LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

N.B. La casella di ricerca qui sotto opera soltanto sul titolo della testimonianza (di norma, cognome dell'autore e anno).
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Risultati della ricerca

Stuparich (1922)

«Trieste, se è passata nella storia, lo deve ai suoi piroscafi, ai suoi moli, ai suoi sacchi di caffè. [...]
E come mancò d'uomini, così naturalmente mancò di centri e di correnti intellettuali. [...]
Quando la giovinezza ambiziosa di Scipio Slataper urgeva per entrare fattore attivo nella vita cittadina, in sul primo decennio del secolo ventesimo, le cose non erano profondamente mutate.
C'era sì un più largo contatto con la vita spirituale d'Italia, ma tutto di superficie. [...] Una «università popolare » di nome, di fatto un'impresa di conferenzieri, [...] in fondo servì a far circolare l'aria nel chiuso; aria che purtroppo i triestini pigliarono tutta per pura, mentre in gran parte erano zaffate di stantio. Vivacchiava una «Minerva» ristretta e prolissa, e un tantino infingarda società di filiazione arcadica. Una biblioteca, non poverissima di volumi, ma molto disordinata e di locali miserabili. Nessuna sala di lettura. Ma in compenso e di questa e della biblioteca, una libreria modello.»
(Giani Stuparich, Scipio Slataper, p. 11-12).

«Anch'egli [Scipio Slataper] studia; non si lascia condurre la mano dal facile sentimento a scrivere frasi campate in aria, come faceva allora la maggior parte degli scrittori di cose irredentistiche. Durante le vacanze universitarie che passa a Trieste, egli consulta molti opuscoli e giornali della Sezione patria della biblioteca civica; e quello che non trova a Trieste, si fa mandare a Firenze dalla Biblioteca della Camera dei Deputati di Roma, che è ricca di pubblicazioni sul problema adriatico.»
(ivi, p. 212-213)

Stuparich (1948a)

«Vedo Praga, le larghe vie tranquille del nuovo quartiere dirimpetto a Smíchov, dalla parte del Lungo Moldava Palacky, cieli di primavera ariosi e teneri, mattine domenicali. Rinunciavo alla festa, alle libere passeggiate e, saliti sei piani di scale, aprivo la porta della biblioteca del seminario di filologia germanica e mi toglievo dallo scaffale dietro la grata le opere di Gottfried Keller. Al lungo rozzo tavolo intagliato dai temperini degli studenti, solo, in un silenzio di clausura, nell'aria impregnata di quell'odore speciale ch'emanano i libri, e scaldata dal sole precoce, io stavo sprofondato nella lettura del grande novelliere svizzero e le ore passavano senza ch'io m'accorgessi. Solo di tanto in tanto, per dar sfogo al contenuto piacere che mi procurava la magistrale fattura di qualche scena, mi levavo su e andavo alla finestra, a dare uno sguardo al placido fiume.»

(Giani StuparichTrieste nei miei ricordi, p. 154. Stuparich, che era stato studente all'Università di Praga negli anni 1910/11 e 1912/13, vi tornò nel 1921/22 come lettore di letteratura italiana, su incarico del Ministero degli esteri. La prima edizione dell'opera uscì nel 1948 da Garzanti).

Stuparich (1948b)

«Montale preferivo vederlo da solo al Gabinetto Vieusseux, che allora aveva sede nell'antica chiesa di S. Maria Sovrapporta: era piú lui. Mi faceva scendere nel suo studio sotterraneo: in quell'ambiente «smorzato», κατὰ κύμβας, con la sua pipa piú da esteta che da fumatore, e quel suo palpito di palpebre nella faccia d'idolo, che accende e spegne lo sguardo in un vellutato ripetersi di variazioni sensibilissime, come il sorvolo di morbidi ritmi musicali su una pietra refrattaria (e la sua lirica non è forse qualche cosa di simile?), Montale mi faceva sentire la presenza d'una personalità ricca di prospettive e di meandri. E subito m'attraeva quel suo discorrere minuziosamente concreto e largamente allusivo, quella sua curiosità capillare lievemente scherzosa, come della schiuma sulla spiaggia, che, non s'avverte, ma è mossa dall'ansito del gran mare alle cui profondità ritorna.»

(Giani Stuparich, Trieste nei miei ricordi, p. 166. La prima edizione dell'opera uscì nel 1948 da Garzanti).

Stuparich (1948c)

«Con gli anni la mia relazione d'amicizia con Quarantotti s'è andata facendo piú calda e piú intima. [...] E, piú tardi, negli anni tristissimi, ricordo l'intimità semplice, poco loquace ma viva, delle ore passate con lui nella stanza di direzione della Biblioteca civica, in quell'altra serenità che dà la compagnia dei libri. (Quarantotti, cresciuto nella tradizione istriana fondamentalmente umanistica, era molto adatto a fare il direttore d'una biblioteca, per la sua intelligenza moderna e il suo amore ugualmente distribuito fra la dignità d'un antico codice e l'attualità d'un'edizione d'oggi; e Trieste aveva trovato in lui il suo bibliotecario, ma per quel senso malcerto con cui essa s'orienta nel campo della cultura, non ha saputo mantenerselo.)».
(Giani Stuparich, Trieste nei miei ricordi, p. 195. La prima edizione dell'opera uscì nel 1948 da Garzanti).

«Dall'autunno del 1942 non insegnavo piú, ero stato aggregato, dietro mia richiesta, alla Soprintendenza ai monumenti e alle gallerie. [...]
Fra libri d'arte e cari compagni d'ufficio, cominciando dal soprintendente, l'architetto [Fausto] Franco, nobiluomo non solo di sangue, passavo le mattine alleggerendo i miei crucci. Avevo una bella stanza, la stanza della biblioteca tutta per me.
[...]
Dalla Soprintendenza mi recavo qualche volta alla vicina Biblioteca civica. Quarantotti m'accoglieva nella sua stanza di direzione. A un tavolinetto presso la sua scrivania sfogliavo memorie, e diari di scrittori garibaldini e prendevo appunti, mentre Pierantonio guidava e sorvegliava dalla sua poltrona l'andamento della biblioteca, chiamando con un colpo di campanello qualche impiegato o inserviente, rispondendo al telefono e col telefono mettendosi in comunicazione con gli altri uffici del Municipio. Tutto con una calma quasi ieratica, con un sorriso mite sulla bocca, e i movimenti e la parlata lenti e dignitosi.
Ogni tanto levava dal cassetto un suo manoscritto: stava rivedendo l'Onda dell'incrociatore, torturandone la stesura con correzioni e varianti; o era la volta dei Nostri simili, di cui egli preparava una nuova edizione, sotto l'incontentabile lima. I nostri sguardi s'incontravano e spesso, sospendendo il lavoro, discorrevamo insieme, della nostra Trieste, dell'avvenire e dell'opera nostra, che ci stava a cuore. L'atmosfera in quella stanza ovattata di silenzio, fra i ritratti degli arcadi Sonziaci alle pareti, il grande antico mappamondo, gli armadi e i manoscritti di Domenico Rossetti, era la piú confacente ai nostri spiriti nella tristezza e nella gravità dell'ora.»
(ivi, p. 217-219).

Stuparich (1960)

«Ricordo tempi tristissimi: Trieste occupata e malmenata dai tedeschi nazisti; in quei tempi, quasi fuori del mondo, passai ore pacifiche e serene nella saletta della direzione della nostra Biblioteca Civica. Alla scrivania, solido e mite nella sua poltrona, il direttore d'allora: Quarantotti Gambini, che guidava con molto tatto e discrete chiamate degli impiegati il lavoro della biblioteca; a un tavolino, accanto, io preparavo una Antologia di Scrittori Garibaldini per la Collezione di Pancrazi: Romanzi e Racconti dell'800. Ogni tanto sollevavamo il viso dal nostro lavoro e ci parlavamo.»

(Giani Stuparich, testimonianza su Quarantotti Gambini per Ritratti su misura, p. 347).

Svevo (1892)

«Scoperse la biblioteca civica [di Trieste] e quei secoli di cultura messi a sua disposizione, gli permisero di risparmiare il suo magro borsellino. Con le sue ore fisse, la biblioteca lo legava, apportava nei suoi studii la regolarità ch'egli desiderava. La frequentava assiduamente anche perché la sua stanza in casa Lanucci era poco adatta a studiarci. Piccola, a mezzo occupata dal letto, di rado visitata dal sole, era disaggradevole e non era facile pensare su un tavolinetto rotondo di cui le quattro gambe non toccavano mai contemporaneamente il pavimento. [...]
In biblioteca fece poche conoscenze. Entrava nella lunga sala di lettura tutta occupata da tavoli disposti parallelamente, occupava un posto qualunque e per qualche tempo con la testa fra le mani era tanto assorto nella lettura da non vedere neppure chi accanto a lui sedesse. Dopo un'ora al più, la lettura affaticante gli ripugnava, per qualche tempo ancora vi si costringeva e cessava quando la mente più non afferrava la parola che l'occhio vedeva; usciva non appena deposto il libro e dopo quell'ora passata con gl'idealisti tedeschi, gli sembrava sulla via che le cose lo salutassero.»
(Italo SvevoUna vita, p. 62. Pubblicato dall'editore Vram nel 1892, è il primo romanzo di Svevo).

«Una sera, correndo, si trovò dietro ad una donna che passando lo aveva guardato. [...]
Ella attraversò il Corso e imboccò via Cavana; doveva passare dinanzi alla biblioteca. Alla peggio andrò in biblioteca, pensò Alfonso per dare alla sua passeggiata una meta sicura.
La precedette e si fermò alla porta della biblioteca. Ella passò [...] ma non lo guardò, ciò che ad Alfonso levò per qualche tempo la voglia di seguirla.»
(ivi, p. 63-64).

«Si ostinava tuttavia a passare le sue sere in biblioteca, ma ne usciva come ne era entrato, senza idee nuove perché per l'idea nuova il suo cervello era chiuso. Non sapeva che rievocare cose vecchie e ciò per completare qualche sogno da megalomane in cui si vedeva far mostra della sua scienza dinanzi a terzi.»
(ivi, p. 75-76).

«Talvolta, uscito dall'ufficio si avviava verso la biblioteca, ma di rado sapeva vincere la sua ripugnanza fino a restarci oltre mezz'ora; lo prendeva un'inquietezza invincibile che lo portava all'aperto a incantarsi su qualche molo, senza idee e senza sogni, unica preoccupazione quella di assorbire molto di quella brezza marina di cui s'immaginava di sentire immediati i benefici effetti.
[...]
Per lungo tempo inutilmente tentò di ripigliare le letture alla biblioteca civica, magari lasciando per allora in disparte il suo lavoro filosofico. Una sera Sanneo lo sgridò per un errore da lui fatto. Per quanto dovesse riconoscere di meritare quei rimproveri, si irritò del modo, di una parola più brusca. Altre volte, se ne rammentava, si toglieva all'avvilimento in cui lo gettavano tali accidenti della vita d'impiegato, applicandosi con maggior fervore ai suoi studi che dovevano toglierlo alla sua posizione subalterna. Fu quel fatto che dopo lunga assenza lo portò di nuovo alla biblioteca.
Si dedicò alla lettura di un giornale bibliografico italiano. La lingua non gli obbediva e bisognava darsi esclusivamente a letture italiane. Lesse per un'ora circa con attenzione spontanea, era effetto della brutalità di Sanneo, una discussione sull'autenticità di certe lettere del Petrarca e quando cessò rimase soddisfatto, rimpiangendo i tempi passati che la stanchezza del suo cervello gli ricordava, un rimpianto forte come se da allora la sua vita avesse mutato di molto.
Quando alzò il capo si avvide che a lui dirimpetto sedeva Macario che lo fissava indeciso.
– Il signor Nitti! – disse costui quasi domandandolo; doveva avere la memoria labile. Poi però gli porse amichevolmente la mano.
Uscirono insieme.
– Ci viene spesso? – chiese Macario occupato anche questa volta a raddrizzare il soprabito, una lunga mantellina grigia dai grandi bottoni d'osso.
Alfonso con tutta disinvoltura rispose che veniva ogni sera e, tacitamente, si propose di fare in futuro della bugia una verità.
– Io da otto giorni, ed è peccato che sia la prima volta che ci vediamo – disse Macario gentilmente. Gli chiese che cosa studiasse.
– Letteratura! – confessò Alfonso esitante.
Era lieto di poterlo dire a Macario, ma esitava conoscendo e temendone lo spirito maldicente. Spiegò ch'era sua abitudine di studiare ogni giorno qualche ora per svagarsi del lavoro della giornata.
– E che cosa legge? – chiese Macario che lo guardava con sorpresa.
Trovava che Alfonso, ad onta del viso bronzino, aveva l'aspetto meno rustico di mesi prima. Parlava più disinvolto e, di più, Macario era abbastanza intelligente per comprenderlo, dinotava una certa superiorità di negare ogni importanza a degli studî fatti con regolarità.
Sapendo quanto disprezzo si avesse da certuni per filosofi e filosofia, Alfonso si astenne dal nominare i suoi autori prediletti e parlò soltanto di qualche critico. [...]
Macario raccontò che veniva in biblioteca per leggere con calma Balzac che i naturalisti dicevano loro padre. Non lo era affatto o almeno Macario non lo riconosceva. Classificava Balzac quale un retore qualunque, degno di essere vissuto al principio di questo secolo.
[...]
La sera appresso si trovarono di nuovo in biblioteca. Alfonso ci andò più volentieri. La conversazione con Macario lo divertiva e lo lusingava la sua compagnia.
[...]
– Bellissimo! – esclamò una sera Macario alla biblioteca, e pose dinanzi ad Alfonso un libriccino ch'egli aveva finito di leggere: Louis Lambert di Balzac.
Lo lesse anche Alfonso in due o tre giorni e la sua ammirazione non fu minore. Salvo una lettera di amore di una passione profonda e tanto sensuale da non esserlo più, egli non ammirò tanto i pregi artistici dell'opera, quanto l'originalità di tutto un sistema filosofico esposto alla breve ma intero, con tutte le sue parti indicate, e regalato dall'autore al suo protagonista con la splendidezza di gran signore.
Macario gli chiese come gli fosse piaciuto e Alfonso era in procinto di dirne con sincerità la sua opinione. Ma Macario con premura, quasi avesse temuto gli venissero rubate le idee, disse e gl'impose la sua:
– Sa perché è un bel libro? è l'unico di Balzac che sia veramente impersonale, e lo divenne per caso. Louis Lambert è matto, è composto di matti tutto il suo contorno e, per compiacenza, l'autore in quest'occasione rappresenta matto anche se stesso. Così è un piccolo mondo che si presenta intatto, da sé, senza la più piccola ingerenza dall'esterno.
Alfonso rimase stupefatto a questa critica altrettanto originale quanto falsa. Doveva essere stata fatta con un metodo che Alfonso si trattenne dall'indicare, unicamente perché temeva di venir messo anche lui in quel piccolo mondo che si presentava da sé.»
(ivi, p. 82-89).

«Gli parve di essere già ritornato alla serietà di propositi che aveva avuta altre volte quando era frequentatore assiduo della biblioteca civica, ma col pensiero ricorreva alla casa donde usciva e sognava scene in cui veniva scongiurato di ritornarci.
Ci ritornò senz'esserne pregato, unicamente perché alla mattina del mercoledì Macario passando gli aveva gridato:
– A questa sera, eh!»
(ivi, p. 114).

«In Una vita tutta la parte che si riferisce alla banca Maller e alla Biblioteca Comunale può considerarsi autobiografica; e ce lo conferma più di una lettera di Svevo.»
(Italo Svevo nel centenario della nascita. Discorso di Eugenio Montale, 1963, in: Italo Svevo - Eugenio Montale, Carteggio: con gli scritti di Montale su Svevo, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1976, p. 120-144: 129).

Svevo (1928)

«La vita d'Italo Svevo alla Banca è descritta accuratamente in una parte del suo primo romanzo Una Vita. Quella parte è veramente autobiografica. Ed anche le due ore serali di ogni giorno passate alla Biblioteca Civica vi sono descritte. Si trattava finalmente di conquistarsi un po' di cultura italiana. Per varii anni passò quelle ore con Machiavelli, Guicciardini e Boccaccio. Poi fu introdotto nei suoi studii un qualche ordine dalla conoscenza delle opere di Francesco De Sanctis. Ed intanto anche i contemporanei ebbero grande influenza su lui: il Carducci specialmente. Forse per l'influenza del Carducci – e se ne dichiarò amaramente pentito – non amò in quell'epoca, quando si sentiva abbastanza giovanile per apprendere ancora, il Manzoni. Ma anche la passione per il romanzo francese non gliene lasciò il tempo. Una Vita è certamente influenzato dai veristi francesi. Lesse molto Flaubert, Daudet e Zola, ma conobbe molto di Balzac e qualche cosa di Stendhal. Nelle sue letture disordinate si fermò lungamente al Renan. Però il suo autore preferito divenne presto lo Schopenhauer, e forse fu al grande filosofo che si deve il pseudonimo di Italo Svevo che per la prima volta apparve sulla copertina di Una vita

([Italo Svevo], Un profilo autobiografico di Italo Svevo, in: Italo Svevo scrittore; Italo Svevo nella sua nobile vita, Milano, Morreale, 1929, p. 3-16: 5-6. Lo scrittore stese questo profilo in terza persona per l'editore nel 1928, a partire da una traccia fornitagli dall'amico giornalista Giulio Cesari).

Svevo Fonda Savio (1979)

«L'anno sveviano è stato per me un anno denso di lavoro, ma costellato da grandi gioie. [...]
Ma un'altra causa di commozione è stato l'incontro con un vecchio amico: il Gabinetto Vieusseux. Infatti durante la prima guerra mondiale io mi trovavo a Firenze, profuga da Trieste. Diciottenne e assetata di letture e di studi venni indirizzata da un'amica al Gabinetto Vieusseux. Si trattava allora di una grande e ben fornita biblioteca circolante, della quale divenni assidua cliente; e la strada che conduceva dal mio albergo alla Via dei Vecchietti divenne per me un percorso abituale.
Non posso descrivere la mia meraviglia nel vedere il cambiamento radicale del Gabinetto Vieusseux, nel mio ricordo biblioteca circolante ed ora diventato un grande centro culturale: e questa cultura esso non la tiene gelosamente per sé ma la irradia nel mondo.»

(Letizia Svevo Fonda Savio, in: Testimonianze e ricordi sul Gabinetto scientifico letterario G. P. Vieusseux, p. 13).

Taviani (2013)

«Siamo autodidatti, nel senso che non abbiamo né frequentato scuole, né abbiamo avuto maestri, salvo quelli ideali. Tutto è cominciato a Pisa, dove ci eravamo trasferiti dopo che la nostra casa a San Miniato era stata distrutta dai nazifascisti. Frequentavamo il ginnasio e quel giorno marinammo la scuola. Mentre passeggiavamo in Corso Italia vedemmo della gente che usciva da un cinema. Incuriositi ci avvicinammo alla locandina per vedere di che film si trattava, e questi ci dissero: «Non entrate! È un film italiano molto noioso. Non c’è amore, non c’è storia!». Queste parole, quasi inconsciamente, ci provocarono a tal punto che ci decidemmo ad entrare. [...]
Noi abbiamo invidiato i nostri coetanei che entravano al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Per quella che è la nostra esperienza di autodidatti, ci eravamo resi conto che se volevamo intraprendere la strada del cinema dovevamo darci da fare e abbiamo fatto di tutto per imparare. Così andammo in biblioteca a Pisa e iniziammo a studiare su un testo di storia del cinema, l’unico disponibile. Seguivamo tutti i film, che allora erano quelli del neorealismo e questa fu una grande fortuna per noi, perché il nostro primo approccio con il cinema è avvenuto attraverso film che hanno fatto la storia del cinema.»

(Vittorio Taviani, intervista, in: Lezioni di cinema e di regia, a cura di Antonio Carlo Vitti, p. 221-237: 222. La vicenda è stata raccontata almeno in altre due sedi, riportate di seguito).

«Questa è stata la nostra Università perché qui, ancora ragazzi, scoprimmo la “Storia del cinema” di Pasinetti. Scoprimmo che il cinema aveva una sua storia come la letteratura, la pittura, le altre arti studiate al liceo. In quegli anni – pensate – ci davano ancora temi come “il cinema può essere arte?”. Fa sorridere la nostra ignoranza della letteratura cinematografica passata, ma erano gli anni del dopoguerra e le nuove riviste specializzate vennero dopo. "Hollywood” era l’unico rotocalco che si occupava di cinema, di attori, di gossip. Pubblicava anche recensioni dei lettori e uno di noi era tra quelli. Il volume di Pasinetti divenne il nostro vangelo cinematografico: occhi avidi scorrevano le righe che ci parlavano di Eisenstein, Ford, Renoir. La mattina entravamo in questa Università insieme agli studenti veri. Nel silenzio della biblioteca studiavamo con serietà, una serietà lieta, sentimento sconosciuto nell’indolenza dei banchi di scuola. La ricerca di sé, così viva e spesso angosciosa in un ragazzo, aveva trovato una sua strada. Trascrivemmo tutto il libro o quasi… forse in qualche nostra cantina esiste ancora il manoscritto.»
(Paolo e Vittorio Taviani, Itinerari: dalla Sapienza allo schermo, lectio magistralis tenuta l'11 marzo 2008 in occasione del conferimento della laurea specialistica honoris causa in Cinema, teatro e produzione multimediale da parte dell’Università di Pisa).

«Il cinema fu una rivelazione anche traumatica. Tutta una generazione scoprì una nuova realtà, che era molto diversa da quella dell’Ottocento. Da quel momento per noi ci fu il cinema e soltanto il cinema.
All’Università di Pisa, in biblioteca, scoprimmo l’unica Storia del cinema che esisteva allora, quella di Pasinetti. Ce la siamo studiata parola per parola.
Avete [!] trascritto quel libro un pezzo alla volta. Un lavoro da monaci amanuensi.
Era il nostro vangelo.»
(Cinema in rivolta: intervista a Paolo e Vittorio Taviani, conversazione con Fabrizio Tassi pubblicata originariamente in «MicroMega», 2012, n. 6).

Tecchi (1929)

«Abbiamo chiuso da tempo una nostra indagine sulle rispettive posizioni dei libri italiani e dei libri stranieri. Peraltro crediamo di molto interesse pubblicare quanto, in ritardo, ci scrive sull’argomento l’illustre Bonaventura Tecchi, direttore del Gabinetto Vieusseux:

Il Gabinetto Vieusseux è davvero un posto importante e singolare d’osservazione per l’inchiesta da Lei promossa, poiché non soltanto fu centro di studi e di discussioni anche relativamente a libri e a movimenti culturali stranieri nell'importantissimo periodo del Risorgimento, ma è oggi, senza confronti, la biblioteca che possiede il maggior numero di libri stranieri, specialmente inglesi e francesi.
Senza perdersi in discussioni teoriche e tenendo conto soltanto dei dati di fatto che, come direttore, ho potuto stabilire, rispondo schematicamente alle Sue tre domande:
1) Più che di un «tipo di libro straniero che vada maggiormente in Italia» si potrebbe parlare di autori preferiti che hanno tenuto il campo in questi ultimi anni, poiché in quanto a «tipi» di libri il pubblico accoglie con favore tanto il vecchio romanzo d’amore, se ben fatto, quanto il romanzo d'avventure, tanto le Vies romancées quanto il romanzo storico. Se mai di un criterio si può arrischiarci a parlare, è che il pubblico italiano ha mostrato una certa lentezza e diffidenza a interessarsi ai romanzi di pura analisi psicologica, e soltanto ora Proust e Freud cominciano ad interessare un pubblico più vasto, se ben sempre d’élite. Più facile accoglienza hanno avuto invece le Vies romancées, le biografie ecc. e in generale tutti quei libri, romanzi o no, dove all’elemento inventivo si unisce, con più o meno cautela, l’elemento storico.
2) Gli autori stranieri più richiesti dal pubblico in questi ultimi tempi sono:
a) Francesi: Kessel (soprattutto l’Equipage), Maurois (tanto i romanzi quanto le vite di Disraeli e di Shelley), Dekobra, Benoît, Mauriac, Farrère, Margueritte V., Morand, Giraudoux, Hermant, Mille, Bordeaux, Bourget;
b) Inglesi: Locke W., Hichens R., Wodehouse P. G., Maxwell W. B., Wachell H. A., Clyn E., London J., Conrad J., Dell E. M., Oppenheim E. F., [sic] Albanesi E. M., Benson E. F., Bennet A., Wells H. G., Mayo K. (Mother India), Strachey L. (Quen [sic] Victoria, Elisabeth and Essex: queste due sono biografie di grande successo);
c) Tedeschi: Wassermann J. (Der Fall Mauritius), Zweig S. (biografie su Tolstoi, Dostojewski, Casanova, Dickens, Stendhal), Zweig Arnold (Der Streit um den Sergeanten Grischa: romanzo di guerra), Ludwig E. (in tutte le biografie e grande successo in tutte le lingue, riprova, questa, di ciò che si è detto sui libri a carattere storico o pseudo storico), Mann T., Mann H., Feuchtwanger L. (Jud Süsz), Schickele, Doeblin, Undset e Larsen (che non sono tedeschi ma nordici).
Importante la ripresa, specie in Germania, di libri e romanzi sulla guerra; tra cui Remarque, Im Westen nichts neues.
Riguardo ai «ceti» di lettori, è da notare che gli autori francesi sopracitati sono letti, oltre che dal pubblico colto e aristocratico, anche da un pubblico assai vasto: professionisti, media borghesia ecc; mentre gli autori inglesi sono letti dalla numerosa colonia inglese a Firenze o dalla aristocrazia fiorentina, educata alla conoscenza della lingua inglese.
3) Più difficile rispondere alla terza domanda (quali autori italiani possono essere in grado di tener testa agli autori stranieri) senza lasciarsi trasportare da preferenze personali.
I romanzieri italiani più letti sono: Brocchi, Gotta, D’Ambra, Milanesi; ma c’è da domandarsi se essi all’estero, nonostante i loro meriti, non abbiano già gli equivalenti. D’altra parte la giovine letteratura italiana, che per più segni si spera possa domani tener testa come originalità alle letterature straniere, è oggi in uno stato di formazione e non è ancora largamente seguita dal pubblico.»
(Bonaventura Tecchi, Il gusto dei lettori, «Augustea», 5, n. 9 (15 maggio 1929), p. 270-271.)

Terni (1969)

«Ci proponemmo infatti di scegliere un insieme di circa 5000 volumi [...] capaci di costituire un fondo durevole sotto il profilo critico e formativo. I volumi dovevano essere – tranne qualche eccezione – in lingua italiana e rappresentare «il seme di tutto», come aveva suggerito Delio Cantimori, il grande studioso che con particolare intensità segui sin dall'inizio il nostro tentativo e vi collaborò in maniera determinante. [...]
La nostra ricerca prese l'avvio da un «questionario» inviato dalla casa editrice a 5000 persone [...].
Nei tre mesi successivi all'invio (novembre 1962) ricevemmo 304 risposte [...]. Disponevamo quindi di una bibliografia «grezza» di circa 4500 titoli. Un gruppo di lavoro interno alla casa editrice procedette ad una prima sistemazione delle indicazioni pervenute. In una fase successiva questo gruppo si recò a Firenze ove lavorò sotto la guida di Delio Cantimori presso la Biblioteca nazionale centrale. È in questa fase che il catalogo – grazie all'apporto creativo di Delio Cantimori, alla genialità di certe sue intuizioni, alla tendenziosità felice di certe sue esclusioni e inclusioni – incominciò ad assumere una sua netta fisionomia.»

(Paolo Terni, L'esperienza di Dogliani, in: Guida alla formazione di una biblioteca pubblica e privata, p. 673-681: 675-676).

Terra (1960)

«Sono nato nel 1917 a Torino da padre bolognese e da madre piemontese. Per andare a scuola attraversavo il Po e il parco del Valentino. Andai a lavorare a 13 anni per aiutare la famiglia, come si diceva allora. Studiai per conto mio. C'era una biblioteca in corso Palestro che era aperta di sera e la domenica mattina. Non credo sia stata ricostruita dalla fine della guerra.»

(Stefano Terra, testimonianza per Ritratti su misura, p. 406. Si riferisce alla Biblioteca civica di Torino, dal 1929 in corso Palestro, distrutta da un bombardamento la notte tra il 7 e l'8 agosto 1943 e ricostruita e riaperta solo nel novembre 1960)

Tilgher (1910)

«In biblioteca [nazionale universitaria di Torino], poi, tutto va benissimo. Il Direttore è a letto con la sciatica, e vi resterà almeno un'altra decina o quindicina di giorni. Figuratevi che bazza per gl'impiegati! Domina in Biblioteca completa anarchia, e ognuno s'arrangia come può per non far niente. Io mi porto a casa dei libri, e studio per mio conto.»
(Adriano Tilgher, lettera a Benedetto Croce, Torino 11 maggio 1910, p. 66)

«Ho a comunicarvi una notizia terribile. Il Bibliotecario, essendosi ricordato di quanto gli avevo detto ai primi tempi della mia venuta qui, che cioè voi sareste venuto a farmi visita alla fine di giugno, ha dato ordine di ripulire ed assestare la Biblioteca, riordinare i codici e i manoscritti, spolverare i libri, il tutto per ricevervi degnamente al vostro prossimo arrivo. Perciò, in nome di Dio, vi scongiuro di venire a Torino (e al più presto), non foss'altro che per un'ora. Pensate che, se non avete a venire qui, io sarei semplicemente fritto. Vi assicuro che avrete un'accoglienza trionfale, come pure che, se non venite, mi troverò in un bell'impiccio.»
(lettera a Benedetto Croce, Torino 12 giugno 1910, pp. 75-76)

«Io qui vivo ormai nella più completa solitudine: i miei colleghi d'ufficio son gente troppo occupata a prendere sul serio il loro impiego per darmi retta, senza dire che è severamente proibito in Biblioteca il parlare durante le ore di ufficio (non per niente siamo a Torino); siccome sono in una stanza affatto appartata dal pubblico, mi è tolto ogni mezzo di scambiar qualche parola con gli studiosi.»
(lettera a Benedetto Croce, Torino 14 luglio 1910, pp. 78-79)

«Pensate che dalle 9 alle 12 e dalle 2 alle 5 io sono in gabbia, dove posso, bensì, leggere libri, ma non spingere l'impudenza sino al punto di tradurre Cartesio.»
(lettera a Benedetto Croce, Torino 1 agosto 1910, pp. 83-84)

«In Biblioteca le cose vanno malissimo. L'orario è stato aumentato da 6 a 7 ore, e distribuito in modo così infame da occupare tutta la giornata. [...] Posso sì, è vero, studiare per mio conto in ufficio, ma il lavoro che fo in ufficio non è mai di quella intensità che il lavoro fatto a casa.»
(lettera a Benedetto Croce, Torino 5 novembre 1910, p. 96)

Tilgher (1911)

«La colpa del ritardo non è mia. Nessuna Biblioteca di Roma possiede la edizione delle opere di Descartes curata da Adam e Tannéry. E su questa edizione io ho lavorato, e su questa debbo continuare a lavorare. L'ho fatta chiedere a prestito dall'Alessandrina, ma finora nulla. Che cosa ci posso fare? Nel frattempo cercherò di scrivere quelle note, per le quali non mi occorre di tutta necessità quell'edizione, ma per le altre?»
(Adriano Tilgher, lettera a Benedetto Croce, [Roma] 24 maggio 1911, p. 140. Tilgher era stato trasferito all'inizio del mese dalla Biblioteca nazionale di Torino alla Biblioteca universitaria Alessandrina di Roma).

«Per la seguente parte delle Meditazioni (Obbiezioni e Risposte), è inutile che mi s'inviino le bozze per ora, essendo nell'assoluta impossibilità di correggerle, per mancanza del testo su cui ho lavorato. Oggi stesso è stato spedito a Parigi l'ordinativo dell'edizione Adam - Tannéry, e non so quando arriverà: quello che ci è voluto per ottenere dal mio direttore questa concessione, lo sanno solo Dio e Cartesio, ch'è presso di lui in cielo. La Bibl. Naz. di Torino mi ha inviato a prestito il Cartesio, ma in linea eccezionale e per pochissimi giorni, ed oggi stesso l'ho rimandato. Quindi vedete in che modo sto conciato. Speriamo che venga subito a Roma l'edizione del Descartes. Fra una ventina di biblioteche che sono in Roma, nessuna possiede l'edizione nazionale di Descartes! Vergogna! Già, ho trovato qui nelle biblioteche una enorme disorganizzazione ed una fenomenale baraonda.»
(Tilgher, lettera a Croce, [Roma] 31 maggio 1911, p. 141-142).

Tobino (1988)

«Ero per la prima volta di guardia al manicomio di Ancona. [...]
Tentai di avviare un discorso. La minestra già scodellata:
«La biblioteca qui... ho saputo... fornitissima, completa» dissi.
Agitò in aria tutte e due le mani, il cucchiaio caduto sulla tovaglia, mi interruppe:
«Fu mio padre, lui, tutto lui, regalò i suoi libri di psichiatria, tantissimi; gliene mandavano da tutto il mondo... Ma io... io... peccato che lei sia arrivato tardi», proseguì.
[...]
Il padre, il celebre Tamberletti, quasi a riconoscenza che il figlio avesse lì, nel manicomio di Ancona, trovato un benedetto rifugio, lasciò in eredità proprio al manicomio di Ancona la sua ricchissima e famosa biblioteca, che durante la sua vita aveva appassionatamente curato, come quella davvero fosse la sua creatura.
Questa biblioteca divenne un vanto per l'ospedale psichiatrico di Ancona e infatti io e Turri, appena arrivati subito cominciammo a frequentarla e scoprimmo quale tesoro era.
Fu lì, per esempio, in quella biblioteca, che una notte trovai il libretto di Cotard, che per la prima volta descriveva quella malattia che poi prese il suo nome.
C'era fortunatamente, ricoverato lì ad Ancona, un caso di Cotard, delirio di negazione e immortalità; proprio un Federale fascista era stato avvinto da questa malattia mentale.
Aiutato dal libretto del Cotard studiai il caso e poi alambiccai un mio perché. Pubblicai il lavoro sulla "Rivista di Freniatria" col titolo: La sindrome di Cotard o l'impossibilità del concetto, lavoro che suscitò buone considerazioni anche in Francia.
Ma oltre alla biblioteca il manicomio di Ancona beneficiava della passata direzione del professor [Gustavo] Modena. [...]
Noi invece si stava sempre tra i matti, si discuteva su questo e quell'altro sintomo, si componevano i ritratti dei malati, insomma si diventava degli uomini completi.
Per di più nulla ci mancava, avevamo un letto, la mensa, chi ci accudiva. E usufruivamo, come ho detto, della biblioteca inesauribile, perfino una notte scoprimmo dietro una riga di vecchi libri dei volumi politici, opere di Labriola, che bevemmo.
Quella del manicomio di Ancona fu una fortunata pausa della nostra vita quasi che qualcuno avesse a noi procurato una distensione per meglio prepararci al prossimo tumulto, per dedicarci alla nostra croce politica.»

(Mario Tobino, Tre amici, p. 44-46, 50-52. Nel romanzo il protagonista, come Tobino, prende servizio all'Ospedale psichiatrico di Ancona il 1° gennaio 1939. Le figure del "professor Tamberletti" e di suo figlio sono ispirate all'illustre psichiatra Augusto Tamburini (1848-1919), la cui biblioteca fu donata all'Ospedale dagli eredi, e al figlio Arrigo, che vi lavorò fino alla morte, nel 1943. Il personaggio di Aldo Turri, invece, è ispirato ad Aldo Cucchi, partigiano e uomo politico, di cui l'autore fu molto amico).