LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

N.B. La casella di ricerca qui sotto opera soltanto sul titolo della testimonianza (di norma, cognome dell'autore e anno).
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Risultati della ricerca

Ungherelli (1979)

«È facile domandare: come potevamo avere questi libri? Questo prezioso materiale era stato il risultato di un lungo lavoro svolto dai compagni del carcere attraverso traffici con qualche guardia politicamente avvicinabile che li aveva portati da fuori o sottratti dal magazzino dove erano stati messi come libri sequestrati; oppure ce li procuravamo attraverso l'acquisto di libri borghesi che avessero in appendice documenti marxisti o libri in lingue straniere, poi tradotti dai compagni più preparati.
Grazie al traffico intelligente e discreto organizzato con l'esterno, anche nel nostro carcere eravamo entrati in possesso di un rilevante numero di libri, che via via aumentavano. Siccome era ormai impossibile nasconderli, sia per il ridotto spazio dei nascondigli che i compagni avevano organizzato in ogni camerone, sia perché si trattava di leggerli e di studiarli con una certa tranquillità, sotto la stessa sorveglianza delle guardie carcerarie, l'unico mezzo era quello di legalizzarli, imprimendo nel loro frontespizio il visto della censura. Le iniziative per riuscire a ciò furono varie. A volte i compagni specializzati in questa attività, con un uovo sodo sbucciato dal guscio e ancora caldo, appoggiando questo sulla timbratura di un libro passato dalla censura da poco tempo, riuscivano ad assorbire il timbro e a riprodurlo pressando l'uovo sul libro entrato in carcere illegalmente. Altre volte c'era qualche compagno che ci riusciva con una cartina per sigarette portata ad un preciso grado di umidità. Quando i libri avevano sul frontespizio quel benedetto timbro che li rendeva legali a tutti gli effetti, li usavamo con più tranquillità.
Questi metodi spesso non erano sufficienti. Perciò il metodo più pratico, almeno nel periodo di cui io fui testimone, si dimostrò quello di rilegare i libri, nel senso cioè di mettere le copertine e le prime pagine dei libri legali su quelli illegali, intercalando anche le pagine che internamente erano timbrate. Così copertine e pagine di libri ammessi servivano per rilegare e mascherare i nostri libri. Ciò che rimaneva del libro permesso veniva distrutto. [...] Quando le guardie carcerarie venivano a fare le perquisizioni, dato che in ogni camerone vi erano centinaia di libri, non si mettevano certo a leggerli tutti, ma controllavano i timbri e li scuotevano per vedere che non ci fosse nascosto nulla; poi se ne andavano senza accorgersi che in quei libri vi era un materiale per noi più che prezioso, perché ci serviva a prepararci con accanimento alle future lotte.»

(Sirio Ungherelli, in: I compagni di Firenze: memorie di lotta antifascista, p. 269-355: 338-339. Dopo la condanna da parte del Tribunale speciale, emessa il 17 novembre 1942, Ungherelli era stato mandato a scontare la pena nel carcere di Castelfranco Emilia, da cui fu liberato il 22 agosto 1943).

Valera (1882)

«L'unico, il solo asilo che mi accogliesse senza reticenze si è chiuso ieri. Santo Iddio! Ma perché non fanno le riparazioni d'estate, quando gli uccelli scorribandano per l'aria in mezzo alla luce d'oro che disperde il sole e la vita è dovunque a sorsate per tutti? Se sapeste o signori impiegati, quanto male fate ai poveri, colle vostre riparazioni fuori di tempo. La Biblioteca per un poveraccio senza casa, è quello che si suol dire un nido, una capanna, un seno caldo. Vi sono distese delle stuoie pulite, è accesa una stufa che manda calore fin che se ne vuole, ci sono dei tavoli, dei calamai, dei lembi di carta, delle penne d'oca e dei libri da saziarsi. Si va là, si passa il tempo leggicchiando o fingendo, e se per caso avete dovuto riandare per forza dolorose storie sotto le stelle, potete adagiare le vostre guancie sulla guancia del libro e dormigliare le ore perdute. La consegna – si intende – è di non russare.
Alle cinque il campanello dà fuori come un pazzo per avvertirci che è l'ora del pranzo. Qualche volta mi prende voglia di strozzare il portiere. Ma lui là, sul margine, rubicondo, tondo, v'incalza: andiamo signori! Venite via coi topi di libreria, coi casellari ambulanti, colle biblioteche portatili, cogli affamati che andranno in cerca di un altro ricovero. Gli ultimi sono anche i primi. Alle nove meno un quarto della mattina, battono coi piedi la generale. Passeggiano impazienti sul pianerottolo o giù in galleria e si dilungano in catene sulle scalinate, come gente sospesa, che non ha tempo da perdere. Strofinano le mani, bubbollano di freddo, si soffiano il naso e si scaldano le mani in saccoccia. Che cosa studiano, cosa vanno a fare in Biblioteca quelle barbe bianche, quei capelli brizzolati, quei vecchioni scarni, dagli occhi orlati come se avessero vegliato l'intera notte sulle dotte carte? A vederli, si direbbe che sono loro che buttano la scintilla pel mondo. Scartabellano volumi sopra volumi, scribacchiano centinaia di pezzettini di carta che numerizzano con lena e portano sotto al panciotto come autografi preziosi. Rovistano, consultano, postillano, fanno le orecchie ai tomi, mandano gli amanuensi fin su negli ultimi angoli a cercare l'edizione tale dell'epoca tale del tale editore! E quel povero martire di cataloghista come lo fanno disperare. Ma che cosa ammassano, cosa cercano quegli affacendati occhialuti, quelle sdruscite carcasse che hanno un piede e mezzo nella fossa? Chi lo sa. Forse sono pazzerelli ai quali i libri non hanno saputo che far rasentare la pazzia. Questa mane davanti all'editto che li bandiva per otto giorni, provarono l'ambascia di chi si sente perduto. Non esser più fra i loro tomi! Mentre per noi senzacasa, c'era addirittura appiccicata la galera. Condannati per otto giorni al passeggio forzato – piova o tempesti, nevichi o geli.»
(Paolo Valera, Alla conquista del pane, p. 28-30)

«Nevica sempre, fa sempre freddo. I miei piedi sono due pezzi di marmo. Non li sento più. Oh domani, domani finalmente mi si riapre il paradiso. Domani la Biblioteca mi saluterà come un vecchio amico, e la stufa ricomincierà il suo lavorio di respirazione. Mi butterà in faccia, di dietro, sul collo, dappertutto le sue buffate ardenti. Che giornata domani. Voglio starci dalle nove alle cinque.»
(ivi, p. 34)

«Nelle settimane pesantemente oziose, come ho detto altrove, io andavo in Biblioteca di Brera [Biblioteca nazionale Braidense] a leggere e a farci su dei pisolucci, i quali pisolucci mi rifacevano dal sonno perduto e dalle cene dimenticate. Ripigliata, dopo tanta assenza, l'abitudine di andarvici tutti i giorni, elessi il mio scranno vicino alla stufa.
Allo stesso tavolo, proprio faccia a faccia, sedeva un giovanotto che aveva la precisione dell'orologio. Entrava coll'ultimo tocco delle dieci e usciva al primo delle due. Si metteva davanti una montagnola di libri in quarto, li sfogliava, noterellava, vi si fermava sopra e si buttava indietro, le mani in tasca, gli occhi al soffitto, di chi rimastica strabiliato qualche sentenza d’autore che ponza. Per l'ora d'andarsene aveva riempito il dorso d'una quarantina di stampiglie, ch'egli trafugava, come me, nel momento in cui il distributore ci portava i libri chiesti. Quali cose scrivesse non saprei dire. So che inchinava il naso come il miope e che colla penna d'oca scriveva minuto e affrettato. Alla mania di farsi credere uno studioso sul serio, aggiungeva un'intolleranza massima. Se un crocchio di studenti bisbigliava o se qualcuno russava, era lui il primo che scuoteva la lingua per chiamare l'attenzione del portiere. Povero Villa! Quando udiva quel sibilo a denti serrati, gli toccava lasciare il tagliacarte, togliere dalla sedia quel suo pancione a mappamondo e andare là, colla sua faccia larga e serena come una pagina manzoniana, a imporre a quelli e a questi il silenzio.
Questo giovine che immagazzinava ingordamente la scienza, io l'avevo riconosciuto fino dal primo giorno. Aveva fatto con me le scuole elementari. Me lo ricordavo pei suoi occhioni bagnati in un languore viziato e pei suoi capelli lunghi e fini come seta. Stefano m'aveva anch'egli riconosciuto? Qualche volta mi codiava coll'occhio, ma erano lampi. Si rituffava subito in quel pozzo di scienza dal quale non usciva che per abbondarci.
Un giorno, non so come, gli cascò dal tavolo un libraccione che mi toccò la punta del piede. Lo raccolsi affettando una certa premura.
– Grazie.
Alle due coi libri sotto al barbazzale, strisciò nel vuoto un mezzo saluto.
Me gli inchinai.
Continuammo non so quanti giorni a salutarci con una simpatia crescente.
– Che libro legge? mi domandò egli prendendosi il volume nelle mani. Silvio Pellico? Ferrovecchio!
Per paura di prendere una cantonata non mi arrischiai a contraddirlo. Ero lì commosso sulla pagina ove è ricordata la gamba seppellita del povero Maroncelli.
– È un libro che fa nausea. La rassegnazione dallo scrittore mi ha indignato.
– E se le dicessi che mi ha rimescolato le viscere?
– Idealismo, mio caro. Siete un ragazzo che dimostrate di avere in cassa del cuore. Ma se volete ascoltare un consiglio, guardatevi dal veleno somministrato nel giulebbe. Se ne provano poscia le amarezze. Nutritevi di scienza e cominciate ad attingere nelle vasche di Büchner e Moleschott.
Ricascai nelle mie Prigioni, ma la mente era distratta. Pensavo a quel fanciullo che mi dava del ragazzo e dei consigli. Quale audacia!
Alle due uscì apparentemente solo, ma ci trovammo entrambi sulle scale.
– Scusate se vi ho detto francamente la mia opinione. Io sono d'avviso che se la gioventù avesse una guida che l’avviasse addirittura sullo stradone che conduce alla grandezza del vero, ci si risparmierebbe l’ingrato lavorìo di recere la scoria che abbiamo inghiottita coma roba buona e nutriente.
– Permettete, ma chi può dire: questa è la verità vera e questa è la verità falsa?
– Un bimbo appena svezzato. Non credete mai che a ciò che potete supporre per via di induzione o a ciò che voi o gli altri hanno potuto constatare. Poichè la verità, sappiatelo, è come l'analisi chimica. È esatta o non è. Si è col vero o contro.
La logica mi sbalordiva ma non mi persuadeva. Stefano mi frugava negli occhi – forse per sapere se sì o no approvavo lo sue parole enfatiche.
– Oh, ma sentite. Avete una strana rassomiglianza... Cavatemi dalla curiosità. Non siete voi certo Giorgio?
– Sì, signor Stefano.
– Volevo ben dir io! Lo sai, sono fisionomista quanto Lawater. Una volta che ho veduto uno non mi scappa più. E nota che ti trovo un po’ magro.
– Di’ pure allampanato.
– Come va, di’ sù. Studî, studî? Ma lascia, caro mio, i romanzi. I romanzi sono nella letteratura quel che la donna è nella vita. Ti adescono, ti distruggono con delle fiammate che muoiono e ti lasciano prostrati e vuoti a macerarti nel rimorso. La patria ha bisogno di torsi di ferro e non di gioventù evirata.»
(ivi, p. 99-102)

Valera (1898)

«Gli inglesi non avranno la vivacità italiana. Ma nessuno, che li abbia studiati, metterà in dubbio che in fatto d’igiene domestica e sociale essi sono quasi al vertice degli ideali cittadini. E noi? Giudicatene dai paralleli che condensiamo in questa dispensa. [...]
Date, o signori consiglieri municipali e signori cronisti, date un’occhiata alle ritirate della Biblioteca Nazionale di Brera – il tempio dell’arte, della letteratura e della scienza visitato dal mondo internazionale e vedrete che a cinque minuti dalla sede civica è impiantata una vera officina di composti che diffondono l’odore assassino di tremila tuorli d’uova in completa putrefazione.
Una volta nell’ambiente, vi pare di essere nella stanza mortuaria di un cimitero nella quale i becchini abbiano dovuto ammonticchiare, nella quindicina di una epidemia spaventevole, duecento cadaveri per mancanza di fosse! Sono le ritirate dei nostri nonni. Ritirate chiuse in un buio pesto, senza sedili, senza sifoni per scaricarle almeno una volta al giorno, con le buche aperte a livello del suolo, con le buche eternamente circondate di gnocchi fecali che sprigionano i gas marciosi del bonzone dei pozzi neri, con le pietre delle buche imbrattate degli spandimenti degli straccioni che cercano un luogo comodo gratis, degli studenti che formicolano nella scuola della pittura, della scultura e della lettura!
Noi non denunciamo nessuno. Ma diciamo che in tempi in cui i delitti antigienici fossero puniti come i bimbicidii, i responsabili di questi ricettacoli di sedimenti contagiosi, sederebbero sul banco delle assisie.
La soluzione? Imitiamo l’Inghilterra che ha scavato il suolo e dato alla popolazione maschia e femmina di tutti i quartieri i water-closets e i pisciatoi moderni. E facciamo che queste istituzioni indispensabili alla vita collettiva non diventino una speculazione che costringa ancora la gente povera a scaricarsi dietro il Duomo, in un vicolo, o in un angiporto, o sotto il portico della Scala o magari sotto l’arcata di un portone della plutocrazia milanese.»

(Paolo Valera, Milano sconosciuta e Milano moderna, p. 132-142)

Valera (1913)

«Il cellulare di Milano, il carcere così detto aristocratico è il più malsano di tutt'Italia e forse d'Europa. Non ha che l'apparenza. [...]
C'è una biblioteca. La più fornita di volumi delle carceri d'Italia. Ma c'è il guaio che è dimezzata. C'è la biblioteca detta del direttore la quale non è che della carcere. Nelle sue mani diventa un privilegio. È lui che concede i libri. Poi c'è quella circolante nelle mani del prete, ammucchiata di libri religiosi. La biblioteca circolante distribuisce libri ogni venerdì. Durante la mia prigionia a Milano ho letto più di quattrocento volumi.»

(Paolo Valera, L'uomo più rosso d'Italia)

Valeri (1970)

«Quel giorno, a Ferrara, mentre andavo come in sogno per una splendida strada fluviale (alto ancora in cielo il lungo pomeriggio estivo), mi trovai d'improvviso faccia a faccia col mio vecchio amico Angelo Monteverdi.
Egli veniva dalla Biblioteca [Ariostea], e io ci andavo. Ci andavo non per altro che per dare un devoto salutino alla grande e affabile ombra dell'Ariosto, che tra quei libri ha stanza, insieme con le povere ossa. (Anche per rivedere, sia pure fugacemente, il manoscritto autografo del Furioso, con le cancellature, le addizioni e le correzioni del poeta.) L'anno? Forse il '61 o il '62.
[...]
La sua gaiezza aveva, quel giorno, anche un motivo occasionale e, per così dire, locale. «Ho ormai la certezza assoluta che la famosissima epigrafe ferrarese del 1135 [...] è un trucco settecentesco, un falso dell'abate Gerolamo Baruffaldi. [...] Pensa che ho ritrovato nei suoi scartafacci alcuni abbozzi dell'iscrizione, assai diversi dalla stesura definitiva, ch'è del 1713. Abbiamo così la prova irrefutabile del falso».»

(Diego Valeri, Una storiella letteraria (maggio 1970), in Giardinetto, p. 59-61: 59-60).

Valgimigli (1934)

«Di librerie, che vendessero anche libri moderni non scolastici, [a Lucca] non ne ricordo. [...]
C'era la bella e comoda e ricca biblioteca governativa, custode di tradizioni di cultura locale nobilissime, come ogni biblioteca di provincia ha da essere. Né vi aveva ancora Gabriele Briganti l'ufficio suo: ufficio e stipendio umili, credo di ordinatore e distributore, qual è anche oggi; che non s'è mai trovato modo di dare a questo valentuomo il riconoscimento di un lavoro di quasi ormai quarant'anni, ed ebbe responsabilità gravi in momenti gravi, e fu sempre àlacre, paziente, intelligente, e sempre al di là di ogni obbligo e limite suo proprio. La dirigeva allora un emiliano cordiale [Eugenio Boselli], tenacissimo di vita e di eloquenza; il quale di provvedere agli studi, di rendersi conto almeno degli studiosi locali non numerosi, di arricchire la biblioteca di opere nuove, non aveva, pare, attitudini speciali. Una volta, a un ragazzo di liceo che domandava in prestito le Lettere virgiliane del Bettinelli, capitato il cavaliere, lo squadrò severo, e gli disse: «A studenti di liceo traduzioni non si dànno». Fa il paio con quell'altro bibliotecario della Spezia che, interpretando il titolo dalla costola del libro, schedò Svetonio così: «Svetonio, la Tranquillide».»

(Manara Valgimigli, Ferruccio Pieri, 1934, in Uomini e scrittori del mio tempo, p. 357-366: 362-363. Il ricordo è relativo agli anni in cui Valgimigli frequentava le scuole secondarie, fino al 1894).

Valgimigli (1935)

«La sera, da una botteguccia davanti alla Biblioteca Universitaria, si aveva per un soldo o due una scodella di castagne secche lessate, e io rammento la gioia, certe nebbie invernali, di quel brodo rosso e dolce e caldo. Dopo, ci si rintanava in Biblioteca. Quell'ora di biblioteca non era piacevole. Già era uno stanzone immondo; i libri era obbligo averli ordinati di giorno perché la sera non si potevano andare a cercare: con grandi panconi vecchi e tarmati, muri vuoti, illuminazione a gas che buttava giallo su tutti e su tutto, aveva aspetto di un luogo di pena, camerata o reclusorio, più che da studio. Non restava che spiare, a rallegrarci, la visita serale di Olindo Guerrini, con quella sua barba a doppia punta, la berretta di traverso, una lanterna, e una grossa bianca pipa tirolese; o tormentare i compagni, che era cosa con qualcuno giustificabile, ingiustificabile con i più e ingiusta, e forse con tutti.»

(Manara Valgimigli, Annibale Beggi, 1935, in Uomini e scrittori del mio tempo, p. 351-355: 352-353. Valgimigli frequentò l'Università a Bologna dal novembre 1894 al novembre 1898. Un altro riferimento a «quel nudo e lungo e scuro stanzone della biblioteca universitaria dove la sera andavamo più che a studiare a scaldarci» compare nello stesso volume, a p. 325).

Valgimigli (1946)

«Egli [Gabriele Briganti] era uno di quegli uomini curiosi e rari che portano in sé, chi sa come presa e di dove venuta, [...] una grande passione per le lettere e per la poesia [...]. Poi una signora inglese, di cui il padre di Gabriele governava e amministrava le terre sopra Ripafratta, volle istruirlo nell'inglese: e questa fu la sua seconda passione, e Shelley il suo poeta.
L'una e l'altra lo portarono, appena ventenne, in biblioteca. Domandò solo di restare lì, tra i libri. Prima fece il distributore, serio serio, in quel suo banco in fondo alla sala di lettura; poi cominciò a schedare – e credo che oggi le schede della biblioteca governativa di Lucca siano tutte sue; – e poi, fuorché i conti e l'amministrazione, fece o gli fecero fare di tutto, e per tutti il bibliotecario era lui. Chiunque, o di Lucca o di fuori, veniva per qualche studio o ricerca in biblioteca, si rivolgeva al signor professore Briganti. [...]
Io ero scolaro a Bologna, ma le lunghe vacanze estive, di Natale e di Pasqua, le passavo a Lucca, in biblioteca. Ogni pomeriggio, chiusa la biblioteca, io
e Gabriele si usciva insieme; lui andava a casa sua, a Ripafratta, io lo accompagnavo fin quasi a mezza strada, a Cerasomma. E per la strada, tutti due a piedi, lui con la bicicletta a mano, gran dispute e grandi declamazioni di poesia. [...] Gabriele era un pascoliano furioso. Ad accrescergli questo furore, era venuto un giorno in biblioteca, e ci ritornò altre volte, il Pascoli stesso in cerca di libri per quella sua antologia Sul limitare che stava preparando e uscì difatti nel 1900. Di solito il Pascoli ci scriveva, Gabriele trovava i libri e io glieli portavo su a Castelvecchio («Ma portami anche un chilo di parmigiano, e Mariù ti farà le tagliatelle»).»

(Manara Valgimigli, Un amico lucchese (Gabriele Briganti), 1946, in Uomini e scrittori del mio tempo, p. 367-371: 368-369. Già pubblicato nel suo Il mantello di Cebète, Padova, Le tre Venezie, 1947, p. 143-154).

Valgimigli (1948)

«Si direbbe che anche la sala della Malatestiana, che quel fanese Matteo Nuti costruì tra il 1447 e il 1452, fosse stata costruita proprio per lui [Renato Serra]. Chi si affaccia al portale e si immerge in quella penombra verde, tra la doppia fila delle colonnette snelle e delle finestrette sormontate e adombrate dagli archi acuti, è preso da un brivido come se d'un tratto si sentisse dentro a qualche cosa di sacro: grazia e gentilezza della poesia d'Italia, storia d'Italia, affetti e religione dei padri. Parlare a voce alta non si può: tremano il cuore e le labbra.»
(Manara Valgimigli, Gentilezza di Renato Serra, in: Scritti in onore di Renato Serra, p. 263-267: 265).

«Si direbbe che anche la sala della Malatestiana, che il fanese Matteo Nuti costruì tra il 1447 e il 1452, fosse stata costruita proprio per lui: tanto egli era con quella, e subito appariva, nella bella persona e nei modi e nell'ordine e nell'armonia e nella decenza dello scrivere del leggere del delicato parlare, come insieme nato e connaturato. Chi si affaccia al portale e si immerge in quella penombra verde, tra la doppia fila delle colonnette snelle e delle finestrette sormontate e adombrate dagli archi acuti, è preso da un brivido come se d'un tratto si sentisse dentro a qualche cosa di sacro: grazia e gentilezza della poesia d'Italia, della storia d'Italia, affetti e religione dei padri. Parlare a voce alta non si può: tremano il cuore e le labbra.»
(Manara Valgimigli, Gentilezza di Renato Serra, in Uomini e scrittori del mio tempo, Firenze, Sansoni, 1965, p. 301-304: 302-303, con la data del 1946).

Valgimigli (1956)

«Corridoi e chiostri all'interno, e fuori, a ponente, quell'alta liscia muraglia a mattoni scolorati dal tempo che sovrasta sul prato di Classe. Quella è, a Ravenna, la Biblioteca Classense. Io vi andai anche attratto, nei miei amori di filologo classico, dal celeberrimo codice, detto appunto il Ravennate, della fine del secolo decimo, che il cremonese abate Pietro Canneti, dei frati camaldolesi, comperò a Pisa nel 1712 e che contiene, con scolii marginali e interlineari, tutte le undici commedie di Aristofane che ci rimangono. «Fammi vedere il Ravennate», dissi a Santino Muratori la prima volta che andai a Ravenna; e chi sa dove credevo lo tenesse custodito e nascosto. E andò a una comune scansia e ne trasse il libro coperto da una rilegatura comune. «Perché solo così», mi disse Santino rispondendo al mio stupore, «nessuno sa né immagina dov'è».
Corridoi che tagliano la biblioteca al primo piano e al secondo, e separano sale e allineano scansie e chiostri. Chi scende la scala maggiore si vede davanti il chiostro maggiore; e nel mezzo del chiostro il bianco pozzo, con anche di pietra bianca l'arcata che regge ancora la carrucola, la doppia catena, i due secchi [...].
Il corridoio centrale, al primo piano, di passaggio obbligatorio per andare alla sala di lettura e agli uffici, ha più degli altri solennità e austerità claustrale. Qui domina San Romualdo. Niente libri, pareti lunghe alte nude [...]. Metteva in questo corridoio anche la mia stanza da studio dove io passavo abitualmente fino a ora tarda le mie giornate. Sulla sera, alle sei, uscito l'ultimo lettore e l'ultimo impiegato, udivo il passo del custode e il rumore delle chiavi. Incominciava dal basso, prima il cancello di strada, poi il portone del primo corridoio a terreno, poi il cancello della scala, e poi, su, la sala di lettura e gli uffici. Sentivo lo scatto che via via spengeva le lampade. Dopo, entrava da me. Caro e amato Guglielmo. Soli noi due per tante ore e giorni nella Classense. Metteva dentro il capo, diceva: «Ha bisogno di niente, signor professore?». «Niente, caro Guglielmo, vai e buona notte».
[...]
Venivano da me in Classense bravi giovani studiosi a chiedere aiuti e consigli, e io ero molto lieto di ritrovare qualche volta anche qui, e d'accordo col nuovo, il mio vecchio mestiere di maestro di scuola. Anche venivano dotti ed eruditi di fuori, da città universitarie di Europa e di America, per loro indagini e ricerche varie; e io ero ambizioso e glorioso che in questa città di provincia coloro trovassero quel che cercavano e talora anche più di quel che cercavano scoprissero, echi e memorie della nostra civiltà secolare; e mi commuoveva l'ammirazione devota del luogo, delle belle sale, dell'ordine, e la gratitudine sorridente e quasi affettuosa che non raramente affiorava dal loro italiano impacciato. [...]
E mi domando con trepidazione: [...] come provvederanno e aiuteranno biblioteche sul tipo di quelle che ci descrisse tempo fa, in una lettera dall'America, Giuseppe Prezzolini? Quivi i libri, egli scrisse, non saranno più libri ma rotoli di celluloide, i cataloghi non saranno più schede ma bottoni elettrici, i bibliotecari non più umanisti, ma uomini tecnici e meccanici.
E tutto questo avverrà, la previsione si avvererà, già si sta per tanti segni avverando. Sarà bene, sarà male, non domando né distinguo. Ma i templi della antica religio, i sacri tèmena che ancora sopravvivono come la mia Classense a Ravenna, la Malatestiana di Serra a Cesena e anche in angoli claustrali di grandi città come la Laurenziana a Firenze e a Roma la Casanatense, cadranno finalmente in rovina e scompariranno [...]. E nostalgia e malinconia cadranno anche queste per sempre, muse e ninfe gentili ma inutili.»

(Manara ValgimigliSaluto alla Classense. L'articolo venne pubblicato lo stesso giorno anche su «Il messaggero» e poi raccolto in Manara Valgimigli, Del tradurre e altri scritti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1957, p. 171-176).

Valiani (1995a)

«A Parigi, nei tempi belli del Fronte Popolare e negli anni brutti della «Cagoule», di Monaco, della reazione, Franco [Venturi] era, con Aldo Garosci e con me, il terzo del trio, ma il primo per il fascino personale, per l'irresistibile simpatia umana che suscitava. Lavoravamo in redazioni diverse, ci trovavamo la sera tardi nei caffè vicini alla Senna e stavamo insieme fino a che il padrone non ci metteva fuori, perché voleva chiudere. Quando le cose andavano bene, prendevamo in giro gli esitanti e falsi giacobini, capi del Fronte Popolare, quando andavano male, discutevamo dei manoscritti e delle collezioni di vecchi giornali che si trovano in questa o quella Biblioteca. Franco studiava il Settecento, Aldo ed io l'Ottocento e scrivevamo opere per allora inedite sulla genesi della democrazia moderna e del socialismo.»

(Leo Valiani, Tutte le strade conducono a Roma, Nuova ed., Bologna, Il Mulino, 1995, p. 77-78. Il ricordo si riferisce al periodo in cui i tre amici erano espatriati a Parigi, negli anni Trenta. I ricordi di Valiani furono pubblicati per la prima volta a Firenze, da La nuova Italia, nel 1947).

Valiani (1995b)

«Avevamo come consulenti «scientifici», tre professori d'Università, Domenico Boffito, professore d'economia. Federico Chabod, professore di storia, Antonio Banfi, professore di filosofia. I primi due rappresentavano l'ideologia liberale più moderna, il terzo quella marxista, riveduta anch'essa alla luce dell'esperienza più recente. Mi misi a frequentare la biblioteca della «Bocconi» per fare una cernita di opere straniere di scienze economiche da tradurre. Una sera non mi accorsi ch'era venuta l'ora della chiusura, il guardiano si scordò della mia presenza e mi chiuse a chiave nella sala di lettura. Dovetti saltare dalla finestra, come un ladro, col rischio di venire acciuffato per una faccenda che non riguardava la lotta.»

(Leo Valiani, Tutte le strade conducono a Roma, Nuova ed., Bologna, Il Mulino, 1995, p. 200. L'episodio è relativo al 1944, quando l'autore operava clandestinamente a Milano nell'organizzazione della Resistenza. I ricordi di Valiani furono pubblicati per la prima volta a Firenze, da La nuova Italia, nel 1947).

Venturi, Adolfo (1927a)

«Tornato a Modena, mi buttai a capofitto sui libri; ma da noi la critica artistica, ridotta a far cavatine dal soggetto delle opere d’arte, era ben povera. Non guardavano ad esse, ma solo all’intorno, Rovani, Berchet, Panzacchi, De Zerbi; e conveniva rifugiarsi nella critica letteraria per respirar meglio.
Intanto permetti che ti presenti la condizione della repubblica letteraria modenese in quei giorni beati della mia giovinezza. Il luminare dell’archeologia, Don Celestino Cavedoni, si era spento. Ricordo ancora quel prete, alquanto sudicio, con una gran zazzera. Sembrava uno spauracchio, ma nonostante la bruttezza e l’incuria selvatica della persona, tutti s’inchinavano all’uomo venerando quando passava a passi uguali, lenti, cadenzati, per la Biblioteca palatina, e, più di tutti, s’inchinava profondamente un vecchio satiro, certo conte Mario [ma Luigi Francesco] Valdrighi, autore di una Musurgiana e di altri studi su oggetti musicali. Il conte bibliotecario, tipo di moschettiere, raccontava aneddoti senza fine, di solito scollacciati, e chiudeva il racconto con grasse risate, alle quali faceva eco un distributore di libri, certo [Isnardo] Astolfi, Sancio Pansa del donchisciottesco conte, e proprietario di un gran naso, che il Conte aveva definito estense, ben degno invero di Rinaldo d’Este o di altri principi della serenissima casa. Chiusa la biblioteca nel pomeriggio, l’illustrissimo Conte passava al gran caffè, che stava lungo la via Emilia, e dove convenivano professori di Università, un impiegato della Banca d’Italia, certo Evaristo Evangelisti, e i suoi amici del giornale modenese, Il Panaro
(Adolfo Venturi, Memorie autobiografiche, p. 12-13)

«Divoravo gli scritti del [Giuseppe] Campori, guardavo uno ad uno tutti i manoscritti della R. Biblioteca Estense, m’impadronivo dei materiali storico-artistici portati a Modena con la biblioteca Poletti, ove vivevo intere giornate.»
(ivi, p. 17)

«Per lo studio della miniatura fui molte volte a Bologna, a confrontar i corali del Museo Civico bolognese con quelli della Biblioteca Estense, nati insieme nella felsinea città. Mi proponevo di definire, nella miniatura del Dugento a Bologna, i due periodi di Oderisio da Gubbio e di Franco Bolognese; raccoglievo elementi per una possibile distinzione, e seguivo anche il prolifico miniatore Niccolò da Bologna, che ha illuminato codici trecenteschi sparsi per ogni dove. Mentre li studiavo, avvenne lo scandalo di certo frate, che ricambiava favori donneschi con dono di miniature di Niccolò, tagliuzzate da corali e antifonari. Il processo per un pezzo rallegrò i Bolognesi, pronti alle grasse risate e alle grassocce novelle; furono recuperate alcune miniature, altre andaron disperse, e si videro frammentarie nelle aste pubbliche, come si vedono a Torino nel Museo Civico e nelle altre collezioni pubbliche e private.
Raccolsi tutta la mia attenzione sui miniatori ferraresi; a Ferrara, nel Duomo, rividi tutti i corali illustrati dal dotto canonico Antonelli, ammirando in ispecie quelli eseguiti al tempo del vescovo Roverella, e determinando la personalità di Guglielmo Giraldi detto il Magro, nelle miniature ispirate all’arte rude e forte di Cosmè Tura, quali si veggono nella Biblioteca Estense a Modena, nella Vaticana di Roma, nella Nazionale di Madrid
(ivi, p. 60-61)

Venturi, Adolfo (1927b)

«E nella Biblioteca nazionale di Madrid, riveduti gli scolari spagnuoli dell’Attavante già incontrati a Lisbona, notammo, in un codice assegnato ad escuela española, i Trionfi del Petrarca miniati per Federico duca d’Urbino da Francesco Antonio del Chierico, il miniatore della celebre Bibbia urbinate nella Biblioteca Vaticana. Ornano le cornici delle pagine tutte le imprese del Duca, orgoglioso del superbo codice, che Eleonora, moglie di Guidobaldo, in una postilla al vecchio inventario della biblioteca di Federico da Montefeltro, dice esser divenuto preda di Cesare Borgia conquistatore d’Urbino. Abbiamo, dunque, ritrovato il codice che stette nel sacco del predone duca Valentino.»

(Adolfo Venturi, Memorie autobiografiche, p. 213)

Venturi, Franco (1969)

«Gli ostacoli che si frappongono alla ricerca non sono soltanto teorici ma pratici. Quelli che trova di fronte chi studia, ad esempio, il Settecento sono di natura ben concreta: le nostre biblioteche, i nostri archivi, i nostri centri e strumenti di lavoro. [...] Siamo l'unico paese civile a non possedere una biblioteca nazionale, una biblioteca, intendo, in cui ci si possa ragionevolmente attendere di trovare qualsiasi libro e foglio apparso in ogni angolo del proprio paese, dall'invenzione della stampa ad oggi. Le nostre biblioteche, anche quando si chiamano nazionali, riflettono tuttora la secolare suddivisione degli stati e staterelli italiani, ai quali si è sovrapposta una stratificazione unitaria, che ha cento anni soltanto e che non ha modificato nel fondo le ripartizioni regionali anteriori. Difficile trovare una gazzetta palermitana settecentesca a Firenze (del resto, in certi casi, non la troveremo neanche a Palermo), o un foglio di Pesaro a Torino, o un pamphlet napoletano a Milano e cosí seguitando. E pensare che con i mezzi posti a disposizione dalla tecnica moderna e con un po' di buona volontà da parte delle biblioteche degli antichi stati italiani non sarebbe poi troppo difficile costituire, poniamo a Roma, una biblioteca in cui si trovino tutti gli stampati italiani, in originale o in riproduzione. Ma anche se la ricerca è locale [...], anche se si cercano a Milano cose milanesi e a Napoli cose napoletane, gli ostacoli, le difficoltà, le impossibilità sono innumeri, e sormontabili soltanto con un dispendio grande di energia e di pazienza. Inutile specificare: tutti conosciamo gli orari, i cataloghi delle nostre biblioteche. Quanto ai nostri archivi essi sono, salvo eccezioni, tra i meno inventariati d'Europa. [...] Ogni volta, in conclusione, che si esce da una nostra biblioteca o da un nostro archivio nasce spontanea la considerazione che l'Italia è un paese cosí ricco di documenti storici da non aver neppur bisogno di misurare, ordinare, catalogare tanta dovizia. Evidentemente tra noi le terre di Clio rendono benissimo anche a cultura estensiva e non val la pena di irrigarle e di riorganizzarle. [...] Fuor di metafora, biblioteche ed archivi come ne esistono da noi, sono talvolta di altrettanto difficile accesso quanto la biblioteca di Babilonia [sic] di Borges e sono insieme depositi nei quali le tracce del passato possono piú facilmente obliterarsi, rovinarsi e scomparire.
Non ignoro, naturalmente, che queste nostre biblioteche e questi nostri archivi sono, generalmente, degli strumenti inadeguati, ma affidati alle mani di persone di gran buona volontà, le quali sanno, quasi sempre, spingere la cortesia e la competenza loro fino al punto di creare attorno agli studiosi un'atmosfera di eccezione, che permette di superare gli ostacoli e di lavorare fruttuosamente. Come la monarchia merovingia era un despotismo corretto dal regicidio, cosí i nostri strumenti di lavoro costituiscono troppo spesso degli ostacoli corretti dal privilegio. Il rituale e piú che dovuto ringraziamento che desidero qui rivolgere, in tutta sincerità, a coloro che mi hanno aiutato nelle mie ricerche è accompagnato cosí dall'augurio che nelle mani dei bibliotecari e degli archivisti nostri vengano finalmente posti mezzi e strumenti che permettan di rendere accessibili a tutti, con ben diversi orari e con strutture organizzative completamente trasformate, i luoghi dove si conservano le testimonianze delle idee, delle lotte e delle speranze delle generazioni passate.»

(Franco VenturiPrefazione, Torino novembre 1968, in Settecento riformatore. I: Da Muratori a Beccaria, 1730-1764, p. XVI-XVIII).