LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

N.B. La casella di ricerca qui sotto opera soltanto sul titolo della testimonianza (di norma, cognome dell'autore e anno).
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Risultati della ricerca

Levi Della Vida (1966c)

«Posso dire che è stato quello l’ultimo contatto che ho avuto con Croce. I miei studi erano troppo remoti dai suoi per poter interessarlo; se avessi avuto residenza nella sua stessa città i rapporti personali sarebbero certamente continuati, ma dopo il 1917 ho sempre vissuto altrove che a Napoli, e nonostante la sua benevola accessibilità a grandi e piccoli non mi sentivo giustificato a rubargli tempo colla corrispondenza epistolare. Dei molti anni che seguirono al colloquio di giugno avrò di lui forse un paio di cartoline e il ricordo di un incontro casuale nel febbraio del 1933, nella Biblioteca Vaticana, cui fece seguito una conversazione a quattro, con Alcide De Gasperi allora addetto alla schedatura dei libri e la dotta ed energica bibliotecaria Maria Ortiz, direttrice della Nazionale di Napoli e poi dell’Universitaria di Roma, fedelissima di Croce: tutto questo incontro ho raccontato in un quotidiano in occasione della morte di De Gasperi. Ho fatto male forse a non farmi vivo con Croce dopo la liberazione, tanto più che mi consta che non ero del tutto caduto dalla sua ferrea memoria.»
(Giorgio Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, p. 202)

L’incontro di Levi Della Vida con Croce, De Gasperi e la Ortiz - avvenuto il 28 aprile del 1933 - è stata raccontato, con numerosi particolari, in un articolo apparso il 21 agosto 1954 sulle pagine del «Corriere della sera».

Levi-Montalcini (1987)

«Altre amicizie si stabilirono tra me e i compagni di studio negli anni universitari. Nacquero nelle stanze dell'Istituto anatomico dov'eravamo interni o nella grande biblioteca, vanto dell'Istituto e soprattutto del professore [Giuseppe Levi], che vi passava lunghe ore. Ne era consentito l'ingresso soltanto agli assistenti e agli interni, ma neppure a loro era resa comoda e facile la consultazione dei libri. I periodici, che attualmente affluiscono a valanghe nelle biblioteche scientifiche, allora erano non più di una decina. Quelli degli anni precedenti erano rilegati in volumi, e le opere di autori dalla metà del secolo scorso occupavano i giganteschi scaffali in legno massiccio che arrivavano sino al soffitto ed erano protetti dalla polvere da grandi sportelli a vetro.
Per consultare i libri, scritti la maggior parte in tedesco (la lingua più usata dai biologi fino agli anni Venti), era necessario arrampicarsi su una traballante scaletta a pioli. Non era permesso prendere in prestito i volumi; dovevamo quindi consultarli sui grandi tavoli disposti nel mezzo delle stanze e poi riporli immediatamente negli scaffali. Nelle fredde giornate invernali la temperatura della biblioteca era tenuta sui dodici gradi per limitare la durata delle consultazioni "dei fanatici della scienza", come Levi definiva gli studenti più zelanti e diligenti, e soprattutto per scoraggiare gli "sfaticati" o "impiastri", che riteneva non avessero alcuna attitudine e interesse scientifico e sfruttassero la biblioteca come stanza di ritrovo e di pettegolezzi. Guai a chi lasciava il soprabito o altri oggetti personali sui tavoli. Ricordo una terribile sfuriata di Levi che, entrando all'improvviso, s'imbatté in uno sciagurato che aveva usato uno dei tavoli a questo scopo. Con voce tonante il professore gli ricordò che la biblioteca non era una taverna. Cappello, cappotto e borsa, con il loro disgraziato possessore, presero precipitosamente la fuga dal luogo sacro che avevano profanato, seguiti da un'occhiata di disprezzo del maestro.
Mi venne in mente questo episodio quando entrai per la prima volta, molti anni dopo, nella library del Dipartimento di biologia della Washington University. Era piena di studenti in maniche di camicia. Molti, sdraiati sulle poltrone, per lo più con i piedi scalzi sui tavolini, leggevano le riviste masticando chewing-gum o, stanchi della lettura, erano immersi in profondi sonni con la testa appoggiata sui fascicoli o sui quaderni di appunti.
Nelle stanze del laboratorio e nella biblioteca avvennero gli incontri con [Salvatore] Luria, [Renato] Dulbecco, [Cornelio] Fazio e [Rodolfo] Amprino.»
(Rita Levi Montalcini, Elogio dell'imperfezione, p. 73-74).

«[Fernando J.] Si stupì quando Viktor [Hamburger] gli chiese se voleva venire con noi per il lunch nella vicina cafeteria del campus. Rifiutò. «Mi spiace,» disse «ma non faccio mai il lunch, preferisco passare quel tempo in biblioteca.» Viktor sorrise di quell'ardore giovanile: aveva ventinove anni e quindi tutto il tempo davanti a sé per studiare e nutrirsi come tutti gli altri mortali, ma Nando fu irremovibile. Lo accompagnammo alla biblioteca, oggetto per lui, com'era stata per me, di ammirazione, poiché entrambi venivamo da paesi nei quali dominavano gli austeri scaffali pieni di libri polverosi dell'Ottocento, mentre le pubblicazioni recenti erano pochissime. Si gettò sui periodici, per poi riprendere il colloquio al nostro ritorno dalla cafeteria.»
(ivi, p. 181. Il ricordo si riferisce al 1951, nella Washington University in St. Louis, dove Rita Levi-Montalcini lavorava dal 1947).

Longone (1949)

«Avevo 18 anni e molte cose per me sapevano di leggenda: L'Unità non l'avevo vista mai. Sapevo che molti compagni erano in carcere per averla letta o diffusa.
Era il 1935. [...]
Con i compagni leggevamo la sera «Il Capitale» nella vecchia edizione Avanti! che ero riuscito, con uno stratagemma a farmi dare in prestito dalla Biblioteca Nazionale [di Napoli]. Ma aspettavamo la stampa dal Centro»

(Riccardo Longone, Quando l'"Unità" era al ciclostile, «L'unità» (Roma), 26, n. 223 (18 set. 1949), p. 3).

Marx, Il capitale (1915) (Biblioteca nazionale di Napoli)

(Scheda del catalogo della Biblioteca nazionale di Napoli)

Loperfido (1996)

«Il prof. Rolando Cristofanelli, noto antifascista di tendenza anarchica, ordinario di Lettere al Tito Livio, frequentava come me, allora adolescente, la Biblioteca dell'Istituto Italiano di cultura fascista. Alla fine di settembre del '39, dopo la sconfitta polacca ad opera dei nazisti, fu udito gridare: "Vergogna!" contro il notissimo giornalista fascista Mario Appelius, quello di "Dio stramaledica gli Inglesi!" che, durante una sua conferenza in Istituto, irrideva sprezzantemente alle cariche della cavalleria polacca contro i carri armati tedeschi. Mi unii anch'io, insieme ad altri, a quel grido di indignazione. Per un momento Appelius rimase in silenzio, e poi proseguì, evidentemente intenzionato a non dare importanza alla nostra protesta.
L'Istituto era dotato di una buona biblioteca dove, con mia grande meraviglia, riuscii a trovare tutti i numeri di "Comunismo", rivista della Terza Internazionale, diretta da Giacinto Menotti Serrati.»

(Francesco Loperfido, Gli inizi della Resistenza a Padova: l'otto settembre, in: Padova nel 1943: dalla crisi del regime fascista alla Resistenza, a cura di Giuliano Lenci e Giorgio Segato, Padova, Il poligrafo, 1996, p. 165-173: 165. L'autore cita in modo leggermente inesatto l'Istituto nazionale di cultura fascista e il Cristofanelli a cui si riferisce non è Rolando, scrittore, ma Giulio, nato il 28 ottobre 1877 e professore di lettere, di ruolo, dal 1° ottobre 1908, che insegnava al Ginnasio del "Tito Livio" e fu autore di alcuni scritti di storia della cultura a Padova nel XVIII e XIX secolo).

Lumini (1910a)

«Istituzione veramente gloriosa pel suo passato è la Società di Lettura Luigi Muzzi, che fu la prima Biblioteca popolare d’Italia e di Francia, dove la prima fu istituita nel 1863, mentre questa fu fondata dal Bruni nel 1861. Ebbe inizii difficili, ma l’ardente fede giovanile di Antonio Bruni superò gli ostacoli e l’opera ebbe incoraggiamenti da Garibaldi, da Michele Amari, G.[iovanni] Arrivabene, R.[affaello] Lambruschini, Enrico Mayer ecc. Da allora, tra vicende or tristi or liete, l’istituzione ha sempre vissuto ed ora un buon numero di soci le assicura l’avvenire. Il maggior nucleo dei suoi libri è costituito da romanzi e novelle, le opere di cultura sono assai meno. Quanto a ciò che leggono i socii, dovrei ripetere quel che altri in vari articoli di questa serie hanno scritto di istituzioni consimili; gli operai leggono Montèpin, Ponson du Terrail, Gaboriau o Zola, gli studenti e le maestre leggono Zola, Maupassant, France, Verga, d’Annunzio e in genere gli autori più moderni. Un articolo dello Statuto della Società dice che scopo di essa è elevare il gusto e la cultura del popolo, ma quando chiesi perché dunque non levassero dal catalogo Montèpin e compagni, il bibliotecario mi rispose che se ciò si facesse gli operai non si assocerebbero più e l’istituzione morrebbe. Così anche questa manca in gran parte al suo scopo.»
(Carlo Alberto Lumini, Prato, p. 303)

Lumini (1910b)

«La Biblioteca Roncioniana, antica e ricca di classici latini greci e italiani nonché di documenti per la storia pratese e toscana, è un ente autonomo con rendite proprie e che solo perciò non muore. È frequentata da qualche studente del Liceo che va a copiarvi le traduzioni dei testi latini e greci che gli servono per la scuola e da qualche studioso spigolatore di documenti. Non credo che i lettori abbiano mai raggiunto, nonché superato, la media di cinque al giorno. Del resto l’orario di essa è fatto apposta per dissuadere dall’andarvi: apre dalle ore 11 alle 13 e non tutti i giorni.»
(Carlo Alberto Lumini, Prato, p. 303)

Lumini (1910c)

«La Lazzeriniana... è l’araba Fenice. Un tal Lazzerini morendo lasciò al Comune una sua copiosa raccolta di libri ed una certa somma affinché esso li facesse servire ad uso pubblico. Ebbene, da tanto tempo il Comune non ha mai potuto o saputo trovare il locale per questa biblioteca e nessuno si cura di spingerlo a farlo. Questo è già un eloquente indice dell’amore che i Pratesi hanno per la cultura, ed è anche un fatto che non torna ad onore del Comune, che contravviene alla volontà del testatore.»
(Carlo Alberto Lumini, Prato, p. 303)

Luzi (1960)

«Al liceo spesso marinavo la scuola per andare a leggermi in pace i miei filosofi, specialmente S. Agostino di cui il decimo libro delle Confessioni doveva poi diventare il mio breviario per tanti aspetti. Fu quello l’unico periodo nel quale frequentai le biblioteche. Lessi allora anche taluni scrittori moderni come Mann (Disordine e dolore precoce) e Proust. Soprattutto il Dedalus di Joyce mi colpì in pieno petto. Mi accorsi che i veri filosofi del nostro tempo erano alcuni grandi scrittori e la vocazione infantile per la poesia si confortò»

(Mario Luzi, testimonianza per Ritratti su misura, p. 252)

Luzi (1993)

«"La biblioteca è una grande oppressione: è il sapere umano raggrumato nella materia che lo può contenere". Mario Luzi [...] inizia così la conversazione sulla sua biblioteca.
[...]
[Domanda] E la biblioteca? Quale apporto le ha dato la biblioteca? Ha fatto da cassa di risonanza ai suoi sogni, ai suoi studi, oppure è stata solo uno strumento?
No, non è stato un puro e semplice strumento. Da ragazzo ho amato particolarmente la Biblioteca Marucelliana di Firenze, che consideravo un sussidio familiare. Ci andavo spesso, e mi capita ancora di ricordare quei lunghi pomeriggi di silenzio. Fra le biblioteche fiorentine ricordo la Biblioteca nazionale nella sua antica sede sotto agli Uffizi. Quei locali ispiravano un senso di monumentale sacralità. Lo stesso opprimente e scientifico rigore me l'ha trasmesso la Bibliothèque Nationale di Parigi, autentico specchio di rigore cartesiano. In anni recenti, mi sono trovato bene nelle biblioteche americane, solenni ma confidenziali. 

[Domanda] La biblioteca non le suggerisce un verso?
Una melanconica meraviglia.»

(Mario Luzi, intervista del 1993)

Macchia (1982)

«Fin verso il 1949 i miei rapporti con Montale furono rari e alquanto silenziosi. S'era fatto fin troppo chiasso intorno a lui ed io m'isolavo in una posizione riguardosa e con scarsi interventi [...]. «Quando frequentavo la Biblioteca Berio a Genova» mi ripeté anche di recente «leggevo soprattutto francesi».»

(Giovanni Macchia, Montale e la donna salvatrice. Questo articolo e quello successivo del 7 febbraio vennero ripresi nel saggio La Bufera o il romanzo di Clizia, pubblicato in Saggi italiani, Milano, Mondadori, 1983, p. 302-316, e poi in Il teatro delle passioni, Milano, Adelphi, 1993, p. 514-527).

Mafai (1996)

«Un dedalo di strade si dirama da qui portando verso belle chiese che nessuno visita più e verso il Ghetto: uno spicchio di Roma dove, tra palazzi pericolanti stretti dentro impalcature arrugginite, i bambini corrono gridando e vecchie donne, dietro i bianchi delle mercerie, mettono in ordine nastri, fettucce, passamanerie e bottoni. A un angolo, sulla destra, c'è il bel Palazzo Caetani, di fronte al quale sostano, nel tiepido sole invernale di Roma, ragazzi e ragazze che frequentano la scuola americana o la biblioteca di Storia moderna

(Miriam Mafai, Botteghe Oscure, addio: com'eravamo comunisti, p. 5).

Mafai (2002)

«Mi chiedi qualcosa sull'inizio... L'inizio fu molto bello, per me. Ho 'incontrato' il Partito comunista a Roma, nel settembre 1943, alla Biblioteca Nazionale che allora stava nell'antico palazzo che ospita oggi il ministero dei Beni Culturali. Ne ricordo i saloni in eterna penombra, il silenzio, i lunghi tavoli con le lampade dai paralumi verdi. Frequentavo la biblioteca assieme a mia sorella Simona: io avevo diciassette anni e lei quindici. Lì abbiamo conosciuto alcuni studenti universitari già collegati con il Pci. Così è cominciata una storia che ci ha segnato per tutta la vita.»

(Miriam Mafai, Miriam Mafai a Vittorio Foa, p. 20).

Mafai (2012a)

«Roma era allora per noi un villaggio che potevamo attraversare a piedi, dai prati brulli di Castro Pretorio, dove non era raro veder brucare le pecore e si andava costruendo la nuova università, fino a via Montebello dov'era la nostra scuola elementare intitolata a Enrico Pestalozzi e, lì all'angolo, una cartoleria ricca di colori Giotto e di quaderni a righe. Sempre accompagnate, potevamo arrivare fino a via Volturno per comperare, all'edicola, il «Corrierino dei piccoli», e fare una breve passeggiata davanti alla stazione, luogo misterioso e affascinante, sul cui frontone spiccava un gigantesco orologio. Alle volte, con mio padre, arrivavamo fino alla piazza dove le Naiadi oscenamente abbracciate ai cigni lanciavano in alto spruzzi d'acqua, poi ci inoltravamo lungo via Nazionale, con un paio di grandi alberghi, bar eleganti e belle vetrine di tappeti, vestiti, profumi. All'altezza del Traforo, subito dopo l'imponente Palazzo delle Esposizioni, la nostra passeggiata finiva.
Da lì mio padre proseguiva da solo per raggiungere, a Palazzo Venezia, un suo vecchio amico, Nino Santangelo, che, lo sguardo affettuoso dietro i grandi occhiali da miope, gli metteva a disposizione i volumi e le riviste della Biblioteca di Storia dell'Arte che dirigeva.
«Chi di noi allora sapeva di Goya, Bruegel e Piero se non attraverso qualche riproduzione?» annotava mio padre. «E poi la pittura moderna: un vero giardino di delizie. È qui che trovammo Chagall e Kokoschka, è qui che entrammo in contatto con la pittura di Parigi...».
Ma noi non eravamo autorizzate ad arrivare fin là, tanto meno a entrare in biblioteca. All'altezza del Traforo noi sorelle tornavamo indietro seguendo svogliate la cameriera di nonna che ci aveva accompagnate.»

(Miriam Mafai, Una vita, quasi due, p. 30-32).

Mafai (2012b)

«Per affrontare un esame di riparazione di greco, in mancanza di un testo che avevo lasciato a Genova, avevo deciso di frequentare, con mia sorella Simona, la Biblioteca Nazionale che aveva sede allora nel palazzo del Collegio Romano che, istituito a suo tempo da Ignazio di Loyola come luogo di formazione dei gesuiti, ospitava ormai, da quasi cento anni, il liceo Visconti, che divideva allora, con il Tasso, il titolo di migliore liceo classico della città. Mia sorella ed io decidemmo dunque di passare le nostre giornate in biblioteca, io per recuperare il mio ritardo di greco, lei per leggere e studiare un libro di Labriola che pare avesse, in appendice, il Manifesto dei comunisti. (Lo aveva, effettivamente, e mia sorella lo studiò con diligenza).
La Biblioteca Nazionale era, ed è rimasta per me indimenticabile, un luogo straordinario, di silenzio e di studio. Ne ricordo l'ingresso con il banco per le richieste dei libri, e subito dopo le sale riservate alla lettura con i lunghi tavoli di legno scuro, le lampade con l'abat-jour verde, tante giovani teste chinate sui libri. Per fumare si usciva sul pianerottolo, davanti a un finestrone che affacciava sul cortile interno del liceo.
E fu lì che incontrammo il primo comunista della nostra vita: un giovane colto elegante e presuntuoso che amava i libri (scoprimmo che stava leggendo Malraux) e ancor più il cinema. “Sapete chi è Luchino Visconti?” ci chiese con una punta di ironia e di arroganza, Noi rispondemmo di sì. Incoraggiato dalla nostra evidente simpatia e curiosità, ci confidò di essere un suo collaboratore. Noi non gli credemmo. Ma era vero, quel giovane biondo, che si chiamava Rinaldo Ricci, aveva anche le chiavi della casa di Visconti, un villino sulla Salaria, dove poteva ricevere talvolta i suoi amici e le sue amiche. Ci rivedemmo nei giorni successivi sempre davanti al finestrone del secondo piano dalla Biblioteca Nazionale. Era comunista, ci confidò, ma non era autorizzato a farci entrare nell'organizzazione. Tuttavia conosceva qualcuno che avrebbe potuto farlo, se volevamo. Fu così che entrammo in contatto con Rodolfo Coari. Mia sorella Simona ed io lo incontrammo da Giolitti, via degli Uffici del Vicario, esattamente dove sta ancora adesso, davanti a una tazza di finta cioccolata fumante. Non ricordo cosa ci chiese, né cosa gli dicemmo, né cosa ci disse lui, ma da allora sia io che mia sorella fummo considerate iscritte al Pci.»

(Miriam Mafai, Una vita, quasi due, p. 63-64)

Magris (2016)

«La prima volta in cui ho visto una vera Biblioteca è stata un’impressione inappellabile. La Biblioteca Classense di Ravenna, nel 1948. Avevo nove anni e con i miei genitori eravamo andati a trovare mio zio Virgilio, fratello di mio padre e allora Prefetto di Ravenna (che non aveva autorizzato un comizio elettorale di mio padre, repubblicano, perché non voleva che lo stesso cognome accomunasse il rappresentante dello Stato a un uomo di parte).
A farci da guida nella Biblioteca Classense era Manara Valgimigli, il grande filologo, traduttore e studioso della grecità che aveva coperto cattedre prestigiose ma la cui passione più profonda erano i libri, la Biblioteca. Illustrati dalla sua sanguigna e bonaria sapienza di romagnolo – cui la familiarità con Persefone e le tragedie greche da lui mirabilmente tradotte non toglieva il gusto di vivere e l’amabilità, consapevole ma non succube del nulla – quei libri, quegli scaffali, quei meandri non mi sembrarono un’inquietante ossessiva muraglia ma piuttosto una foresta grande e, anche nella sua ombra, protettrice. Forse già allora intuii sia pur vagamente che si potevano amare i libri senza diventarne, come Raskol’nikov in Delitto e castigo, vittima. I libri potevano essere fratelli, sebbene maggiori e tanto più ricchi d’esperienza e d’intelligenza, e non necessariamente padri o profeti tirannici.
[...] Il suo umanesimo è esperto di tragedia, ma non sopraffatto da essa; lo sguardo pietrificante della Medusa non spegne il sorriso affettuosamente canzonatorio col quale Valgimigli, leggendo le lettere di Byron alla sua amante Teresa Guiccioli conservate alla Classense, prende garbatamente in giro quello e tanti altri famosi epistolari d’amore, che gli sembrano ricopiati da un segretario galante, e depreca che non siano finiti nel fuoco, rogo antico o termosifone moderno.»

(Claudio Magris, I libri sono fratelli maggiori, «Corriere della sera», 141, n. 289 (4 dic. 2016), p. 35).