LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

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Risultati della ricerca

Labriola (1888-1899)

«Desidero inoltre che mi diciate quali delle opere di Giordano Bruno si trovano nelle edizioni originali nelle varie biblioteche di Napoli. [...]
Sapreste voi dirmi se la ristampa del Daelli abbracci tutte le opere italiane della edizione Wagner: ed a Napoli, dove c'è più libri vecchi che in qualunque altra città d'Italia, sareste buono di ripescarmi tutti i volumetti della ristampa Daelli?»
(Antonio Labriola, lettera a Benedetto Croce, Roma 21 febbraio [1888], p. 29).

«Non sareste buono di ripescare in Napoli (e anche fra i libri di D. Bertrando [Spaventa]) la vita di Bruno del Bartholmèss e l'edizione del Wagner? Questi due libri si trovano qui nelle biblioteche, ma io ho bisogno di averli di mio.»
(Antonio Labriola, lettera a Benedetto Croce, Roma 28 febbraio [1888], p. 30).

«Inoltre fatemi il favore di prestarmi di nuovo il Bernheim. Ne ho bisogno e qui non si trova in nessuna biblioteca.»
(Antonio Labriola, lettera a Benedetto Croce, [Roma] 17 marzo 1895, p. 64. La richiesta si riferisce a Ernst Bernheim, Lehrbuch der historischen Methode: mit Nachweis der wicktigsten Quellen und Hülfsmittel zum Studium der Geschichte, 2. völlig durchgearbeitete und vermehrte Auflage, Leipzig, Duncker & Humblot, 1894).

«Quel signorino [Arturo Labriola] ha fatto chiedere alle Biblioteche di qui, proprio ora, quei libri della scuola austriaca, scrivendo ad un amico che in Napoli sono irreperibili.»
(Antonio Labriola, lettera a Benedetto Croce, [Roma] 16 febbraio 1896, p. 98).

«Procurami, se è possibile, un Dante edizione Lubin Padova (anno?) fra il 76 e l'80 – che qui non si trova in nessuna Biblioteca.»
(Antonio Labriola, lettera a Benedetto Croce, Roma [8 dicembre 1896], p. 173. La richiesta si riferisce a: Commedia di Dante Allighieri, preceduta dalla vita e da studi preparatori illustrativi, esposta e commentata da Antonio Lubin, Padova, Penada, 1881).

«Come puoi immaginare – e non occorre te lo ripeta – la mia gratitudine verso di te è infinita. Io cerco invano il Dante di Lubin. Pare incredibile. A cosa ci sono a fare le Biblioteche?»
(Antonio Labriola, lettera a Benedetto Croce, [Roma] 24 dicembre [1896], p. 186).

«Fammi un favore. Il libro anonimo Charlotte Korday, Ein Versuch, scritto il 1793, pubblicato il 1794 (Altona? – non porta veramente indicazione di luogo) è irreperibile. È generalmente citato come opera di un Klause (che non è mai esistito – pare) perché reca questa firma (pseudonimo?) nella prefazione del 26 ottobre 1793 – Verifica scrupolosamente alla Nazionale, dove tanti anni fa io vidi ammucchiati mille e mille volumi appartenuti alla Regina Carolina.»
(Antonio Labriola, lettera a Benedetto Croce, [Roma] 23 [febbraio 1897], p. 198).

«Dunque deciditi a destarti dal tuo letargo, e rispondi coraggiosamente alla voce del dovere sociale – che è il divenire. Ma io dubito forte che tu vorrai rispondere nemmeno alla voce mia... giacché in tre mesi non ti sei risoluto a vedere se alla Nazionale c'è quel tale anonimo su Carlotta Corday. O che ti cominciasse a venire in uggia la ricerca dei libri? Io considererei quel giorno come un bellissimo avvenimento — ma prima che tu entri in questa nuova epoca storica fa quest'ultima ricerca per me, e dopo ti permetto di essere antibibliomane come sei già antiletterato.»
(Antonio Labriola, lettera a Benedetto Croce, Roma 12 aprile 1897, p. 205).

«Il libro s'intitola, Carlotte Korday [!], Ein Versuch, Altona 1794 – La prefazione reca la data del 26 ottobre 1793, con l'aggiunta «Klause». Di qui è nata l'opinione che ci fosse uno scrittore Klause. Questa è la primissima biografia della Cordai [!].»
(Antonio Labriola, lettera a Benedetto Croce, [Roma 18 aprile 1897], p. 211).

«Mandami, se l'hai, quel fascicolo della «Revue de Metaphysique». Qui non giunge a nessuna biblioteca.»
(Antonio Labriola, lettera a Benedetto Croce, Roma 2 aprile 1899, p. 328. La richiesta si riferisce al fascicolo della «Revue de métaphysique et de morale», 7, n. 2 (mars 1899), che conteneva l'articolo di Georges Sorel, Y a-t-il de l'utopie dans le marxisme?).

Laiatico (1945)

«Discendere quella diecina di scalini che dalla prima parte della sala conducono al grande salone centrale (tempio, cenacolo) significa entrare in un mondo sommerso, penetrare in una vita fuor del tempo, rifugiarsi in una specie di oasi di silenzio ove si ritrova beatamente la sicurezza di un lavoro senza interruzione, senza distrazione; significa scendere nelle profondità dell’io, valorizzare al massimo ogni possibilità lavorativa e cerebrale: perchè c’è in sala A. della Biblioteca Vittorio Emanuele di Roma un fluido positivo: una specie d’euforia intellettiva aleggia nel silenzio che fascia «una popolazione» raccolta e felice, curva sul proprio lavoro, immemore d’ogni altra realtà, distaccata ed assente dalla vita di fuori. Negli anni di guerra e di lotta Sala A. accoglieva con la più sicura certezza di incolumità tutti gli intellettuali politici braccati per tutta Italia: Franco Antonicelli e Luigi Salvatorelli vi lavoravano in perfetta serenità e qualche ufficiale tedesco, alla vigilia della fuga da Roma, vi rileggeva Byron e Goethe e le inevitabili spie diventavano angeliche scendendo i 10 gradini magici.
Nessun rumore esterno arriva preciso nella sala: le grandi finestre circondate di vite vergine danno su di un giardino chiuso e un poco spettinato dove una fontanella accenna la romantica canzone dell’acqua. I «contradaioli» di sala A. si conoscono, e si ignorano, paurosi di disperdere, anche con un saluto affrettato, con una breve sosta su altri argomenti, il filo delle idee. I posti sono segnati da una tradizionale rispetto, da una tacita solidarietà: chi oserebbe andare a scrivere nel banco di fondo a destra ove passa le sue giornate Maffio Maffi, o al posto di Maria Bellonci, riparato e raccolto? Le spalle volte alla seconda finestra, da quanti anni abbiamo ostinatamente cercato nello studio il mezzo per arrivare alla serenità interiore? E forse non soltanto l’attività dello spirito ma, siamo certe, la preziosa atmosfera di sala A. ci ha dato nei giorni più neri, il senso di una pace vietata, la promessa di un’intangibile armonia stratosferica: qualcosa che somigliava ad una costante preghiera.».

(G.[abriella] L.[aiatico], Sala “A”, p. 11; situata al secondo piano dell’allora sede del Collegio romano, la Sala A della Biblioteca nazionale di Roma era riservata a professori universitari e studiosi, ed ospitava circa 22.000 volumi a scaffale aperto suddivisi per materie. La sigla con la quale è firmato l’articolo è attribuibile a Gabriella Laiatico (o Lajatico), titolare della rubrica Donna; si ringrazia Marcello Ciocchetti per la segnalazione dell’articolo e l’attribuzione all’autrice).

Lancellotti (1938)

«Da Settignano [D’Annunzio] si staccava raramente, immerso com’era nel lavoro, per qualche breve gita. In un dopo pranzo del Giugno 1909, sopra una elegante automobile, giungeva solo alla Badia di Montecassino per visitarne la ricchissima biblioteca e gli archivi. Ma non intendeva farsi riconoscere, e in foresteria, quando gli fu presentato il registro dei visitatori, si firmò «Gentile d’Alberga». Se non che la provenienza, il tipo, l’eleganza, lo avevano già reso sospetto. La calligrafia, inconfondibile, lo tradì completamente. «Ma non è lei il sommo d’Annunzio?» arrischiò un professore. Ed egli, pronto: «Io quall’alta cima? Ma loro sognano!». Volle visitare ogni cosa, ammirò tutto e la sera stessa ripartì lasciando in quei monaci napoletani largo campo di pettegolezzi «ncoppa 'a pazzia e 'a superbia d''o poeta».».

(Arturo Lancellotti, D'Annunzio nella luce di domani, p. 132).

Landolfi (1953)

«Il pomeriggio d'agosto regnava incontrastato la Biblioteca di Facoltà dell'Ateneo fiorentino. I bibliotecari, tra cui uno con lunga barba nera, boccheggiavano là in fondo; il paio di lettori e la lettrice sparsi per la sala in languide pose, non si capiva bene se sonnecchiassero o fossero stati assunti in beato stupore. Poi c'ero io stesso, studente in quei felici giorni, che, non tanto per prepararmi a un vicino esame (tali non furono mai le mie preoccupazioni) quanto nel vano tentativo di scacciare la noia, mi andavo di poco in poco azzufficchiando con certo testo da fare accapponar la pelle. Ed ecco, a un tratto, mi sentii saltare addosso qualcosa. Conoscevo questo qualcosa e lo temevo. Era come una voglia di stiracchiarsi, di respirare una boccata d'aria libera, magari di fare un malestro; era infine esso medesimo un malo estro, che in generale mi prendeva appunto in qualche pomeriggio d'agosto. Per dirla in breve, questa volta pensai: Far l'occhiolino all'unica ragazza presente, non ci so veder costrutto, tanto ella è occhialuta. Invece una partita a qualche buon gioco d'azzardo farebbe forse al mio caso e della mia noia.
Ma una partita: e con chi? I due o tre lettori, studenti come me, tolta la loro mutria e il loro miserabile aspetto, stavano già raccattando le scartoffie per andarsene. Aria più umana avevano i bibliotecari, che erano del resto i soli relitti dell'afa. Diavolo, i bibliotecari! E come convincerli alle mie voglie?
Ebbene, passiamo ora nella sala assira della medesima biblioteca. Nel mezzo, tra gli scaffali irti di testi, era, e forse è tuttora, un gran tavolo lucente. Sul quale io, avendo ormai insegnato il gioco del faraone ai bibliotecari, tenevo banco contro gli stessi. Ciascuno di noi aveva davanti a sé un mucchietto di denaro, e il gioco procedeva allegramente, con mio vantaggio. D'improvviso la porta a due battenti si spalancò con fracasso e un uomo alto, elegante e dallo sguardo gelido ci si presentò innanzi. Costui, che doveva aver usolato, era in persona il Segretario generale (o come si chiamasse) dell'Università, creatura temibile e misteriosa, appena intraveduta talvolta tra un uscio e l'altro. Consideratici un momento senza visibile sdegno, disse agghiacciante: «Lei è studente, vero? Mi dia il suo libretto. Per voialtri, sarà provveduto diversamente»; e voltosi senza più, scomparve a passi felpati pei meandri di quelle dotte sale.
Gli sconsigliati bibliotecari, rei di essersi lasciati infruscare dal cattivo arnese che firma qui in calce, furono in effetti sospesi per tre mesi dalle loro funzioni (e dal loro stipendio). Quanto a me, dopo la riapertura dei corsi passai alcune brutte settimane, in attesa di sanzioni che non potevo immaginare se non gravi. Infine mi si fece sapere pel bidello che dovevo passare dal Preside di Facoltà. Presso il quale mi recai, si può crederlo, col cuore ai piedi.»

(Tommaso Landolfi, Il faraone, in Opere, 1: 1937-1959, a cura di Idolina Landolfi, prefazione di Carlo Bo, Milano, Rizzoli, 1991, p. 821-822. La testimonianza, che fa riferimento alla biblioteca della Facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Firenze, è tratta dall’articolo Il faraone, uscito su «Il mondo» del 1° settembre 1953 e poi compreso nella raccolta Ombre, pubblicata per la prima volta con Vallecchi nel 1954. Il gioco del faraone è stato un gioco di carte molto popolare tra Sette e Ottocento).

Laurini (1897-1908)

«Rileggendo i miei scartafacci, in cui son notati gli appunti, che prendevo nei lunghi colloquii col De Sanctis, ho trovato che quando egli era esule in Piemonte ebbe una fiera polemica letteraria col [Francesco] Trinchera (credo, il lessicografo), il quale, trasceso in plateali impertinenze alla maniera napoletana, fu ridotto al silenzio dal nobilissimo silenzio dell’illustre critico, le cui risposte, che si possono trovare nei giornali di Torino del ’54 o del ’55, erano sennate e serene, degne d’un galantuomo. Vedi tu di procurarti codesti giornali. Scrivi a Torino o alla Biblioteca Vittorio Emanuele di Roma, ove si conservano, parmi, le collezioni di tutti i periodici del vecchio Piemonte. La polemica dové essere assai interessante.»
(Gerardo Laurini, lettera a Benedetto Croce, [Napoli] 20 maggio 1897, pp. 9-10).

 «Se non mi è dato vederti, converso però teco in ispirito, cioè leggo spesso la tua Critica nel liceo Genovesi. Ci trovo delle cose belle e sennate. L’ultimo tuo articolo sul Bonghi mi è piaciuto moltissimo.»
(Gerardo Laurini, lettera a Benedetto Croce, Napoli, 29 aprile 1908, p. 66).

Gerardo Laurini, ultimo e fedele discepolo di Francesco De Sanctis, ha intrattenuto un trentennale carteggio (dal 1889 al 1921) con Benedetto Croce. Il riferimento di Laurini al saggio di Croce è a: Ruggero Bonghi e la scuola moderata, «La Critica», 6 (1908), pp. 81-104.

Le Goff (1996)

«Piuttosto, la frequentazione del Vaticano fu preziosa per il mio lavoro di giovane storico. Avevo già amato le biblioteche dell’École normale di Parigi e del Carolinum di Praga e la superba Bodleiana di Oxford; ma a Roma avvertii più che mai – e fu questo il terzo motivo della mia felicità – il fascino delle biblioteche. A palazzo Farnese le nostre camere erano circondate (tranne che per la parete in cui si aprivano le finestre sulla piazza) dai locali della biblioteca. Questa era più ricca di opere sull’antichità che di opere sul medioevo, nonostante che uno dei direttori della Scuola fosse stato Émile Mâle; tuttavia mi forniva i manuali e le raccolte indispensabili per il mio lavoro. Vivere in mezzo ai libri mi piaceva molto: spesso mi accadeva, per essere stato alzato fino a tardi o per essermi svegliato di notte, di uscire dalla mia camera in pigiama per andare a prendere, a pochi passi di distanza, dei libri nei quali mi immergevo e che contribuirono a fare di me un lavoratore notturno. Ebbi poi accesso ai tesori dell’incomparabile Biblioteca Vaticana, aperta solo di mattina, il che ci lasciava liberi i pomeriggi e le serate per lavorare a palazzo Farnese o andare in giro per Roma. Con l’aiuto del padre Laurent e di monsignor Ruysschaert, che sarebbe diventato poi viceprefetto della Biblioteca, trovai nei libri e nei manoscritti della Vaticana alimento per avventure intellettuali che un medievalista non può vivere con uguale ricchezza e intensità in nessun altro luogo, neppure nella Bibliothèque Nationale di Parigi.
Ho conservato tanta nostalgia della Vaticana che una trentina d’anni dopo sono venuto per tre mesi a Roma a ultimare il mio libro La naissance du Purgatoire: non solo per godere ancora dell’ospitalità della Scuola francese – questa volta nello splendido annesso di piazza Navona, opportunamente acquistato nel 1975 –, ma soprattutto per riprendere ogni mattina la strada di quella straordinaria biblioteca.
Alla fine di ottobre del 1953, dopo le ultime settimane di lavoro e di passeggiate, lasciai il palazzo Farnese per un posto di ricercatore presso il Consiglio nazionale della ricerca scientifica di Parigi; e voltandomi indietro in via dei Baullari sentii, come non mi era mai avvenuto lasciando altre dimore, il mio cuore riempirsi di gratitudine per Roma e stringersi già di nostalgia.»

(Jacques Le Goff, Un «farnesiano» a Roma, in: «Hospes eras, civem te feci», p. 45-50: 49-50).

Leclercq (1993)

«L’esperienza romana in quegli anni in cui la cominciai, a partire dalla fine del 1933, era connotata proprio dalla personalità del papa allora regnante, come si usava dire. [...]
Verso la fine del mio terzo anno di teologia era venuto il momento di pensare a un argomento per la tesi di dottorato. [...]
Perciò durante il mio quarto anno, mentre preparavo l’esame di licenza, cominciai a consultare manoscritti di Giovanni di Parigi e di altri presso la Biblioteca Vaticana e nelle biblioteche di Roma. Lì passavo le mie mattinate libere e molti pomeriggi. Vi scoprivo tutto l’interesse che rivestiva la storia del tema della regalità di Cristo, dai primi secoli – e il mio primo articolo sull’argomento fu dedicato a san Giustino – fino all’enciclica Quas primas di Pio XI, di cui conoscevo a memoria alcune espressioni. [...]
Ma questo piacevole e utile otium cominciava a essere oscurato dai fatti che allora accadevano e dalle minacce sul futuro. Una campagna di stampa aveva preparato l’opinione pubblica alla conquista dell’Etiopia da parte dell’Italia. Dopo le prime e facili vittorie italiane, Pio XI benediceva pubblicamente questa politica di guerra. Dopo aver spinto per la decolonizzazione delle missioni, aveva imposto a quella parte d’Africa un episcopato che proveniva dalla potenza conquistatrice. Veniva proclamato un impero. [...]
Non avevo perduto tempo nel preparare esami che tuttavia passai con voti non eccezionali, ma sufficienti per conseguire prima il baccellierato e poi la licenza. La comune ambizione, considerata come normale, sarebbe stata quella di ottenere risultati più lodevoli. Ma a che pro? L’attrattiva dei manoscritti e delle biblioteche era più forte. Frequentare biblioteche pubbliche, compresa quella del Vaticano, era considerato come un fatto insolito, e anche pericoloso».
(Jean Leclercq, Di grazia in grazia: memorie, p. 32-36; presi i voti nel 1928 presso l'abbazia di Clervaux, Leclercq studiò dal 1933 al 1936 presso il Pontificio ateneo Sant'Anselmo di Roma).

Leopardi (1823)

«i bibliotecari sono così gelosi ed avari come ignoranti, e non permettono quasi a niuno l'uso degl'infiniti codici che si conservano in queste librerie»

(Giacomo Leopardi, lettera al padre, Roma 7 marzo 1823, vol. 1, p. 210)

Leopardi (1831-1837)

Era nel campo il conte Leccafondi,
Signor di Pesafumo e Stacciavento;
Topo raro a' suoi dì, che di profondi
Pensieri e di dottrina era un portento:
Leggi e stati sapea d'entrambi i mondi,
E giornali leggea più di dugento;
Al cui studio in sua patria aveva eretto,
Siccom'oggi diciamo, un gabinetto.

Gabinetto di pubblica lettura,
Con legge tal, che da giornali in fuore,
Libro non s'accogliesse in quelle mura,
Che di due fogli al più fosse maggiore;
Perché credea che sopra tal misura ·
Stender non si potesse uno scrittore
Appropriato ai bisogni universali
Politici, economici e morali.

(Giacomo Leopardi, Paralipomeni della Batracomiomachia)

Cfr. Luigi Crocetti, La biblioteconomia di G. P. Vieusseux, (Paperole), «Biblioteche oggi», 14 (1996), n. 9, p. 98-99.

Levi (1975a)

«Mi disse che lo stipendio offerto era soggetto a rapidi aumenti; che il laboratorio era moderno, attrezzato, spazioso; che esisteva in fabbrica una biblioteca con più di diecimila volumi [...].
L'indomani stesso mi licenziai dalle Cave, e mi trasferii a Milano [...].
Quanto alla biblioteca, le norme da rispettare erano singolarmente severe. Per nessun motivo era ammesso portare libri fuori della fabbrica: si potevano consultare solo col consenso della bibliotecaria, la signorina Paglietta. Sottolineare una parola, o anche solo fare un segno a penna o a matita, era una contravvenzione molto grave: la Paglietta era tenuta a controllare ogni volume, pagina per pagina, alla restituzione, e se trovava un segno, il volume doveva essere distrutto, e sostituito a spese del colpevole. Era proibito anche soltanto lasciare fra i fogli un segnalibro, o ripiegare l'angolo di una pagina: «qualcuno» avrebbe potuto ricavarne indizi sugli interessi e le attività della fabbrica, violarne insomma il segreto. [...]
Pochi giorni dopo la mia assunzione, il Commendatore mi chiamò in Direzione [...]. La prima cosa che dovevo fare, era di andare in biblioteca, a chiedere alla Paglietta il Kerrn, un trattato sul diabete: io conoscevo il tedesco, non è vero? Bene, cosí avrei potuto leggerlo nel testo originale, e non in una pessima traduzione francese che avevano fatta fare quelli di Basilea. [...] Che mi prendessi dunque il Kerrn e me lo leggessi con attenzione, poi ne avremmo riparlato insieme. [...]
La bibliotecaria, che non avevo mai vista prima, custodiva la biblioteca come lo avrebbe fatto un cane da pagliaio, uno di quei poveri cani che vengono deliberatamente resi cattivi a furia di catena e di fame; o meglio come il vecchio cobra sdentato, pallido per i secoli di tenebra, custodisce il tesoro del re nel Libro della Giungla. La Paglietta, poverina, era poco meno che un lusus naturae: era piccola, senza seno e senza fianchi, cerea, intristita e mostruosamente miope; portava occhiali talmente spessi e concavi che a guardarla di fronte i suoi occhi, di un celeste quasi bianco, sembravano lontanissimi, appiccicati in fondo al cranio. Dava l'impressione di non essere mai stata giovane, quantunque non avesse certo piú di trent'anni, e di essere nata lí, nell'ombra, in quel vago odore di muffa e di chiuso. Nessuno sapeva niente di lei, il Commendatore stesso ne parlava con insofferenza stizzita, e Giulia ammetteva di odiarla per istinto, senza sapere il perché, senza pietà, come la volpe odia il cane. Diceva che puzzava di naftalina e che aveva la faccia da stitica. La Paglietta mi chiese perché volevo proprio il Kerrn, volle vedere la mia carta d'identità, la scrutò con aria malevola, mi fece firmare un registro e mi abbandonò il volume con riluttanza.
Era un libro strano: difficilmente avrebbe potuto essere stato scritto e stampato altrove che nel Terzo Reich.»

(Primo Levi, Fosforo, in Il sistema periodico, p. 113-130: 114-123).

Levi (1975b)

«Appena mi fu possibile filai in biblioteca: intendo dire, alla venerabile biblioteca dell’Istituto Chimico dell’Università di Torino, a quel tempo impenetrabile agli infedeli come la Mecca, difficilmente penetrabile anche ai fedeli qual ero io. È da pensare che la Direzione seguisse il savio principio secondo cui è bene scoraggiare le arti e le scienze: solo chi fosse stato spinto da un assoluto bisogno, o da una passione travolgente, si sarebbe sottoposto di buon animo alle prove di abnegazione che venivano richieste per consultare i volumi. L’orario era breve ed irrazionale; l’illuminazione scarsa; gli indici in disordine; d’inverno, nessun riscaldamento; non sedie, ma sgabelli metallici scomodi e rumorosi; e finalmente, il bibliotecario era un tanghero incompetente, insolente e di una bruttezza invereconda, messo sulla soglia per atterrire col suo aspetto e col suo latrato i pretendenti all’ingresso. Ottenni di entrare, superai le prove, ed in primo luogo mi affrettai a rinfrescarmi la memoria sulla composizione e sulla struttura dell’allossana. [...]
Apersi con rispetto gli scaffali del Zentralblatt ed incominciai a consultarlo anno per anno. Giú il cappello davanti al Chemisches Zentralblatt: è la Rivista delle Riviste, quella che, da quando esiste la Chimica, riporta sotto forma di riassunto rabbiosamente conciso tutte le pubblicazioni d’argomento chimico che appaiono su tutte le riviste del mondo. Le prime annate sono smilzi volumetti di 300 o 400 pagine: oggi, ogni anno, ne vengono scodellati quattordici volumi di 1300 pagine ciascuno. È corredato da un maestoso indice per autori, uno per argomento, uno per formule, e ci puoi trovare fossili reverendi, quali le leggendarie memorie in cui il nostro padre Wöhler narra la prima sintesi organica, o Sainte-Claire Deville descrive il primo isolamento dell’alluminio metallico.
Dal Zentralblatt venni rimbalzato al Beilstein, altrettanto monumentale enciclopedia continuamente aggiornata in cui, come in un’anagrafe, viene descritto via via ogni nuovo composto, insieme con i suoi metodi di preparazione. [...]
Infatti, una successiva ricerca nei pulitissimi scaffali, odorosi di canfora, di cera e di secolari fatiche chimiche, mi insegnò che l’acido urico, scarsissimo negli escrementi dell’uomo e dei mammiferi, costituisce invece il 50 per cento degli escrementi degli uccelli, ed il 90 per cento degli escrementi dei rettili.»

(Primo Levi, Azoto, in Il sistema periodico, p. 168-187: 181-184).

Levi Della Vida (1954a)

«Uno studioso antifascista che consumava nell’augusta biblioteca apostolica vaticana gli ozi procuratigli dal regime coll’averlo rimosso dal suo posto di insegnante, e si guadagnava un pane sostanziale e soprasostanziale scartabellando vecchi manoscritti orientali, conobbe colà Alcide De Gasperi, il quale nel piano sottostante a quello della sala di studio era intento al lavoro assai meno gradevole di schedare libri per il catalogo. I due «banditi» non s’erano mai incontrati prima; e per quanto, negli otto anni di consuetudine quotidiana dal 1931 al 1939, non si incontrassero mai fuori dalle mura del vecchio edificio di Sisto V e anche entro a queste i loro colloqui fossero per lo più rapidi intermezzi nel ritmo uniforme del lavoro, pure si stabilì tra loro una viva simpatia e una salda amicizia, che il «bandito» del piano di sopra (lo si chiamerà d’ora innanzi l’orientalista per brevità) mantenne in cuore anche più tardi. [...]
Ma De Gasperi non ostentava le grandezze del passato nè lamentava le stranezze del presente. Rispettoso dei superiori senza finto ossequio, cordialmente affiatato coi colleghi senza pencolare nè verso il sussiego nè verso la familiarità, attendeva al suo ufficio colla scrupolosa e disciplinata puntualità cui doveva essersi assuefatto nelle scuole austriache. E di quella che era stata la sua vita e la sua azione politica non faceva mai parola.
Dopo la sua ascesa alla direzione del governo d’Italia, i suoi colleghi del catalogo andavano raccontando che le schede compilate da De Gasperi potevano servire di modello di come un catalogo non va fatto. Ma si trattava certo di uno scherzo bonario, senza ombra di malignità; giacchè se anche forse non tutti gli arcani della scienza bibliografica, imperscrutabili quasi quanto quelli della provvidenza, gli erano stati rivelati nel lungo tirocinio, non gli mancava certo nè l’intelligenza di comprenderli nè la buona volontà di applicarne le norme.
E quando, qualche anno più tardi, l’assunzione alla porpora del venerato prefetto della Vaticana portò De Gasperi al posto di segretario particolare del nuovo prefetto, egli attese alle inconsuete incombenze collo stesso zelo e la stessa semplicità di prima, non sdegnando di riempire e consegnare di sua mano le tessere d’ingresso ai frequentatori della biblioteca o di aprire ai visitatori la porta dell’ufficio del prefetto: signorilmente dignitoso, modesto senza affettazione come quando pazientemente copiava il frontespizio dei libri in arrivo. [...]
Lo stipendio che gli arrivava alla fine del mese non era lauto; eppure perfino quella modesta retribuzione gli era stata invidiata dalla rabbia degli avversari. Quando le relazioni tra la Santa Sede e Mussolini passarono un brutto quarto d’ora per via dei contrasti intorno all’Azione Cattolica e la stampa fascista si ritrovò all’improvviso un’anima anticlericale un giornale d’Italia rimbrottò duramente il Vaticano perchè accoglieva tra gli impiegati della sua biblioteca un miserabile relitto dell’antifascismo quale «il nominato De Gasperi». Al che l’Osservatore Romano, nel suo solito stile pacato, replicò soavemente che l’egregio confratello era in errore: consultasse pure l’organico della biblioteca, non vi avrebbe trovato il nome dell’onorevole De Gasperi. Il che era perfettamente esatto, poichè De Gasperi, in quanto avventizio, non figurava nei ruoli. E colui che era stato oggetto della polemichetta raccontava, ridendo, all’orientalista che un giornalucolo del suo Trentino aveva colto lietamente l’occasione per stampare un titolo su sei colonne: «De Gasperi l’inorganico».
Di politica non si parlava mai. Pareva quasi che nell’austero ambiente di studio l’uno e l’altro dei due amici avessero dimenticato di aver un tempo militato, l’uno da condottiero e l’altro da gregario, in una lotta che ambedue si dolevano di aver perduta, ma non si pentivano di aver combattuta. Ma che in De Gasperi non fosse spenta la passione politica l’orientalista lo riconobbe il giorno in cui quegli, con un sorriso di soddisfazione che gli illuminava il volto allampanato, venne a mostrargli un libro arrivato di fresco dalla Svizzera. Era l’autobiografia del socialista zurighese Fritz Brupbacher, che questi, ben sapendo che non sarebbe potuta penetrare in Italia, aveva avuto l’ingegnosa idea d’inviare in omaggio alla Vaticana perché almeno colà trovasse qualche lettore. Un’opera incendiaria fin dallo stesso titolo, che sonava «Sessant’anni di eresia», e altrettanto poco tenera per le Chiese costituite quanto per la società borghese e per le dittature di qua e di là dalle Alpi.
L’orientalista l’avrebbe volentieri letta subito, tanto più che aveva conosciuto di persona l’autore, ma De Gasperi gli disse che desiderava leggerla prima lui. E qualche giorno dopo gli riportò il libro, tutto quanto larderellato ai margini da vigorosi tratti di lapis nei punti di più attuale e più scottante contenuto politico. Guai se le gelose autorità della Vaticana si fossero accorte che le leggi rigorose intorno alla conservazione dei libri erano state sfacciatamente violate proprio da chi era chiamato a farle osservare! Chi sa che oggi, se qualcuno pensi a tirar fuori dagli scaffali quel volume impresso col segno dell’ardore segreto dell’uomo che più tardi ha tenuto in mano le sorti dell’Italia per così lungo e così fortunato periodo, esso non potrebbe trovar luogo tra i cimeli dell’insigne biblioteca...».
(Giorgio Levi Della Vida, Un cimelio da rintracciare negli scaffali della Vaticana, p. 3)

Sulla testimonianza si confronti: Paolo Vian, Un ebreo tra i monsignori: Giorgio Levi Della Vida in Biblioteca Vaticana (1931-1939), «Miscellanea Bibliothecae apostolicae Vaticanae», XXV (2019), pp. 525-590.

Levi Della Vida (1954b)

«Ma di un altro incontro quasi politico l’orientalista [Levi Della Vida] serba il ricordo commosso, nel quale alla cara memoria di De Gasperi si unisce quella, non meno cara, di Benedetto Croce. Se lo vide innanzi, nelle prime ore di una mattina del febbraio 1933, nella sala di studio [della Biblioteca Vaticana] ancora vuota: era venuto, per caso straordinario, a consultare un libro raro che non trovava altrove. Non era passata un’ora che dal piano del catalogo veniva su De Gasperi, seguito a breve intervallo, sbucata non si sa di dove, dalla fedele Maria Ortiz, che di recente era stata sbalestrata dalla direzione della Biblioteca nazionale di Napoli all’Universitaria di Roma soltanto, si diceva, per far dispetto a Croce.

Incontro con Croce
La conversazione a quattro si protrasse a lungo. Erano passati pochi giorni da quando Hitler era salito al potere, ed era ovvio che se ne parlasse con angosciosa preoccupazione. «E’ una bella fortuna per noi italiani» uscì a dire a un tratto Croce. De Gasperi e gli altri due lo guardarono trasecolati. «Ma sì – proseguì Croce, mentre ammiccava cogli occhietti lucidi e la faccia assumeva quell’aria sorniona che in lui preludeva immancabilmente a una facezia pungente –. Vi ricordate, quando eravamo più giovani, come ci seccavano colle continue esortazioni ad andare a scuola dai tedeschi per la scienza, per il metodo, per l’organizzazione... Ora, grazie al cielo, sono i tedeschi ad imparare da noi! E vedete quanto siamo fortunati; quando andavamo noi a imparare da loro, s’imparava dai migliori di loro; loro sono venuti a imparare dai peggiori dei nostri».
De Gasperi consentiva. Dovevano passare ancora molti anni pieni di tormento e di orrore prima che noi e i tedeschi ci si accordasse a riconoscere, e in gran parte anche per opera di lui, che tra gente di buona fede e di buona volontà si impara sempre reciprocamente.»
(Giorgio Levi Della Vida, Un cimelio da rintracciare negli scaffali della Vaticana, p. 3)

Nonostante Levi Della Vida indichi la data di febbraio, l'incontro con Croce, De Gasperi e la Ortiz avvenne in Vaticana il 28 aprile del 1933. A confermarlo è una nota dei Taccuini di Croce, dove leggiamo: «Sono stato alla Biblioteca Vaticana per confrontare alcuni manoscritti del Calenzio. Riveduti De Gasperi, Levi della Vida e la Ortiz» (v. 3, p. 371). Già dal 1932, Croce aveva in preparazione l'edizione di un carme del poeta Eloisio Calenzio, poi pubblicata a Napoli nel 1933 con il titolo Un’elegia giocosa di Elisio Calenzio: ristampa dalla unica edizione del MDIII. In Vaticana Croce collazionò il manoscritto (Vat. lat. 2833) sul quale era stata approntata l'edizione delle opere di Calenzio pubblicata a Roma nel 1533.
Per i particolari sul lavoro di edizione di Croce sul carme di Calenzio, si veda: Maria Panetta, Un’elegia giocosa di Elisio Calenzio: le “correzioncelle” dell’edizione Croce e la rinnovata fortuna del poeta, «Diacritica», a. I, fasc. 4 (25 agosto 2015), pp. 13-19. 

Levi Della Vida (1966a)

«A malincuore o no che si fosse trasferito nella dimora degli Orsini, don Leone [Caetani] vi poté allogare la sua grande biblioteca con maggior dignità e maggior comodità che non avesse sotto le travature del tetto in via delle Botteghe Oscure. Tuttavia i libri non rimasero a lungo nell’ampio salone che li aveva accolti: appena qualche anno dopo (non ricordo la data con precisione) attraversarono il Tevere ed entrarono a palazzo Corsini in via della Lungara, sede dell’Accademia dei Lincei, e colà rimasero.
Da tempo l’autore degli Annali dell’Islam vagheggiava l’idea di dare assetto stabile e di assicurare un avvenire vitale alla grandiosa impresa iniziata in gioventù, e alle soglie della vecchiaia, ancora lontana dalla conclusione: una fondazione autonoma dotata di mezzi finanziari sufficienti ad assicurarne il mantenimento e il funzionamento avrebbe continuato a percorrere, nei modi e nelle dimensioni adeguati alle capacità e ai gusti di coloro che fossero per esserli preposti, la via segnata dal fondatore, sia conducendone a termine i lavori incompiuti, sia (alternativa da prevedersi più frequentemente scelta) fornendo a questi sussidi di materiali e d’indagini colla pubblicazione di testi inediti e di monografie originali relativi a questo o a quell’aspetto della vasta e molteplice civiltà dell’Islam. Nucleo della Fondazione Caetani per gli Studi Islamici sarebbe stata la biblioteca, sua ospite e patrona l’illustre accademia iniziata da Federico Cesi che aveva coltivato lui stesso agli studi arabi al principio del secolo decimosettimo; sue disponibilità finanziarie quelle fornite dal fondatore in vita e, dopo, dal reddito di una cospicua dotazione che egli le avrebbe assegnata per testamento.
Se nel compiere così per tempo il primo passo per dare una vita almeno embrionale alla sua fondazione (l’atto di costituzione è del 6 gennaio 1924) Caetani nutrisse già il proposito segreto di staccarsi anche fisicamente dai suoi libri (fossero suoi in quanto posseduti o in quanto composti da lui), non sono in grado di affermare, benché più volte me ne sia venuto il sospetto. Certo è che durante alquanto tempo passò gran parte della giornata nei nuovi locali della biblioteca a palazzo Corsini, ancora assorto (in apparenza almeno) nel consueto lavoro scientifico; e finì addirittura col prender dimora stabile nelle vicinanze, in un villino a mezza costa dal Gianicolo, separato dalla moglie e dal figlio.»
(Giorgio Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, pp. 63-64)

Levi Della Vida (1966b)

«Quando mi accade (e mi accade piuttosto spesso) di pensare a colui che considero mio maestro [Leone Caetani], sotto il cui tetto e dietro il cui esempio si è maturato il mio ingegno, che ho amato e dal quale sono stato amato molto più che l’uno abbia mai detto all’altro, mi si stringe il cuore in un’amarezza sconfortata. Veramente, così come affermava nell’addio rivoltomi un anno e tre quarti prima di morire, la sua vita, nella quale per molti anni beni materiali, alte doti intellettuali, dirittura morale parevano unirsi armoniosamente per dargli felicità e gloria, è finita con un fallimento completo. [...]
La Fondazione Caetani per gli Studi Islamici [...], esiste sì, ma purtroppo sulla carta soltanto: dopo un primo anno di modesta attività, nel lontano 1927, l’aiuto finanziario che sarebbe dovuto giungerle dal fondatore durante l’intera sua vita venne meno; e non venne mai, lui morto, la dotazione promessa; la biblioteca è ancora presso a poco quella che era stata a mia disposizione mezzo secolo fa, giacché da quasi quarant’anni non si acquistano libri: e si sa bene che i fondi librari non aggiornati vanno gradualmente perdendo di valore. Nelle due sale (per vero alquanto scomode) che ospitano la Fondazione a palazzo Corsini un visitatore attento e curioso rintraccerebbe, oltre agli stampati e ai manoscritti orientali originali o riprodotti, migliaia e migliaia di schede e di appunti nella scrittura ordinata e regolare di Caetani, testimonianza di una lunga amorosa fatica della quale chi la sostenne non ha raccolto il frutto e che gli epigoni lasciano isterilire.»
(Giorgio Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, pp. 70-71)