibliothèques et les archives de la province de Naples, sous l'anonyme, ou même sous un nom d'emprunt. Le manque de liberté du travail et l'ignorance des bibliothécaires les y maintiendra sans doute encore longtemps.»
(ivi, p. 188-190).

Romagnoli (1917)

«I tedeschi chiamati in Italia non furono moltissimi: l’Italia non è la Turchia, non è la Grecia, non è nemmeno l’America; e il più elementare sentimento estetico rendeva insopportabile un professore che veniva a raccontarci i fasti di Roma, balbettando e deturpando la lingua di Dante. [...] A Roma, alla cattedra su cui aveva seduto Ruggero Bonghi, Giulio Beloch era stato chiamato dalla fiducia del governo italiano ad esporre la storia Romana. [...] Adolfo Berwin dirigeva, con la brutalità d'un caporale prussiano, la Biblioteca di Santa Cecilia. [...] Ma in ogni grande città d'Italia c'erano poi istituti scientifici tedeschi, formicolanti, come s'intende, di persone altrettanto scientifiche, stabili o di passaggio. Per rimanere a Roma, e lasciando stare il padre Ehrle, direttore della Biblioteca vaticana, il quale dunque operava su terreno neutro, c'erano i due grandi covi dell'Istituto storico prussiano e dell'Istituto archeologico germanico.
Del primo, non so gran cosa. Le vicende del secondo sono note anche al gran pubblico, perché se ne è parlato nei giornali. Sorse come istituto internazionale; ma con uno dei suoi abilissimi colpi di mano, la Germania se ne rese padrona assoluta. [...]
Nei primi tempi dell'alleanza fu sede ai dottissimi idillî degli scienziati tedeschi e italiani. Questi frequentavano la biblioteca e assistevano alle sedute: quelli scendevano per tutta Roma, e massime nel Foro, a scavare e far da padroni. Largivano anche, ai più fedeli aficionados italiani, diplomi di soci corrispondenti, ricercatissimi e gustatissimi.
Ma col tempo, il miele diventa fiele, il vino diventa aceto, l'amore diventa uggia. Un bel giorno, a dirigere gli scavi del Foro fu mandato Giacomo Boni, il quale con molto garbo chiuse le porte in faccia agli ex padroni. – «Ma noi rappresentiamo la scienza tedesca». – «E io rappresento il buon senso italiano». – Da quel giorno gli scavi cominciarono a dare i risultati che tutto il mondo conosce ed ammira.
Ma anche da quel giorno cominciarono i malumori. La cortesia teutonica si appannò d'un velo. I direttori sì, rimasero corretti verso gli ospiti italiani; ma lasciarono mano franca ad un bulldog, inserviente ma spadroneggiatore, il quale invigilava gli studiosi italiani come il gatto guarda il sorcio, e piombava su loro alla menoma infrazione ai centomila regolamenti della biblioteca. I diplomi divennero più rari: fioccarono invece restrizioni su restrizioni. Ad un bibliotecario gentile se ne sostituì da Berlino, per direttissima, uno cerbero. E ad ognuno dei menomi incidenti agrodolci a cui dette origine la politica un po' oscillante degli ultimi anni, partiva dall'Istituto la minaccia di chiudere la biblioteca agli studiosi, e il rimprovero di ingratitudine agli Italiani, perché, avendo quel po' po' di agevolezza di poter usufruire d'una tale biblioteca, non erano abbastanza pronti a curvar la schiena ad ogni beneplacito del divo kaiser e dei suoi rappresentanti di Roma.
[...] Ma il semplice concederci l'uso di una loro biblioteca, era tal servigio da poterlo compensare solamente il nostro più assoluto vassallaggio. E quando al vassallaggio ci cominciammo a ribellare, ancora assai prima che scoppiasse la guerra, le porte di quel paradiso archeologico furono infine inesorabilmente chiuse ai reprobi Italiani.»

(Ettore Romagnoli, Minerva e lo scimmione, p. 142-146).

Romano (1960)

«Bari, [18 aprile 1957] ore 7
[...]
Riattraversiamo la città nuova, cosí milanese che c'è perfino «il Motta».
Lungo la via centrale Stefano mi mostra a dito l'insegna di un negozio. Leggo: G. Laterza e Figli. Dio mio! Come ho potuto scordarmene? Le edizioni Laterza sono state il latte, per noi. Vagheggiate, centellinate nelle biblioteche al tempo dell'adolescenza squattrinata, poi i primi gelosi acquisti: l'Estetica di Croce, la Nascita della tragedia.
Attraversiamo la strada, con la reverenza e la curiosità del caso. La vetrina è piena di Santi, di statuine della Madonna e del Sacro Cuore. Dunque tradimento è l'anima del commercio! Ecco una buona signora col suo ragazzetto, vanno ad acquistare da Laterza un catechismo o una Piccola Filotea.
Giriamo l'angolo, e nelle vetrine di là i veri Laterza stanno allineati, distanziati signorilmente, nel sottile rarefatto silenzio del pensiero laico.»

(Lalla RomanoDiario di Grecia, p. 6, 9. La prima edizione dell'opera uscì nel 1960 a Padova da Rebellato).

Romano (1969)

«P. alla Biblioteca Civica.
«– Nei luoghi troppo organizzati io non trovo niente –. (Io idem: sono stata a Palazzo Sormani a cercare le riviste e non le ho trovate: e io sono stata bibliotecaria!)
«Vede un Ufficio Informazioni. Non c’è nessuno. Trova schedari, solo per autore. Domanda a un tizio, che lo manda al I piano. Altro Ufficio Informazioni. C’è uno che gli mostra gli schedari. Sono anche per materie. Trova il testo che cercava, ma si accorge di non avere carta e penna, e cerca di imparare a memoria la sigla della posizione. Poi si accorge che i libri non sono lí. Non osa domandare ancora, e guarda quello che fanno gli altri. Guarda di sottecchi “per non dar nell’occhio” (dice) e si accorge che hanno paura di lui

(Lalla Romano, Le parole tra noi leggere, p. 239)

Romano (1979a)

«Nei pomeriggi lo zio [Giuseppe Peano] mi portava con sé alla Società di Cultura o in tipografia. La Società di Cultura consisteva in piccole sale buie tappezzate di scaffali: nel silenzio scricchiolavano i pavimenti di legno ai rari passi degli studiosi. Lo zio mi diceva di chiedere il libro che volevo e io non osavo confessare che non sapevo come si facesse.
La tipografia era in via Nizza, in fondo a un vicolo, fra due muri di fabbriche e vecchi steccati, che mi facevano pensare ai film di Charlot. Lo zio aveva comprato la tipografia per stampare i suoi libri.»

(Lalla Romano, Una giovinezza inventata, p. 10).

«Con Nella andai anche a dipingere in collina [...]. Mi invitò a passare una domenica con lei e suo fratello Ettore: avremmo fatto insieme una passeggiata. Non accettai: avevo il solito appuntamento con A. [Franco Antonicelli] Eppure sapevo bene che l'avrei visto per poco. Andavo a prenderlo alla Società di cultura (dove ero andata i primi tempi di Torino con zio Giuseppe [Peano]); assistevamo insieme alla messa a Santa Maria degli Angeli: un pezzo di messa all'impiedi in fondo alla chiesa, poi un pezzo di strada fino al mio – o al suo – tram.»

(ivi, p. 193).

Romano (1979b)

«In quarta ginnasio avevo composto una poesia. [...] Quella poesia e altre che seguirono erano comunque poesie contemplative, non sentimentali. Però in seguito le rinnegai: era urgente affrontare «prima» i problemi ultimi. Il mio filosofo fu Spinoza, «trovato» nella biblioteca del liceo, dove si poteva pescare in libertà.»

(Lalla Romano, Una giovinezza inventata, p. 14).

«Io disprezzavo la pratica (l'utile); pensavo che un aspetto pratico l'avessero anche gli studi, se di natura scolastica. I libri scovati nella felice stagione del liceo: Spinoza, Schopenhauer, Nietzsche, erano stati ognuno un messaggio, che io avevo accolto con un turbamento un po' trasognato come di solito si ha da un romanzo.
Qui [a Torino], nei primi tempi, a parte il fatto che non avevo libri perché non sapevo servirmi della biblioteca, il mio smarrimento era cosí grande, la mia ansia cosí urgente e le mie pretese cosí assolute, che l'avventura di un libro mi sarebbe parsa limitata.
Uno dei primi giorni, non avendo ancora interamente afferrato il sentimento della mia nuova condizione, con una sorta di distaccato ottimismo avevo acquistato un libro: con lo stesso criterio con cui sceglievo le mie letture nella biblioteca del liceo, cioè obbedendo a un impulso, quasi a un richiamo. Fu ancora un gesto di quel tempo.
Il libro era L'essenza del Cristianesimo dello Harnack, che avevo scorto nella vetrina di una libreria di via Po. Lo portai con me per qualche giorno, senza leggerlo; poi lo riposi nella valigia.»

(ivi, p. 128).

Romano (1979c)

«Al liceo avevo scovato un piccolo libro, una cinquantina di pagine, che conteneva due poemi (in prosa) di Ibsen. Il primo titolo era un nome norvegese che mi suonò bellissimo: Terje Vigen. Cominciava: «Lontano, nel mare, sulla piú alta rocca, viveva un vecchio, amante della solitudine». Tanto bastava.
L'altro era intitolato In alto, titolo che ricordava Excelsior o La piccozza, cose che ritenevo ridicole; ma qui nulla mi pareva ridicolo. Frasi come «Io salgo verso l'immensità» mi suonavano esaltanti; e il finale: «Io non obbedisco piú che alla voce che mi comanda di vivere sulle cime delle Alpi. Per sempre ho abbandonato la vita della valle. Qui sopra con Dio e la libertà. Laggiú striscino pur gli altri!»
Nemmeno di questo parlai con Giovanni [Ermiglia, nel libro Oneglia], perché avrei dovuto confessargli che non avevo mai restituito il libretto alla biblioteca del liceo; non che mi rimordesse la coscienza – sentivo di avere il diritto di tenere per me il libretto – ma non volevo scandalizzare lui.»
(Lalla Romano, Una giovinezza inventata, p. 140).

«Quello che piú mi incantava in Maria [Marchesini] era la naturalezza nel parlare di argomenti tanto appassionanti, come di cose consuete. [...]
Si stupí moltissimo che non conoscessi Hedda Gabler [di Ibsen]. – È stata per noi un simbolo! – disse. Io conoscevo Casa di bambola, che non avevo ben capito; e il meraviglioso La donna del mare, senza contare lo smilzo libretto che avevo rubato dalla biblioteca del mio liceo. In quanto al fatale Peer Gynt l'avevo visto ormai, a teatro (con Giovanni).»
(ivi, p. 173-174).

«Al liceo scovai nella biblioteca un sottile libretto dal titolo Terje Vigen. Era un poemetto in prosa di Ibsen. Parlava di mare e di montagna, di solitudine e di libertà.
Lo considerai tanto «mio» che non lo restituii mai. Il nome privilegiato diventò Norvegia, e paesaggio il fjord: parola intraducibile, ardita come la prua della nave vichinga.
Col tempo, teatro e letture mi resero familiari Nora, Hedda e la misteriosa Ellida, la Donna del Mare. Mi identificavo con esse e le pensavo nei loro paesi, altrettanto emblematici che le loro stesse storie.»
(Lalla Romano, Un sogno del Nord, Torino, Einaudi, 1989, p. 5).

Romano (1979d)

«Quand'ero bambina zia Carlotta mi piaceva perché era elegante [...].
Abitava a due passi dall'università e io salivo da lei quando non avevo lezione e non osavo ancora andare in biblioteca.»
(Lalla Romano, Una giovinezza inventata, p. 28)

«Dopo che ebbi ritrovata [Rita] Casetta, che mi istruí, frequentai la biblioteca di facoltà, dove per lo piú prelevavo testi filosofici; ma anche ne compravo. Non solo le opere di Pastore, o di Kant, o di Croce. [...]
Pastore parlava con ammirazione grave di Bernardino Varisco. Temendo di ripetere l'antica gaffe sul Martinetti, non mi informai se il filosofo era morto o vivo, e dove. Presi in prestito il libro Conosci te stesso. Diventò «il libro»: per le amiche del pensionato. Lo chiamarono cosí perché lo portavo sempre con me, per esempio quando andavamo ad ascoltare Giuseppina [Vergani] che preparava le sonate per la festa di Notre Mère.»
(ivi, p. 129-130).

«La biblioteca di facoltà, un salone lungo e profondo a cui si accedeva da un ampio scalone, prendeva luce dalle alte finestre che davano sul secondo giro del porticato a colonne. La luce era pallida, malinconica. Le dorature dei vecchi libri nelle scaffalature avevano un luccicore discreto.
Le persone non erano interessanti. Un giovane avevo notato, occhialuto, pallido, magro, che aveva un tormentoso tic: attorcigliava attorno alle dita della lunga mano nervosa una ciocca di capelli neri, lisci, che poi ributtava all'indietro; e ricominciava. Mi faceva un po' paura perché mi ricordava Nino.
Io sedevo sempre allo stesso posto, in fondo a uno dei lunghi tavoli; sovente alzavo il capo, guardavo davanti a me la porta a vetri. Cosí lo vidi entrare la prima volta, poi infinite (?) volte.  Un giovane, ma non uno studente: un uomo incredibilmente bello.
Un'apparizione insolita, un po' irreale in quel luogo. Posò sul tavolo davanti a sé – con un leggero toc – un bastone (di malacca?) che portava appeso al braccio, posò il cappello, leggero e insieme un po' solenne, non sportivo come usavano tutti; poi si sfilò, sempre senza fretta, i guanti e infine il cappotto, un impermeabile chiaro, ampio, che gli scendeva dalle spalle a cannelloni armoniosi, come un peplo. Si muoveva con gesti misurati, con grazia virile.
Era già strano che io notassi l'eleganza. È vero che avevo detto: – Mi piacciono i filosofi, ma che siano eleganti –; volevo dire non sporchi, non goffi; e poi scherzavo. Del resto quello che mi colpí era qualcosa di diverso, qualcosa di piú nobile della cosiddetta eleganza.
Tornò tutti i giorni e ogni volta si ripeté la cerimonia della svestizione; si rivestiva, alla fine, con un tempo piú rapido. Quando stava per uscire, prima che si voltasse, incontrai qualche volta il suo sguardo: dagli occhi un po' socchiusi veniva un'occhiata breve, fredda, e leggermente maliziosa, ambigua.
M'incantava il suo capo chino sulle pagine. Lo guardavo come avevo sempre guardato le immagini della pittura. I suoi tratti erano insieme forti e dolci, inscritti in una pura forma geometrica: come diceva Venturi del *San Sebastiano di Antonello da Messina. Il riverbero dei fogli dava al suo incarnato un chiarore insieme tenero e severo.
Sui miei fogli cercavo di tracciare le linee della testa, che vedevo un po' di lato. La fronte alta e convessa, le sopracciglia lineari, il naso diritto, sensibile, la bocca dal taglio deciso e carnoso, il mento rotondo. Era giovane, non giovanissimo: due solchi seguivano i lati del naso e della bocca, senza mutarne l'essenziale serenità o indifferenza, proprio come in una statua.
Era un sottile veleno, che sorbivo in quella contemplazione? Io provavo gratitudine per quella visione: piú che mai mi sembrarono orrendi i vari ospiti della biblioteca, per lo piú vecchi, labbra cascanti, testa insaccata, occhi acquosi, curvi a grufolare sui loro testi. Non c'erano giovani, all'infuori di quello del ciuffo; le ragazze noiose, sgraziate.
Da principio non pensai a lui, fuori; fin che non mi accadde di vederlo anche in giro per l'università. Allora mi venne la curiosità di sapere chi fosse.
Di questo inizio ci fu una versione un po' diversa; piú completa e insieme piú reticente, in una lettera per Andrée. [...]
«[...] La stessa sera ero al Regio con un'amica, e notai nei palchi un giovane biondo che baciava con grazia la mano alle signore. Mi resi conto di averlo visto già all'università. Lo rividi infatti ogni giorno, alla biblioteca. Tu conosci la piccola biblioteca raccolta come una chiesa, dalle alte ampie finestre con le tende bianche come amavano i pittori olandesi del seicento.
Lo guardavo lungamente, senza saziarmi mai. Sedevamo di fronte e posso dire che non speravo neppure di essere notata. Mi piaceva moltissimo; conoscevo tutti i piani e le linee del suo volto, dolci e duri a un tempo, mi piaceva il suo volto chino, reso soave dall'ombra, i capelli lisci color dell'oro verde.
Presi l'abitudine di alzare gli occhi ogni volta che la porta si apriva. Ero nei primi tempi arrabbiatissima con me, perché diventavo come tutte le altre. In fondo anche perché dall'eleganza e dai modi lo giudicai di condizione molto elevata ed ero convinta che non ci saremmo mai conosciuti. Del resto mi pare strano anche adesso».
[...]
Da principio ero stata io a provocarlo. [...] Però cominciò lui – o era un caso? – a consultare i cataloghi quando c'ero anch'io nell'angolo sotto la scala di ferro a chiocciola, che portava agli scaffali alti. Non lo guardavo, in quei momenti; mi disturbava il mio batticuore, e poi per dignità, data la vicinanza. Nemmeno lui mi guardava: per civetteria, siccome non era pensabile che fosse per timidezza. [...]
Ormai ero sicura che si era accorto di me. Anche se non mi guardava, notai che caricava leggermente i gesti delle mani parlando con qualcuno.»
(ivi, p. 156-160).

«Accettò, mi parve con perplessità - di venire a posare. [...]
Mentre lavoravo e lui posava – lo vedevo di tre quarti – aveva lo sguardo sottile e un po' diffidente della biblioteca di facoltà.»
(ivi, p. 169)

«Io non penso molto spesso a Pavese e nemmeno questo invito mi ha sollecitata a farlo: mi è costato un certo sforzo. (Sono restia alle occasioni ufficiali). La mia amicizia con Pavese è stata intensa, ma abbastanza breve nel tempo. Eravamo compagni di università, ma – come ho raccontato in un libro – per me era una figura soltanto simbolica, di studioso ispirato, bizzarro, nervosissimo. Lo vedevo ai lunghi tavoli della biblioteca di facoltà: si attorcigliava continuamente il ciuffo dei capelli. Non ci siamo parlati mai; lui era timido e io non ero certo incoraggiante. Del resto lui non guardava le ragazze. Ci siamo conosciuti dopo.»
(Lalla Romano, Un sogno del Nord, Torino, Einaudi, 1989, p. 71. In Una giovinezza inventata il giovane lettore nervoso non viene identificato).

«Provo disagio a considerare queste persone realmente vissute, persone «storiche», e poi diventate personaggi dei miei romanzi. Un disagio che sempre mi si ripresenta quando si confondono i fatti della storia con la poesia. Certi personaggi esistono nella mia fantasia o sono stati da me rivissuti fantasticamente; perciò non è il caso di parlare di riferimento storico. Con alcuni, come con Pavese, l'amicizia è nata in seguito. Sebbene fossimo compagni di università, ci vedevamo per modo di dire, ci ignoravamo piuttosto nella biblioteca di Facoltà.»
(Lalla Romano, L'eterno presente: conversazione con Antonio Ria, Torino, Einaudi, 1998, p. 93).

«In Una giovinezza inventata racconti che fu con gli occhi che tu all'inizio incontrasti Franco Antonicelli, in biblioteca, mentre si toglieva il cappotto...
C'era qualcosa di sacrale nell'ingresso di questo uomo giovane, non giovanissimo, meno giovane di me. Bellissimo, con movimenti studiati. L'ho raccontato. Poi anche lui ha notato me; come si usava allora, mi aveva seguita per strada. È nato un incontro: sono stata subito delusa. Da che cosa? Dal fatto che questo giovane era mondano. Io detesto la mondanità. Era anche molto sensibile, molto colto. Siamo poi rimasti amici.»
(Lalla Romano, L'eterno presente: conversazione con Antonio Ria, Torino, Einaudi, 1998, p. 77).

Romano (1979e)

«Mi imbattei in lui [Antonicelli] nel passaggio che immetteva dalla scala buia all'ingresso della Nazionale, coperto da una tettoia di vetro. Io avevo in mano il Ceccardo di Viani (regalatomi da Giovanni [Ermiglia, nel libro Oneglia]). Pioveva a scroscio e il battere dell'acqua sulla vetrata era un rombo che sul mio essere ormai troppo sensitivo produceva una sensazione tra angosciosa e voluttuosa. Mostrai il libro e domandai: – Com'è? – Estroso, – rispose. Non era uno sprovveduto, in queste cose.»
(Lalla Romano, Una giovinezza inventata, p. 166).

«Maria Marchesini aveva un aspetto bizzarro [...].
Con lei presi a frequentare la Biblioteca nazionale, prima nella grande silenziosa sala di tutti, poi nelle misteriose «sale riservate».
Doveva laurearsi in filosofia.»
(ivi, p. 172).

«Avevo poi scoperto che il direttore delle «sale riservate», l'avvocato N., era mio lontano parente (anzi, l'aveva scoperto lui stesso). Era un ometto gentilissimo, ironico, pettegolo. Gli piaceva intrattenermi – in dialetto – sui comuni cugini, ricchi e avari.
Diventai assidua, quando scopersi che anche lí potevo incontrare A. [Antonicelli] (di tutto il suo nome e cognome usavo solo quella lettera).
Attraverso i passaggi – le sale erano infilate una nell'altra – vidi la Marchesini e lui che si festeggiavano: a sorrisi, risatine. Lui era un po' starnazzante come quella volta al Regio. Lei gli restituiva dei fogli. Lui mi aveva vista, mi cercò e mi trasmise i fogli, dai quali saliva il suo profumo leggero, che a me pareva femminile.»
(ivi, p. 174-175).

«Col mio innamorato – ma potevo, chiamarlo cosí? – accennai alla mia scelta [della tesi, su Cino da Pistoia]. Approvò. Alla biblioteca di facoltà, mi passava – come all'esame – foglietti dove aveva ricopiato frasi che qualcuno aveva scritto su Cino. Mi faceva piacere vedere la sua scrittura.»
(ivi, p. 177).

«Sulla scala ripida e semibuia della Nazionale i baci furono meno beati e tanto piú ingordi. Spesso venivano interrotti, e sempre allo stesso modo. Da una porticina sul primo pianerottolo appariva, senza far rumore, l'omino odioso dagli occhi melensi, che stava sempre seduto a un tavolino prima dell'ultima rampa, a distribuire le schede. Ci staccavamo, e lui nel passare ci dava una lunga occhiata sorniona e complice.
Impossibile sapere se non si era mosso dal suo tavolino (nel caso che fosse il diavolo). In fondo gli ero grata: ci legava, accomunandoci.»
(ivi, p. 195-196)

«“Fare lo stupido” era un'espressione che si usava anche a Cuneo. Era ben quello che lo avevo visto fare: al Regio, per esempio, o nella biblioteca.»
(ivi, p. 198).

«Ero arrivata fin davanti alla porta stretta della Nazionale, senza pensare ad altro che all'appuntamento. La porta era chiusa. Subito dopo vidi che il pavimento dei portici era coperto da uno strato grigiastro di polvere di neve mista a coriandoli, qua e là a piccoli mucchi. Era martedí grasso e io non lo sapevo.
Rimasi un po' ferma sul marciapiede davanti all'università.»
(ivi, p. 204).

«Alla Biblioteca Reale si entrava non da un portone antico, ma da una piccola porta scura. Nessuno del resto vi faceva caso. Il Manichino stesso vi entrava con naturalezza, saliva la scala buia. La sala principale era lunghissima e altissima e lungo un lato erano aperte alte finestre; tutt'intorno erano gli scaffali pieni di libri. Gli uomini e le donne sedevano ai lunghi tavoli lucidi. Prima che il Manichino arrivasse, si avvertiva un senso di disagio, di ansiosa attesa. L'aspetto delle persone e delle cose diveniva a poco a poco piú marcato e inquietante, l'atmosfera insopportabile. Toccando la materia fine dei vecchi libri, le mani apparivano di carne, orlate di unghie nere, i corpi simili ad animali mostruosi enormi o rachitici, le teste curve come musi alla greppia, con guance e labbra cascanti, o le bocche sottili e velenose. Rumore di sedie urtate, di passi pesanti, carta stridula, tonfi; il tempo tormentato, strozzato.
La porta si apriva e appariva il Manichino, con passo leggero. Sfila il soprabito, i guanti; depone con grazia il cappello, la sua roba ha un leggero profumo – le sue mani come farfalle sfiorano le carte, il suo capo è biondo e luminoso – allora dagli scaffali severi sorridono le dorature dei vecchi libri.»
(ivi, p. 212, dai frammenti de Il manichino amoroso).

«(in biblioteca)... prendeva un libro o una rivista – li sceglieva a lungo e meticolosamente – poi sedeva e leggeva, voltava regolarmente i fogli, ma non afferrava nulla e le parole e le pagine scorrevano sotto i suoi occhi fissi e intenti nell'interna passione, come l'acqua di un fiume a chi lo guarda dal parapetto di un ponte, rapito da quel fuggire fatale e sempre uguale, senza pensiero o forse col pensiero della morte.
Ma queste false letture la stancavano e la tormentavano; essa voleva talvolta riprendersi e seguire un pensiero, che subito perdeva. Il tempo passava lentissimamente.
Una volta pensò di cercarlo nelle altre sale, penetrò fino nell'ultima. C'era un vecchio dagli occhi terribili e mobilissimi, un ragazzo miope dalla testa rapata. Era la sala della Geografia.
Con timore e fatica estrasse dallo scaffale un atlante, lo sollevò tra le braccia e lo depose sul tavolo. L'aprí a caso.
Poi, ogni volta lo discese con fatica dallo scaffale, e si curvava sulle enormi pagine. La sua sofferenza che diventava acuta nella immobile lettura, ora leggermente impazziva e si allontanava. Fingeva di cercare un luogo e seguiva pazientemente l'intrico della carta leggendo ad uno ad uno i nomi fitti e minuti dal suono misterioso, nella lingua incomprensibile. Il suo occhio e anche il suo dito che scorreva febbrilmente nella ricerca vana, era simile all'animo suo e ne rifletteva l'ansia e la pena. Cosí in un certo modo si placava.»
(ivi, p. 216-217, dai frammenti de Il manichino amoroso).

«Quando Giovanni si era accorto che ero infelice, aveva scritto per me una lunga favola. La accompagnò con una lettera.
«[...] Io mi ricordo che un giorno (mi pare fosse nel tempo in cui Venturi le aveva proposto di darsi alla critica d'arte), mi congedavo da lei che stava per salire alla Nazionale ed ella mi disse come conclusione di una delle nostre solite chiacchierate, di avere molta fiducia in me. Ricordo il tempo l'ora e il luogo, vede che ho dato importanza a quella frase. [...]».»
(ivi, p. 225).

«Per la fine d'anno del '28 avevo mandato ad A. una piantina nana di edera (credo giapponese), senza biglietto. Mi abbordò in biblioteca: – Sei forse tu... – Sí. – Ah! – fece lui.»
(ivi, p. 229).

Romano (1998)

«Per quello che riguardava l'italiano, avevo una mia teoria: volevo che gli allievi amassero la lettura. Oggi si fa tanto affinché i ragazzi amino leggere. Ma la lettura è come l'istruzione: non si può imporre. Io avevo un mio sistema. Nelle biblioteche scolastiche, anche dopo la guerra a Milano, avevo trovato libri mediocri. Perciò facevo portare i libri dagli allievi o li portavo io. E soprattutto, anziché leggere qualche frammento di un libro, io stessa leggevo interi capitoli di grandi romanzi, per esempio la storia della monaca di Monza dei Promessi Sposi, oppure il capitolo della morte del principe Andrea da Guerra e pace. I ragazzi si appassionavano molto.»
(Lalla Romano, L'eterno presente: conversazione con Antonio Ria, Torino, Einaudi, 1998, p. 19).

Roncaglia (1945)

«La Biblioteca Estense (triste entrare nelle sue sale e non vedere più al suo tavolo di lavoro l'assiduo Giulio Bertoni...) ha già riportato in sede e rimesso a disposizione degli studiosi – non molti in verità (ma ancor meno sono i visitatori di una pure interessantissima mostra d'arte alla Pinacoteca) – tutto il prezioso materiale manoscritto, che non ha subito perdite né danni. Danni seri ha subito invece l’Accademia di Scienze Lettere ed Arti, la cui attività è pertanto sospesa; mentre lavoro silenzioso e paziente d'isolato è quello che si continua alla Casa del Muratori, per la Bibliografia Muratoriana.»

(Aurelio Roncaglia, Lettera da Modena, p. 59).

Roncaglia (1979)

«Ma poi, anche a chi lo riguardi sotto il profilo dell’erudizione, l’interesse del Bertoni agli studi provenzali si scopre radicato in una dimensione umana che salda la cultura alla vita. [...] A chiarire questo punto nel modo più elementare e diretto, mi si perdoni di condiscendere a un ricordo personale: ch’è poi il ricordo del mio primo incontro con il nome di Giulio Bertoni. Avevo otto anni, quando mio padre portò a casa il quarto fascicolo della «Cultura» diretta da Cesare De Lollis, e sulle sue pagine mi fece vedere un articolo del Bertoni, intitolato Un ignoto provenzalista modenese: Carlo Roncaglia. «Guarda qui – mi disse –: si parla del tuo bisnonno». [...] Mi accennò a un importante manoscritto di poesie trovatoresche conservato nella nostra città, alla Biblioteca Estense: il bisnonno doveva averlo visto e forse studiato, come ora lo stava studiando quest’altro modenese, il professor Giulio Bertoni, tanto bravo che lo avevano chiamato a insegnare in Isvizzera e poi all’Università di Torino, ma che veniva spessissimo a Modena, dove passava le giornate in biblioteca, e là mio padre lo incontrava.
Là lo incontrai io pure, alquanti anni dopo, quando, entrato al Liceo, cominciai a frequentare la biblioteca. Si interessò ai miei studi, con tanta affabilità e benevolenza che io osai chiedergli consiglio su qualche lettura adatta a introdurmi in quel mondo dei trovatori pel quale m’era rimasta e si veniva ravvivando la curiosità. Sorridendo (gli occhi chiari dietro gli occhiali a pinza), mi suggerì di leggere le Osservazioni del Galvani: un libro del 1844! Stupito, domandai se non esistessero, sui trovatori, studi più recenti. Mi rispose che molti ne esistevano, e tra gli altri i suoi, ma intanto gli pareva bene ch’io cominciassi da quel vecchio libro. Perché? Semplice: di lì aveva cominciato lui, perché Galvani era modenese. La cultura autentica non può essere un universale astratto, disponibile a incarnarsi non importa dove e non importa quando: essa ha sempre radici in particolarità concrete, in «occasioni», della natura e della storia. Questa press’a poco, la spiegazione; ma le parole, che non saprei ora ripetere, erano più alla buona.»

(Aurelio Roncaglia, Giulio Bertoni provenzalista, in Giulio Bertoni 1878-1978, p. 92-93)

Roncetti (1985a)

«Nella storia culturale della nostra città la Mostra d’antica arte umbra [tenutasi nel 1907] si colloca al centro di una felice stagione, contrassegnata dal rigoglioso fiorire di studi storici e artistici e all’accorrere a Perugia di illustri studiosi italiani e stranieri. Ma inevitabilmente le luci dell’esposizione si spensero, così come ben presto si spengeranno i lumi su tutta l’Europa. Ed allora anche la vita della biblioteca [Augusta] ne risentirà, vedendo contrarsi il numero dei suoi frequentatori [...].
Nel mese di maggio del 1922 la Biblioteca viene dotata di quel fondamentale strumento amministrativo che la scienza biblioteconomica definisce registro cronologico d’entrata o registro d’ingresso. La prima registrazione (il numero 1 della serie) riguarda l’annata 1920 della rivista «Napoli nobilissima». Dopo sessantuno anni, alla data del 31 dicembre 1983, le unità registrate ascenderanno a 131.035.
Ma un’idea precisa delle dimensioni operative dell’istituto nel periodo tra le due guerre mondiali si ha esaminando la composizione dell’organico del 1928 (un bibliotecario, un vice-bibliotecario, un segretario, un distributore, un custode inserviente, oltre ad un impiegato straordinario addetto ai lavori di riordinamento); mentre l’entità del servizio al pubblico si esprime nei seguenti dati statistici: media annuale dei lettori in sede di opere a stampa e di manoscritti: 7000; visitatori delle collezioni esposte (codici miniati etc.): 1500; richieste di prestiti a domicilio: 1500. [...]
Si provvide anche ad una ristrutturazione dei locali e ad una generale riorganizzazione del servizio, che implica tra l’altro la destinazione a sala di lettura dell’antico refettorio dei priori: dimodoché l’ingresso del pubblico non avverrà più attraverso il portone che si trova di fronte alla Pinacoteca, e che immette direttamente nel Salone Podiani, ma attraverso una porta di accesso situata al piano intermedio del palazzo.»

(Mario Roncetti, Appunti per la storia della Biblioteca Augusta nel secolo ventesimo, p. 205-206).