LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

N.B. La casella di ricerca qui sotto opera soltanto sul titolo della testimonianza (di norma, cognome dell'autore e anno).
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Risultati della ricerca

Petrucci (2002)

«Proviamo a percorrere idealmente un “itinerario di scrittura” in una città storica contemporanea: Roma, ad esempio, scendendo dal treno alla Stazione Termini per recarci a piedi sino a piazza San Pietro. Già all’interno della stazione ci troviamo circondati da scritte esposte, da orari, da avvisi, da cartelli, ma anche da giornali, da riviste, da libri offerti all’acquisto. Fuori ci si parano dinanzi i due imponenti complessi del Museo Nazionale Romano; sulla destra, in piazza Indipendenza, la direzione e redazione de «la Repubblica», il secondo quotidiano nazionale; in fondo può scorgersi la mole della Biblioteca Nazionale Centrale, secondo grande deposito librario italiano; più avanti la basilica di Santa Maria degli Angeli offre un vero e proprio panorama di iscrizioni esposte all’esterno e soprattutto all’interno, in una vertiginosa stratificazione cronologica, consueta in una “città scritta” come quella che stiamo percorrendo. Si scende per via Nazionale, la via “moderna” e commerciale, che espone ad ogni passo richiami pubblicitari, fino alla chiesa di San Vitale, sprofondata sulla destra della strada – e a Roma ogni chiesa è un deposito di scritture monumentali –; poco più avanti il Palazzo delle Esposizioni offre alla vista, all’esterno e all’interno, scritte esposte dei generi più vari. Prima di giungere a piazza Venezia, che si intravede sullo sfondo, uno sguardo a sinistra ci permette di scorgere, sul finire di via Milano, l’accesso all’Istituto centrale per la patologia del libro, con annesse raccolte museali ed una propria biblioteca specializzata. Ma l’intera strada, dall’inizio alla fine, negli imponenti palazzi umbertini che la delimitano sui due lati, è piena di istituzioni pubbliche e private, di studi professionali, di uffici, ognuno dei quali è stipato di archivi e produce quotidianamente scrittura, sia su supporto cartaceo che informatico. A piazza Venezia svetta sulla sinistra la colonna Traiana eretta nel 113 d.C. e divenuta, dal Rinascimento in poi, modello grafico di ogni rinascita classicistica; di fronte il museo di Palazzo Venezia e la Biblioteca dell’Istituto nazionale di archeologia e di storia dell’arte con imponenti raccolte librarie; sotto il Vittoriano l’antichissima iscrizione dell’edile Caio Poplicio Bibulo (I sec. d.C.). All’inizio dell’adiacente via delle Botteghe Oscure si trova la storica libreria Rinascita; in fondo, sulla sinistra, la sede dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, con propria biblioteca e fervida attività editoriale; a un passo il Foro Argentina, con monumenti e iscrizioni di età classica; lì accanto il museo e la biblioteca di storia teatrale del Burcardo; ancora libri anche in piazza Argentina, nella quieta e ricca Biblioteca Besso. Più avanti il corso Vittorio Emanuele, seconda arteria stradale “moderna” della città, ci conduce ad altri straordinari depositi di memorie scritte: sulla destra, in corso Rinascimento, l’Archivio di Stato, uno dei maggiori d’Italia, e, poco oltre, la bellissima e ricca Biblioteca Angelica. Ancora più avanti, accanto alla Chiesa Nuova, nel palazzo dei Filippini, la Biblioteca Vallicelliana, l’Archivio Capitolino del Comune di Roma e l’Istituto storico italiano per il medioevo, con propria, specialistica biblioteca e lì accanto la biblioteca meridionalistica “Giustino Fortunato”; e finalmente, passato il Tevere, dopo aver percorso via della Conciliazione fra una serie di ricche librerie, la Città del Vaticano, con il suo incomparabile tesoro di memoria scritta: la Biblioteca Apostolica Vaticana, l’Archivio Segreto Vaticano, gli uffici stessi della Chiesa Cattolica e la Tipografia Vaticana.
Roma è una città plurimillenaria che, nelle diverse epoche della sua ininterrotta vita urbana, ha prodotto e conservato immense quantità di testimonianze scritte.»

(Armando Petrucci, Prima lezione di paleografia, p. 3-5).

Pintor (1910)

«Carissimo Gentile,
Mi viene richiesta dalla Casanatense la restituzione di Muellner, Briefe u. Rede[n] ital. Umanisten. Io purtroppo in fatto di libri a prestito ho sempre una gran confusione in testa: un po' per colpa mia, un po' perché quel servizio diventa sempre più esteso, qui in Biblioteca [del Senato]. Mi pare di ricordare d'avere preso per te, quel libro, nel novembre scorso. Ma qui non ne trovo traccia. Se lo avessi tu, mi faresti gran piacere mandandomelo per "espresso". E mi toglieresti da un pensiero.»

(Fortunato Pintor, cartolina a Giovanni Gentile, Roma 5 giugno 1910, p. 242)

Pintor (1937-1940)

«Carissimi,
ho ripreso stamani le mie gite alla biblioteca universitaria [Alessandrina] ma ho lasciato per oggi S. Tommaso e ho preso le due prime annate della «Voce». Lo zio [Fortunato Pintor] dice che continuando cosí farò un bellissimo confronto tra S. Tommaso e Papini e mi esorta a darmi a studi piú propriamente giuridici. Io naturalmente lo lascio cantare. Appena finito il lavoro di filosofia del diritto comincerò un corso regolare di letteratura francese.»
(Giaime Pintor, lettera alla famiglia, Roma 7 gennaio 1937, in Doppio diario, p. 20).

«Con tutto questo, i libri di storia di Volpe e quelli di filosofia di Croce, sono ben lontano dall'essere un martire del lavoro.
Sono anzi il vero e ortodosso edonista il quale, come insegnava il famoso Cireneo, non prende i suoi beni alla giornata ma affronta dei sacrifici per ottenere un bene maggiore. Cosí quelli che ora si divertono nei cortili dell'università mentre io sto in biblioteca avranno poi da servire a una vita faticosa di cui io sarò invece il padrone.»
(Giaime Pintor, lettera alla famiglia, Roma 30 gennaio 1937, in Doppio diario, p. 23).

«Ho ripreso il solito sistema di vita di cui è simbolo la biblioteca universitaria. Devo avere un aspetto molto triste quando leggo Corneille, in pesanti volumi del secolo scorso, «arricchiti» del modernissimo commento di Voltaire. Mi consolo ogni tanto con qualche lettura piú amena. Ho cominciato La famiglia dispersa; mi pare un notevole romanzo e, anche se non avesse dei grandi pregi artistici, sarebbe interessante la rappresentazione di un mondo cosí lontano e per il quale ho molta simpatia. Tutte quelle «onorevoli» persone sono figure simpaticissime. È indubbia del resto la superiore civiltà di un popolo che chiama onorevole anche il brigante di strada e la donna pubblica in confronto agli occidentali che riservano quell'appellativo ai soli deputati. (Va bene che i deputati sono per definizione uomini pubblici e comprendono non pochi briganti).»
(Giaime Pintor, lettera alla famiglia, Roma 9 aprile 1937, in Doppio diario, p. 26-27).

«Quell'inverno di lavori accaniti e di [    ] scoperte non conobbi ragazze. La mattina mi chiudevo nella biblioteca dell'università e guardavo attraverso le grandi vetrate le ragazze che passeggiavano in giardino e quella folla di giovani per cui provavo un senso di vaga inimicizia. Mi tenevo separato e [    ] abbandonandomi al piacere dei progetti ambiziosi».
(Giaime Pintor, diario, in Doppio diario, p. 27-28. Gli spazi in bianco sono lasciati dall'autore).

«Carissimi,
ho finito sabato, ingloriosamente, il mio primo anno di giurista. [...] Fiacchi battimani nelle aule ormai troppo calde e retoriche frasi di quelli che si dicono maestri di scienza. Impiegati anche piú sonnolenti in biblioteca, studentesse bruttissime vestite con abiti civettuoli, circolari sempre più cariche di gente oltraggiosa e sudata.
Lunedí comincieranno gli esami. Siamo ottocento, purtroppo, e gli esaminatori sono pochi, deboli e vecchi; resisteranno alla marea?»
(Giaime Pintor, lettera alla famiglia, Roma 31 maggio 1937, in Doppio diario, p. 30).

«Carissimi,
le mie giornate hanno improvvisamente cambiato aspetto: risuonano ora di armi e di appelli militari [...].
Ho accettato volentieri questa fatica che mi sottrae per dieci giorni al grigio orario di biblioteca e che serve da preludio alla vera vita militare.»
(Giaime Pintor, lettera alla famiglia, Roma 24 gennaio 1938, in Doppio diario, p. 35-36).

«Ai primi di dicembre [1939] tornai a Roma per riprendere la mia vita universitaria nella sua forma piú piena. La chiamo universitaria per una coincidenza di tempi, non perché la scuola avesse una parte importante nell'ordine dei miei impegni. L'università era semmai il luogo di convegno per alcune ore del giorno; fra la biblioteca e i giardini si trovavano tutte le persone che desideravo vedere e senza ascoltare mai una lezione, passai intere mattinate a discorrere e a studiare in quelle aule.»
(Giaime Pintor, diario, in Doppio diario, p. 67).

«Carissimi,
è inutile che vi racconti che i tedeschi sono a Sedan e che Churchill designerà domani i nuovi ministri. [...] C'è perfino il senato in seduta e le ultime velleità di studio si rompono contro questo ostacolo della biblioteca chiusa; passo quasi tutta la mattina all'università a conferire con amici e a combattere con gli ultimi fastidi scolastici (tasse, firme).»
(Giaime Pintor, lettera alla famiglia, Roma 14-15 maggio 1940, in Doppio diario, p. 71).

Pintor (1939-1941)

«Bene i lavori miei. Ora andrò abbastanza spesso all'Istituto di Studi Germanici e forse farò qualcosa per la loro rivista. Si trovano libri, giornali e uomini egualmente utili.»
(Giaime Pintor, lettera alla famiglia, Roma 28 aprile 1939, in Doppio diario, p. 60).

«15 ottobre [1941], Roma
Pioggia torrenziale tutto il giorno. Ho accompagnato mia madre per certi affari, poi all'istituto [di studi germanici] di Villa Sciarra. C'erano tutti i germanisti di Roma. Parlato soprattutto con [?] e con Cantimori
(Giaime Pintor, diario, in Doppio diario, p. 153).

«20 ottobre Roma [1941]
Al centro di Studi Americ. dove è bibliotecaria Giuliana Spaini sempre molto bella e cordiale. Poi a Villa Sciarra; non ho trovato Gabetti
(Giaime Pintor, diario, in Doppio diario, p. 155).

Pintor (1941)

«23 settembre, Torino [1941]
Stamani sono stato in biblioteca e ho fatto qualche commissione.»
(Giaime Pintor, diario, in Doppio diario, p. 147).

«6 ottobre. Torino [1941]
La mattina in ufficio. Scritto lettere e un articolo su Tecchi. Dopo pranzo sono andato a leggere Grillparzer in biblioteca e poi in albergo.»
(Giaime Pintor, diario, in Doppio diario, p. 151. Quest'annotazione e la precedente si riferiscono probabilmente alla Biblioteca nazionale).

«17 novembre [1941], Torino
[...]
Nelle prime ore del pomeriggio lavorato all'istituto giuridico, poi visto [Aldo] Bertini che è tornato da Modena.
Chiuso il pomeriggio da Einaudi sfogliando riviste e chiaccherando piacevolmente.»
(Giaime Pintor, diario, in Doppio diario, p. 159).

«19 novembre, Torino [1941]
[...]
Stamani sono tornato per poco tempo all'istituto giuridico. Tutto il pomeriggio in ufficio dove ho scritto molte lettere e ho visto i soliti amici.»
(Giaime Pintor, diario, in Doppio diario, p. 160).

«22 novembre, Torino [1941]
All'istituto lavorato parecchio su Kelsen. Dopo pranzo sono andato a Venaria a trovare Gabriele Baldini, sergente.»
(Giaime Pintor, diario, in Doppio diario, p. 160).

«Del resto io dedico molto tempo alla mia attività di studio. Ho ripreso il lavoro giuridico e contro ogni vostra previsione, mi occupo in questo momento del problema della sovranità.»
(Giaime Pintor, lettera alla famiglia, Torino 22 novembre 1941, in Doppio diario, p. 161).

«I dicembre, Torino [1941]
La mattina lavorato all'Istituto, poi visto [Leone] Ginzburg che mi vuole convincere a non pubblicare Rilke.»
(Giaime Pintor, diario, in Doppio diario, p. 164).

Pintor-Gentile (1904)

«Mio carissimo Gentile,
Altri capitoli delle Confessioni, col titolo di Confessioni, non ci sono, nelle annate 1858-1859, e neppure in quelle 1860-1861 della Rivista contemporanea. Ma c’è qualche altra cosa che ti può interessare. Nel fasc. sett. 1858 (vol. 111 dell’annata), a pp. 337-354 è uno scritto di L. Ferri, Intorno alla filosofia esposta nelle Confessioni del Mamiani e alle dottrine platoniche. [...]
Domani mi spingerò più avanti: ma se non ti riscrivo vorrà dire che il risultato è stato negativo.»
(Fortunato Pintor, lettera a Giovanni Gentile, [Roma] 4 luglio [1904], p. 160-161)

«Mio carissimo Pintor,
Hai cercato anche troppo; basta, basta; e manda alla malora questo gran seccatore del Mamiani, che non merita davvero tante fatiche, quante ne hai durate tu per amor mio. Luigi Ferrari m’aveva fatto nascere il sospetto, perché afferma che la 1a ed. delle Confessioni uscì nella R. Cont. [Rivista contemporanea] dal 1856 al 1859; e voleva accennare forse al séguito polemico che ebbero i primi capitoli. Scusami, o pigliatela, se credi col Ferri. Io non ti posso ringraziare per ora, perché non ho finito.
Potresti tu riscontrarmi il cod. vaticano 3359 contenente l’autografo del De ignorantia del Petrarca? Io non sono stato mai alla bibl. Vaticana e non so se ci siano difficoltà da superare per vedere i codici. Se non ce ne fossero, tu mi dovresti ricopiare dal f. 28 il passo che comincia “Platonem prorsum illis et incognitum...” e finisce dopo poche righe: “...honestisque principiis obstitisset, ut solita est” – badando bene se non ci sia nulla nell’ultimo periodo di questo brano tra precipue e Barlaam. M’interesserebbe avere questa comunicazione, possibilmente, fra una settimana. Ma puoi tu farmi questo favore? Il passo è riferito appunto secondo l’autografo dal De Nolhac (Pétrarque et l’humanisme, 1892, p. 324); ma devo essere proprio sicuro che il De Nolhac, che tenne innanzi l’ediz. scorrettissima di Basilea 1581 non abbia tolto tra il precipue e Barlaam p.e. un apud (che a me importerebbe molto) e che trovo nella 1a ediz. del De ignorantia di Venezia 1501.
È annunziata d’imminente pubblicazione un’ediz. di questo autografo a cura di L.M. [Luigi Mario] Capelli; ma questo non credo che possa farti incontrare difficoltà nella Vaticana.
Non ti meravigliare di queste mie ricerche. Sai che scrivo la storia della filos. ital. pel Vallardi, e qui mi occupo anche del Petrarca. E il passo che ti chiedo del De ignor. è importantissimo per determinare la conoscenza che il P. [Petrarca] ebbe di Platone»
(Giovanni Gentile, lettera a Fortunato Pintor, Napoli 6 luglio 1904, p. 163-164)

«Mio Caro Gentile, La Vaticana è chiusa, come ogni anno, dal giugno all’ottobre: ed è clausura pretesca: di difficile violazione, quindi, per chi... non sia prete! [...] Ieri ho mandato in Vatic. un messo – l’amico [Ferdinando] Neri – che è amico del [Marco] Vattasso – uno degli scrittori della Biblioteca: ma disgraziatamente il Vattasso è in licenza. Ora ho scritto al [Giovanni] Mercati, che conobbi una volta per mezzo del p. [Giuseppe] Boffito, ed aspetto la tua risposta. Perché è un altro mondo, quello di là dal Tevere; e non basta, per arrivarci, prendere il tram di S. Pietro! Più diritta è la via di Propaganda Fide, e più diritta ancora quella di Padre Martin e dei gesuiti... Ma sono, codeste, le vie degli eletti!
Concedimi dunque una proroga, che speriamo rechi frutto.»
(Fortunato Pintor, cartolina a Giovanni Gentile, [Roma, 18 luglio 1904], p. 166-167)

«Mio impareggiabile Pintor, – Siccome del mio articolo terrò presso di me le bozze fin verso il 10 agosto, se a te o ad uno degli amici tuoi riuscisse di dare una capatina nella Vaticana, fino a quel giorno sarei in tempo per poter aggiungere allo scritto la nota occorrente nel caso che la collazione mi dimostrasse inesatto il testo di De Nolach [sic]. Dunque, voglio sperare che pel mezzo del Mercati ti riesca di vedere quel ms.»
(Giovanni Gentile, cartolina a Fortunato Pintor, [Napoli 20 luglio 1904], p. 168)

«Mio carissimo Gentile,
T’accludo la collazione o trascrizione del passo: fatta non di mia mano, come avrei desiderato. Ero riuscito ad avere accesso alla Biblioteca, in via straordinarissima, per mezzo del gentile e dotto p. Boffito; e avevo anzi un appuntamento con lui, che mi avrebbe presentato al padre [Franz] Ehrle, per una delle scorse mattine. Ma mi sopravvenne un po’ di febbre, che mi ha reso invalido, durante gli ultimi giorni che ho passato a Roma. E allora il nostro buon [Luigi] Ferrari è corso lui, in Vaticana, per giustificare la mia assenza; e per sostituirsi a me nella trascrizione. Ma non ce n’è stato bisogno: perché il p. Boffito ha voluto far da sé: anche perché sapeva che il passo serviva a te, per cui ha grande ammirazione. – A lui dunque, se vorrai, potrai mandare una carta da vista (a Roma, Collegio dei Barnabiti. Via Tata Giovanni (22, mi pare): ma già l’ho ringraziato io)»
(Fortunato Pintor, biglietto a Giovanni Gentile, La Consuma (Pontassieve) 3 agosto [1904], p. 169)

«Mio caro Pintor,
[...] Il De Nohlac mi ha dato ragione in tutto, dichiarandosi mortificato per quell'apud
(Giovanni Gentile, cartolina a Fortunato Pintor, [Napoli 14 ottobre 1904], p. 174)

Pintor-Gentile (1905)

«Mio Caro Gentile,
Ai miei ritardi sei ormai abituato: non ti chiedo perciò neppure scusa!
Nella nazionale V.E. [Biblioteca nazionale di Roma] non v’è nessuna edizione originale dei Dialoghi del Bruno. Ve n’ha invece delle opere latine; e vi sono pur nelle stampe originali – nella miscellanea Valente – le due orazioni “in exequiis meis Brunsuicensium”, e “in Acad. Witeberg”.»
(Fortunato Pintor, cartolina a Giovanni Gentile, [Roma] 22 [luglio 1905], p. 192)

«Mio caro Pintor,
È inutile; come vedi, mi faccio sempre più un seccatore. Il [Francesco] Fiorentino deve aver trovato in una delle pubbliche Biblioteche italiane il Dialogo italiano di G. Bruno De la causa, principio et uno ediz. di Venezia [Londra] 1584. Credevo che l’avesse vista nella Miscellanea Valente, perché d’un opuscolo latino dava appunto questa indicazione. Io avrei proprio bisogno di ripescare quel dialogo. Come facciamo? Tu hai amici in tutte le principali biblioteche: potresti scrivere che ne facciano un’accurata ricerca? Bisognerebbe cominciare dalla Universitaria di Pisa, dove insegnava il Fiorentino quando scrisse di aver tra mano il detto dialogo. Del resto, qualunque stampa originale di altro dei dialoghi del Bruno mi gioverebbe lo stesso, servendomi pel riscontro di certe particolarità della sua grafia. Puoi farmi questo favore? Capisco che è troppo il fastidio che ti do; ma solo tu mi puoi fare questa ricerca in modo che non mi restino scrupoli.»
(Giovanni Gentile, lettera a Fortunato Pintor, Napoli 29 luglio 1905, p. 193)

«Mio carissimo Gentile,
Avevo cercato inutilmente, in tutte le biblioteche fiorentine, quando ci sono stato al principio della licenza in agosto. Poi ho avuto da Pisa la risposta negativa che ti acchiudo. Aspettavo ora, la risposta di Venezia [probabilmente Biblioteca Marciana]: e temendola per negativa, pensavo di pregarti ad aspettare il mio ritorno a Roma, donde avrei potuto mandare una circolare d’ufficio, a tutte le biblioteche; ed avere in breve tempo, una risposta precisa da tutte: ciò che non si ottiene in questa stagione, scrivendo personalmente ai bibliotecari. Ma tornando, ora, a Firenze, ho dovuto confessare a me stesso che la ricerca, la prima volta, non era stata fatta da me con quegli avvedimenti che parrebbero doverosi, in un ex-impiegato della Nazionale [di Firenze]. Avevo dimenticato la collezione Guicciardini, tutta, come sai, di opere “proibite”! Qui ho trovato subito una numerosa serie di opere del Bruno: e tra le altre, proprio il De la causa principio et uno, nell’edizione del 1584.
Ma si tratta della collezione Guicciardini, cioè di una raccolta il cui uso è intralciato da una serie di severe disposizioni testamentarie che non solo ne vietano il prestito, ma prescrivono una speciale presentazione anche per la semplice consultazione. Se dunque t’occorresse aver fra mano il dialogo, è inutile pensare alla Guicciardini: e si farà la circolare (mi ero fatto mandare, dal [Luigi] Ferrari, anche la carta timbrata: ma poi mi è parso non corretto, spedirla mentre sono in permesso). Ma se ti bastasse averne un saggio (mi pare che mi scrivessi che ti occorre fissare certe particolarità di grafia) potrei io stesso farne un estratto, giuste le norme che tu vorrai darmi. Ma bisognerebbe che io sapessi qualcosa entro la prossima settimana: dovendo tornare il 20 a Roma.»
(Fortunato Pintor, lettera a Giovanni Gentile, Firenze 10 settembre [1905], p. 195-196)

«Mio carissimo Gentile,
Trascrissi il giorno avanti di partir da Firenze, lo scorso settembre, alcune pagine del Bruno: e poi non m’è riuscito di mandartele, tanto poco son padrone del mio tempo! [...]
Il brano trascritto non basterà, m’imagino, al tuo scopo. Né ho dismesso l’idea di fare una richiesta a tutte le biblioteche. Si stanno stampando le apposite circolari di cui la Biblioteca [del Senato] era sprovvista.»
(Fortunato Pintor, lettera a Giovanni Gentile, [Roma ottobre 1905], p. 197-199)

Piovene (1957a)

«Ravenna è tra le nostre città in cui le tradizioni di cultura sopravvivono con più tenacia. Vi fa capo un teatro romagnolo, con tre compagnie dialettali, che girano nei paesi intorno, e attirano grande pubblico. È gloria di Ravenna la Biblioteca Classense, famosa per incunaboli e manoscritti. Anni fa, ricordo di avervi visitato una raccolta, credo unica, di xilografie primitive, italiane e tedesche. Mi accompagnava il bibliotecario d'allora, Sante Muratori, che illustrava in se stesso il tipo dello studioso ed erudito ravennate. A lui è succeduto Manara Valgimigli, uno dei nostri massimi grecisti e umanisti, finissimo scrittore, e la maggiore personalità culturale di Ravenna.
Manara Valgimigli è uno degli studiosi che le discipline umanistiche e la familiarità dei classici conducono a opinioni non già conservatrici, bensì radicali in politica: fenomeno abbastanza frequente nell'Italia di oggi. Ottantenne, seduto a tavolino, in uno studio che assomiglia a una cella, cistercense, in questa biblioteca che fu sede appunto di monaci cistercensi. Quasi non v'è passaggio di colore dal camice al grande viso tondo dal viso al cranio vasto senza capelli. Il viso e il cranio fanno insieme una specie di palla di gomma chiara, tinta appena di rosa. Tutto bianco, e un'immensa calma; ecco un uomo che sembra preordinato per il ritratto di un impressionista francese. Quel bianco monacale è però soltanto visivo. Appena Valgimigli parla, sprizzano da lui l'esuberanza, la cordialità ospitale, l'ostinazione, il gusto della diatriba e l'atavico anticlericalismo propri dei romagnoli. Abbandonando le cartelle, ch'egli sta ricoprendo della sua linda e minuta scrittura di uomo di studio, riversa nel mio seno la propria indignazione contro un giornalista, resosi reo di tradimento: ha scritto che Carducci, il maestro di Valgimigli, fu convertito in punto di morte dalla contessa Pasolini. Mi dimostra che non è così: "Prima di tutto non è vero; e poi, a questi chiari di luna, prima di scrivere una riga bisogna chiedere a se stessi: farebbe piacere alla Democrazia cristiana? Se fa piacere, non si scrive." Tutta la Romagna è qui, e zampilla anche dal fondo di una biblioteca cistercense. Dopo questa sfuriata, Valgimigli rientra negli abiti monacali e mi confessa che, da buon romagnolo, è devoto a san Romualdo.»

(Guido Piovene, Viaggio in Italia, pp. 299-300. La prima edizione fu pubblicata da Mondadori nel 1957)

Piovene (1957b)

«A Cesena faremo un'ultima breve sosta.
Questa graziosa cittadina, circondata di bei frutteti, e perciò a primavera ravvolta di una nuvola d'alberi bianchi e rosa, addossata a un colle e dominata da una rocca che la include in parte, è nota anche nella cronaca delle ultime guerre, perché diede un buon numero di aviatori medaglia d’oro. Ivi ho raccolto molto di quel colore romagnolo, che ho poi versato in queste pagine solo in minima parte. Lo stesso assessore comunale che mi accompagnava era un tipo d'eccezione: mangiava la mattina, al risveglio, un piatto d'uova strapazzate con gli spezzatini d'agnello. La splendida biblioteca malatestiana di Cesena è il cuore della cultura della Romagna. Costituita, a metà Quattrocento, per ordine di Novello Malatesta sul fondo di una più antica biblioteca conventuale, nella scia di quella di San Marco a Firenze, è una perfetta creazione del genio del rinascimento. Non solamente per i codici corali miniati, incunaboli di gran pregio ch’essa contiene, ma per la stupenda sala, opera di Matteo Nuti, scolaro dell'Alberti. Col tempio malatestiano di Rimini, con il Palazzo Ducale di Urbino e con i più tardi palazzi degli Estensi a Ferrara è quanto di più puro ci abbia dato quel secolo in cui la cultura toccò l'estremo punto della raffinatezza. Già ho notato più volte che il nostro rinascimento forse raggiunse il massimo della perfezione in queste creazioni eccentriche, tra l'ultimo angolo delle Marche e la Romagna. Appare, la meravigliosa sala, con due file di colonne in fuga prospettica e i muri cui il tempo ha dato sfumature verdi e rosee. Difficile associare più distillata purezza a più slancio di fantasia. Vi fu bibliotecario Renato Serra, critico acuto e sensibile, in cui la tradizione culturale romagnola si rivelò ancora fertilissima e capace d'innesti moderni. Oggi, ultima meraviglia, vi si conserva un vasto piatto d'argento cesellato, della fine del IV secolo, di arte orientale-ellenistica, rinvenuto per caso nel dopoguerra. Nel prossimo municipio, i vecchi reggitori di Cesena fecero porre un'iscrizione, che non è per nulla bizzarra, e suona così: "Rappresentanti, ricordatevi – che governate degli uomini – che governar dovete colle leggi – che non governerete per sempre." Il senso della legge della vecchia Romagna trova in questa sentenza il suo sigillo. Terra densa di caratteri umani e poco incline allo standard del mondo d'oggi, la Romagna ha l'attrattiva di tutto ciò che difende se stesso e rifiuta di conformarsi.»

(Guido Piovene, Viaggio in Italia, pp. 307-308. La prima edizione fu pubblicata da Mondadori nel 1957)

Piovene (1957c)

«Il risveglio economico e la fine del semi-isolamento sarebbero anche necessari per salvare una vita intellettuale notevole, sebbene ristretta a una minoranza. Vi è ad Avellino un buon liceo classico; vi è un ottimo istituto tecnico-agrario, sul quale la rinascita dell'agricoltura potrebbe far perno. Una visita alla biblioteca mi ha dato una certa emozione. È tra le nostre biblioteche comunali migliori. Non nata, si badi, da fondi monacali, ma da biblioteche private, ancora oggi uno dei centri nevralgici della città, molto più che in una città del Nord. Mi sono insomma ritrovato in uno di quei monumenti dell'umanesimo meridionale, che ahimè sembrano sempre più galleggiare come zattere in un ambiente estraneo. Gli intellettuali vorrebbero leggere, e lo testimonia il gran numero di richieste di libri sulla tavola del bibliotecario. Questi cerca di accontentarli con le cassette circolanti, distribuite nei paesi della provincia, lasciate due mesi in ciascuno. Iniziative necessarie nell'Italia meridionale, dove il prezzo dei libri supera la capacità d'acquisto; ma ancora minime rispetto ai bisogni.»

(Guido Piovene, Viaggio in Italia, pp. 470-471. La prima edizione fu pubblicata da Mondadori nel 1957)

Pirandello (1889)

«Mio amato Maestro,
la recente sventura e i tristi casi da quella diramati alla mia povera casa, mi ridussero, sin dai primi giorni del mio ritorno in Sicilia, in così malo stato, da rendermi inetto a resistere al violento attacco d'una malattia, che mi ha condotto quasi al limitare della morte [...]. Attribuisca a ciò la causa del mio lungo silenzio, e abbia una parola di compatimento pel suo povero Pirandello, il quale per altro non ha mancato di ricordarla sempre con affetto e devozione, serbandosi fedele alla promessa fattale di recarsi – non a pena gli è stato possi[bi]le – in Girgenti, a cercare se in quella Biblioteca Lucchesiana (dal nome del fondatore, monsignore Andrea Lucchesi-Palli – seconda metà del Sec. XVIII.) fossero degli antichi manoscritti.
Molti difatti ne trovai, e alcuni, stimo io, di qualche valore. Eccomi ora a dargliene notizia, quanto più estesa mi sarà possibile. Son circa cento e quasi tutti tenuti male, anzi alcuni ridotti a tale da non poterne far più conto e copia. Bibliotecario è un certo prete Schifano, presso che illetterato, il quale nella lite pendente tra la sede vescovile e il municipio sulla proprietà di quella Biblioteca, non rende da anni e anni ragione della sua incuria né all'una né all'altro. E tutto va in perdizione. Non saprei adeguatamente manifestarle la strana e dolorosa impressione ricevuta al primo entrare in quella sede, cui non dirò mai dello studio e del raccoglimento, e bisogna ch'Ella lavori un po' d'immaginazione. Vidi nella penombra fresca che teneva l'ampio stanzone rettangolare, presso un tavolo polveroso, cinque preti della vicina Cattedrale e tre carabinieri dell'attigua caserma, in maniche di camicia, tutti intenti a divorare un'insalata di cocomeri e pomidoro. Restai ammirato. I commensali stupiti levarono gli occhi dal piatto e me li confìssero a dosso. Evidentemente io ero per loro una bestia rara e insieme molesta. Mi appressai rispettosamente (perché no?) e domandai del bibliotecario. «Sono io» mi rispose uno degli otto, con voce afflitta dal boccone non bene inghiottito. – Io vengo a chiederle il permesso di vedere se in questa... non dissi taverna, ma biblioteca, sono dei manoscritti... – Là giù, là giù, in quello scaffale in fondo – m'interruppe la stessa voce impolpata d'un nuovo boccone – e gli otto bibliotecari sì rimisero a mangiare. – O Marius De Maria, sospirai io, pittore bizzarro e fratel mio d'elezione!
Lo scaffale accennatomi era aperto: chi ne avesse avuto voglia avrebbe potuto servirsi a comodo; ma quei libri non conosco[no] altri visitatori che i topi e gli scarafaggi. Lo scaffale è a tre ordini: Sul primo stanno 34 volumi di manoscritti arabi, fonte copiosa di studi al compianto senatore Michele Amari, il quale per essi frequentò tre mesi interi la biblioteca. Nel secondo ordine stanno:
I°. Due volumi di Relazioni d'Ambascerie del XVI secolo [...].
XXI. Una Geografia.
Nel terzo ordine poi sono VI volumi di antichissimi Diplomi manoscritti, tra i quali molti importantissimi con data del 1098.
Scorsi quasi tutti in una settimana e mezza questi manoscritti; ma attendervi bene sopra non potei sia perché lo stato di mia salute me lo vietava, sia perché in un luogo come quello tutto è possibile, tranne che studiare. Chiesi al Municipio, chiesi alla sede vescovile il permesso di portarmi in casa qualche volume e non ne ebbi che risposte incerte piene di strane esitazioni. Poi non potei più nulla, e tutto restò lì.»

(Luigi Pirandello, lettera a Ernesto Monaci, Palermo idi di settem. 1889, in: La Lucchesiana di Girgenti, p. 219-225).

Pirricchi (1979)

«In quel periodo [1934-1936] – quando Mussolini preparava l'aggressione all'Etiopia – ci venne l'idea di organizzare una biblioteca circolante per mettere in condizione tanti amici che non avevano la possibilità di comprare un libro, di poter leggere altri libri come il Tallone di Ferro, La Madre di Gorki, L'Intruso di Blasco Ibanez, tutti i libri di Mario Mariani, tra cui il Povero Cristo, ecc. Per avere questi libri, ricordo che ci mettemmo d'accordo con un rivenditore di carta straccia, che aveva un piccolo magazzino in via Faenza. Lui ci metteva da parte i testi che noi richiedevamo, e che noi regolarmente pagavamo. In casa mia venne fatto il deposito: arrivammo anche ad avere 20 copie del Tallone di Ferro, altrettante della Madre, tante copie di tutti gli altri. I libri venivano comprati con i soldi del gruppo di amici che lavoravano, raccolti attraverso piccole sottoscrizioni. L'iniziativa ebbe successo; quei libri venivano letti da tutto il gruppo di amici, dai loro familiari ed anche da altre persone. Questa piccola iniziativa andò oltre le previsioni, in quanto questo giro si allargò anche alla periferia, a Scandicci, Peretola ed altri piccoli centri. Comunque, il giro di questi libri fu enorme perché era tutto un prenderli e poi regolarmente riportarli.
[...]
Tutte queste nostre discussioni ci portarono a concludere che bisognava fare di più. Non bastava la biblioteca circolante, bisognava forse trovare il modo di andare a combattere in Spagna e fare dei volantini che incitassero i cittadini alla solidarietà con la lotta del popolo spagnolo contro il fascismo.»
(Mario Pirricchi, in: I compagni di Firenze: memorie di lotta antifascista, p. 191-224: 196, 199).

«Io posso dire questo: in carcere ci siamo tutti istruiti. Anche io che avevo frequentato le scuole elementari, ed ero uno che aveva avuto la fortuna di studiare, in carcere ho trovato compagni, alcuni intellettuali che mi hanno molto insegnato. Per esempio mi ricordo, che c'era un compagno che ci ha fatto subito imparare a leggere il francese, perché i testi erano tutti francesi: l'Economia politica del Segai, Le vie dell'ottobre di Lenin, alcuni libri di Carlo Marx, l'Antidühring di Federico Engels, sulla teoria scientifica del socialismo. [...] C'era una biblioteca di oltre 5.000 volumi, che era stata fatta dai detenuti politici. I detenuti politici potevano infatti comprare libri, autorizzati dal Ministero dell'Interno, e i libri venivano sempre fatti acquistare dai compagni che avevano più anni di carcere, perché restassero lì nel carcere, e nessuno se li portasse via. Adesso nelle carceri entrano di nascosto le rivoltelle, allora entravano i libri che noi, detenuti politici, volevamo.»
(ivi, p. 213. Detenuto a Regina Coeli fino al processo, Pirricchi fu poi trasferito per scontare la pena nel carcere di Castelfranco Emilia, dal 1939 al 1942).

Pizzi (1901)

«Io poi ricordo ancora con qual strana voce di disgusto e di fastidio [Giuseppe Verdi] rispondesse, tutto contorcendosi, nella Biblioteca Laurenziana di Firenze, a uno dei ciceroni che, con lambiccatissima frase laudatoria, l'aveva invitato a scrivere il proprio nome sull'albo dei visitatori. [...]
Lo conobbi di persona nel 1883. [...]
Il sabato 14 di luglio del 1883, giorno memorabile per il caldo grandissimo, io, con gli altri miei compagni di ufficio, stava nella Biblioteca Laurenziana di Firenze a passare, sonnolento e intorpidito, le ore del pomeriggio. Un cicerone pubblico, certo Battaglia, entrò accompagnando un bel signore, già avanzato nell'età, ma ancora snello e aitante della persona, seguìto da due signore. Era quello il Maestro che ritornava da Montecatini e aveva con sè la signora Strepponi, sua moglie, e la signora Teresina Stolz, già celebre cantante. Il Verdi osservò con molta attenzione le cose preziose che si conservano in quella insigne biblioteca, di cui io era allora vicebibliotecario, le miniature esposte, gli autografi del Petrarca, del Cellini, dell'Alfieri, il Virgilio del secondo secolo, il Tacito rinvenuto in Westfalia, il Paolo Orosio. Domandò di molte cose e, tra le altre, anche della celebre edizione, fatta a Foligno, della Divina Commedia. Tutto ciò faceva e diceva con l'usciere della biblioteca, mentre io, seduto in un angolo della gran sala, stava pure ad osservarlo con attenzione curiosa, parendomi non del tutto nuova la sua fisionomia. [...] Interrogai il cicerone, ma egli non ne sapeva nulla. Allora si pensò di pregar l'incognito signore di scrivere il proprio nome nell'albo dei visitatori, e il cicerone Battaglia (parmi di vederlo ancora!), accostandosi con comica officiosità, gli disse: «Se la signoria vostra volesse far l'onore di scrivere qui il suo riverito nome!...». Queste parole furono dette con tanta goffaggine, che il Verdi, tutto contorcendosi, come ho detto avanti, mandò fuori certa voce che era tutt'altro che armonica e musicale. Ma poi si contenne, e, prendendo la penna che l'altro gli offriva, scrisse nell'albo il proprio nome. Certo allora chi egli fosse, io, felice dell'incontro fortunatissimo, feci vedere al Maestro le cose più care e preziose della biblioteca, quelle che si tengono gelosamente chiuse e che non si fanno vedere a tutti, la Bibbia Amiatina, celebre manoscritto del sesto secolo, l'Evangeliario siriaco, pure del sesto secolo, i magnifici Corali miniati del Duomo di Firenze, il Messale miniato, della scuola del Ghirlandaio, a proposito del quale egli, sentendo da me che un simile messale erasi venduto pochi anni prima, disse con amarezza manifesta: «In Italia si vende tutto!».
Queste e molte altre cose ammirò il Verdi nella biblioteca e le ammirò con entusiasmo caldo, con sentimento vero d'arte. Mi diceva anche d'aver veduto, altra volta, alla Cava dei Tirreni, presso quei frati, un uffizio della Madonna, miniato ricchissimamente, e soggiungeva con occhi scintillanti: «Oh! se avessi potuto portarlo via a quel frate che me lo mostrava!». – Ma egli non si mostrò ammiratore soltanto, perchè si fece conoscere anche erudito, ciò che smentisce l'opinione che qualcuno ha o ebbe di lui, cioè che egli, fuori della sua musica, non sapesse che ben poco. [...] Comunque sia, io mi meravigliai di lui quando, mostrandogli una edizione rarissima delle opere di Aristotele in greco, fatta a Venezia e adorna di miniature bellissime di animali, disse: «Io non so di greco, ma questa deve essere la Storia degli animali di Aristotele». – Ed era vero. [...] A proposito poi della Laurenziana, domandava se quella era appunto quella biblioteca di cui di tanto in tanto vedeva citati i manoscritti [...].
Vedute le cose della biblioteca degne di esser vedute, il Verdi, si licenziò non senza però domandarmi la mia carta di visita che io gli consegnai premurosamente.»

(Italo Pizzi, Ricordi verdiani inediti, p. 7-13).

Placanica (1976)

«Feci la prima conoscenza del bibliotecario Don Pippo al tempo della mia fanciullezza, quarta elementare o prima media tutt'al più: già in casa ne sentivo parlare ogni tanto, come di un uomo fuori del normale che vìveva in mezzo ai libri, e, allorché potei conoscerlo di persona, egli sembrò ancor più vecchio e venerando di quanto avessi immaginato e di quanto in realtà non fosse. Mio padre era lontano, in guerra, ed era il mio nonno materno, un vecchio avvocato massone e antifascista di Catanzaro, che si prendeva più assidua cura di me e che amava portarmi spesso con sé a passeggio, dirigendo di tanto in tanto i suoi passi verso il regno di Don Pippo. La biblioteca, allora, era sistemata al piano terreno del palazzo comunale; vi si accedeva sùbito: bastava salire qualche gradino e, attraverso una porticina a vetri come quelle delle case di paese, ci si immetteva direttamente in una sorta di vestibolo angusto e in penombra, sul quale si aprivano alcuni passaggi alle sale della biblioteca; nell'àndito, quasi di fronte a chi entrava e in mezzo a scaffali con libri, si ergeva un breve armadio a vetri (era il catalogo a schede mobili in grossi volumetti), i cui sportelli recavano, infilati molto semplicemente dietro i vetri e lungo le cornici, fotografie di singoli o di gruppi e alcuni telegrammi: insomma, da ogni cosa spirava un'aria raccolta di famiglia; e finanche quel rapido incontro con la penombra, appena attenuata dal sole che filtrava dalla porta a vetri, l'angustia dell'ingresso, un certo indefinibile sentore come di umidità, il predominante odore dei libri, tutto mi faceva sentire ancora a casa mia; tutt'al più mi pareva d'essere andato a casa di amici, e perciò non provavo soggezione, e credo che nessuno ne provasse, almeno nei suoi primi contatti con la biblioteca. A destra, sempre tra scaffali con libri, si apriva un altro varco, anch'esso piuttosto angusto ma tutto illuminato da una finestra che, lungo lo stesso filo dell'entrata, dava sulla strada; qui, dietro a una piccola scrivania ingombra di carte e penne, seduto a una vecchia poltrona dì velluto scarlatto [...] stava Don Pippo: da quel suo posto, mirabilmente scelto, aveva sempre sott'occhio da una parte libri e studiosi e dall'altra la frequentatissima via Jannoni [...].
Don Pippo non era mai solo: c'era sempre con lui qualche studioso, oppure un esiguo gruppo di suoi personali frequentatori, e nel familiare andirivieni c'era spazio per raffinati suggerimenti bibliografici e anche per bonari pettegolezzi. [...] Io stavo lì in mezzo, ma non facevo in tempo ad annoiarmi: infatti, poiché i «grandi» dovevano parlare tra di loro ed esercitare l'innocente jus murmurandi sul regime o sui maggiorenti locali. Don Pippo si preoccupava, sùbito e senza tanti complimenti, di levarmi dì torno e mi accompagnava alla «Sala Serravalle », un lungo stanzone che dava anch'esso sulla strada attraverso ampie finestre, tutto tappezzato dì libri alle pareti e percorso nel centro da bellissimi e massicci tavoli a leggìo di un caldo color noce chiaro: Don Pippo mi faceva sedere lì e mi dava in mano qualche romanzo dì Verne o ì volumi di geografia o preistoria di Flammarion, o altrettali, tutti in edizioni tardottocentesche illustrate da incisioni per me bellissime e misteriose, con quei chiaroscuri che addirittura mi affascinavano, poi, nelle tavole del Doré illustranti la Divina Commedia o il Don Chisciotte. Io leggevo e ammiravo estasiato e ogni tanto, quasi nascosto dietro il tavolo-leggìo, levavo lo sguardo a osservare gli altri lettori: ce n'erano sempre due o tre, non di più, intenti a leggere o a prendere appunti, e spesso Don Pippo entrava nella stanza, si chinava a leggere con loro oppure si metteva a cercare altri libri negli scaffali; e io ricordo ancora con infinita nostalgia quella sala raccolta e silenziosa, talora rallegrata dagli scoppi dì risa dei frequentatori più giovani, e come il sole, filtrando dalle finestre, si posasse sulle persone intente a leggere, illuminando ora la canìzie di un vecchio lettore ora le chiome fluenti di una laureanda; certe volte capitava che un giovanotto e una signorina lasciassero di leggere e si mettessero a chiacchierare sottovoce e a lungo, ogni tanto volgendo gli occhi alla porta perché non fossero scorti da qualcuno nel mezzo del loro tenero parlare. Talora, non senza circospetto timore, mi alzavo e andavo in giro per l'ampia sala: tutt'intorno si snodavano lunghe file dì volumi ordinati in collezione, con le loro eleganti rilegature in pelle: c'erano molti libri vecchi e austeri, spesso anche di grandi dimensioni, che spiravano nobiltà coi loro dorsi dai tasselli multicolori e dalle incisioni in oro, ma che avevano lì, anch'essi, un'aria dì famìglia; soprattutto mi attraevano certi altri volumetti, piccoli o addirittura minuscoli, anch'essi disposti in lunghissime serie, tutti rilegati alla stessa maniera e con certi titoli latini o francesi che eccitavano la mia fantasia. Quando Don Pippo o il nonno venivano a riprendermi, io lasciavo quel luogo sempre a malincuore, e non senza invidia per coloro che potevano lavorarci a proprio agio [...].
Cresciuto negli anni – ginnasio, liceo –, mantenni rapporti discontinui con la biblioteca: me ne servivo talora per qualche ricerca spicciola o per soddisfare qualche curiosità, e sempre – come tutti – dovevo preliminarmente rivolgermi a Don Pippo. Passato il tempo del nonno e degli amici del nonno, ora lo trovavo spesso in compagnia di giovani professori del luogo o di altri più recenti professionisti e talora in alcuni di essi ravvisavo i giovanissimi frequentatori di un tempo. [...]
Ciò che colpiva in Don Pippo, infatti, era l'estrema disponibilità verso i giovani e i giovanissimi: era, quello degli anni tra i Quaranta e i Cinquanta, il periodo della riscoperta della libertà nelle scuole [..].»

(Augusto Placanica, Premessa, in: Civiltà di Calabria: studi in memoria di Filippo De Nobili, p. 9-20: 9-11).

Politecnico (1945)

«Settemila sono le biblioteche pubbliche negli Stati Uniti; ma solo le sedentarie. Poi vi sono, a migliaia e migliaia, le ambulanti; formate di camions come questo che girano per raggiungere le fattorie e portar libri ai contadini, a chiunque viva isolato. Un libro è lasciato, un nome è preso, la settimana prossima si ripassa e il libro vien ritirato ma se ne lascia un altro. E il lettore può chiedere qualunque libro vuole. Se la biblioteca ne è sfornita, lo farà arrivare in giornata, per aereo. L'Italia, dicono, è il paese dei musei e delle biblioteche. Quante biblioteche abbiamo? Praticamente, una sola. Se una determinata opera è alla biblioteca nazionale di Roma, potete star sicuri che non c'è a Milano o a Torino; se invece è a Milano potete star sicuri che non c'è a Roma, e così via. Ma sapete quando l'Italia sarà un paese davvero civile? Il giorno in cui avrà tante biblioteche pubbliche quante oggi ha chiese parrocchiali, quanti oggi ha campanili.»

(«Il Politecnico», n. 1 (29 set. 1945), p. 4. Il trafiletto, accompagnato da una fotografia, non è siglato, ma potrebbe essere del direttore Elio Vittorini).

Il Politecnico, n. 1 (29 set. 1945)