LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

N.B. La casella di ricerca qui sotto opera soltanto sul titolo della testimonianza (di norma, cognome dell'autore e anno).
Per testimonianze relative a singole biblioteche vedi l'Indice delle biblioteche, per quelle di/su singole persone vedi l'Indice delle persone, per quelle relative alle biblioteche di una singola località vedi l'Indice delle città.
Per fare ricerche sulle parole delle testimonianze usare la casella Cerca nella barra in alto a destra.

Risultati della ricerca

Guccini (2010b)

«In città, a Modena, un po' più adulto, scoprii la Biblioteca Estense, e la sua confortevole sala di lettura. Non fu l'amore per la scienza a spingermi lì, a piazza Sant'Agostino. C'è da dire che chi "faceva cabò" (in lingua: marinava la scuola) d'inverno, e non aveva denaro a sufficienza per posteggiarsi in un bar a giocare a biliardo, doveva in qualche modo ripararsi dalle inclementi intemperie e là, nella sala di lettura, c'era caldo e libri da leggere e da guardare, senza la noia di dover chiedere a qualcuno. C'erano scaffali che potevi liberamente consultare, l'innovazione era grande, senza chiedere a nessuno di alzarsi, andare a cercare il libro, ritornare al posto, leggere.
Tre furono soprattutto i libri che la tendenza generazionale ci spinse a cercare, una Storia del Jazz, con i misteri della scala pentatonica e delle note blues, poi Spoon River e le poesie di Federico García Lorca. Si ignorava naturalmente tutto di Edgar Lee Masters e dello spagnolo, ma ci piacevano i loro versi, al punto da impararli a memoria, come la formazione degli Hot Five e degli Hot Seven di Armstrong, e ci compiacevamo di citare, alle ragazzine sicuramente annoiate, i nomi di Louis Armstrong, Jack Teagarden, Kid Ory e altri che a noi rimbalzavano nella fantasia, poi declamare "A las cinco de la tarde, eran la cinco en punto de la tarde. Un niño trajo la blanca sábana. Una espuerta de cal ya prevenida. Lo demás era muerte y sólo muerte...", martellati da quel "a las cinco de la tarde" che Arnoldo Foà declamava così bene in un disco posseduto dai più fortunati di noi. Per concludere, naturalmente, col dire che: "Tutti dormono, dormono, dormono sulla collina".»
(Francesco Guccini, Non so che viso avesse, p. 100-101. Potrebbe riferirsi alla Storia del jazz di Marshall W. Stearns, uscita nel 1957 ma che non risulta nel catalogo dell'Estense, o a Il mondo del jazz di Livio Cerri, uscito nel 1958 e posseduto dalla Biblioteca. La testimonianza segue direttamente quella sugli anni precedenti e continua con ricordi di Bologna).

«La via Emilia partiva, come minimo, a est, dal ponte di Sant'Ambrogio, si spingeva verso il centro, lo attraversava fiancheggiando la Ghirlandina, e arriva[va] a piazza Sant'Agostino, dove la città moriva (e mi piace ricordarla agonizzante nei tramonti rossoviola primaverili-estivi) avendo, da un lato la Biblioteca Estense, e dall'altro l'Ospedale.»
(ivi).

«D'inverno ci rifugiavamo alla Biblioteca Estense, dove c'erano caldo e molti libri di pronta lettura. A pensarci bene, credo fossimo gli unici studenti al mondo che saltavano le lezioni per rintanarsi in biblioteca a leggere poesie. I nostri due grandi amori erano Edgar Lee Masters e García Lorca. Ogni tanto interrompevamo per ripassare la storia del jazz, ovvero di quella che consideravamo allora l'unica vera musica.»
(Francesco GucciniUn altro giorno è andato: Francesco Guccini si racconta a Massimo Cotto, Firenze, Giunti, 1999, p. 29).

«La mia prima biblioteca è stata l'Estense di Modena, nella cui bellissima sala di lettura noi, che facevamo "fughino" d'inverno, passavamo intere mattinate. Ricordo con precisione cosa leggevamo: Edgar Lee Masters, che allora era di gran moda, storie del jazz. Molti di quella generazione erano legati al jazz [...]. Una volta, colto da curiosità, chiesi anche il Corano, con testo a fronte, naturalmente.»
(Rino Pensato, L'Eden è una biblioteca di libri non letti: libri e biblioteche nella realtà e nell'immaginario di Francesco Guccini, cantautore, scrittore, ma soprattutto lettore [intervista], «Biblioteche oggi», 11 (1993), n. 2, p. 54-59: 56).

Guccini (2010c)

«Altri anni e altre letture. A Bologna la biblioteca più frequentata negli anni Settanta fu quella della Johns Hopkins University, così più moderna rispetto all'Archiginnasio e informale come solo apparentemente gli americani sanno fare. Ci si poteva addirittura andare dentro con il caffè o la bibita, ci si poteva fumare (allora; si osasse adesso, si verrebbe linciati). Che bello scoprire che una biblioteca non era un temuto e claustrale luogo di pena dove diffidavano di te, molto restii nel consegnarti un libro, ma poteva anche avere piacevolezze mondane. Là ti prestavano i libri così, facile, con il solo dare il tuo nome, cognome e indirizzo, una pacchia sconosciuta alle più ringhianti biblioteche italiane. Si portavano a casa libri di colorati spartiti americani, e c'era in aggiunta la possibilità di incontrarli dal vivo, questi americani. Ma americane era meglio.»
(Francesco Guccini, Non so che viso avesse, p. 101).

«Un americano verace non lo incontravi tutti i santi giorni, se non quelli della Hopkins, ancora anco loro quasi tutti in giacca e cravatta, tu là a frequentare the Library dove, incredibile a dirsi, non solo potevi portar dentro cochecole ed altri generi di primo conforto ma ti permettevano anche di fumare le tue scarse paglie, una ceneriera per desco, cosa vietatissima nelle nostrali biblioteche, e allora a Cittanòva tutti i Giovani Leoni la conoscevano, la biblioteca dell'USIS (United States Information Service) un po' forse una succursale della CIA. Là ce n'erano a pacchi, di amerindi, ma non è che ti filassero tanto.»
(Francesco Guccini, Cittanòva blues: romanzo, Milano, Mondadori, 2003, p. 140).

«Ho un buon ricordo anche della biblioteca della Johns Hopkins University di Bologna, che frequentavo da studente, perché l'accesso era molto semplice, si prendevano i libri direttamente dagli scaffali e si portavano a casa esibendo soltanto un documento d'identità. Io amo le situazioni poco complicate e rilassanti [...].

E oggi, ti capita ancora spesso di entrare in qualche biblioteca?

A volte, ma non più come da ragazzo, quando la necessità di ricorrere alla biblioteca pubblica era anche di natura propriamente economica. Oggi, che non sono
ricco, ma almeno posso permettermi di comprare i libri che voglio e che mi servono, preferisco leggere e scrivere a casa mia».
(Rino Pensato, L'Eden è una biblioteca di libri non letti: libri e biblioteche nella realtà e nell'immaginario di Francesco Guccini, cantautore, scrittore, ma soprattutto lettore [intervista], «Biblioteche oggi», 11 (1993), n. 2, p. 54-59: 56).

Guccini-Macchiavelli (1998)

«Li accolse il fresco dell'Archiginnasio, il silenzio delle sue sale e il profumo dei libri.
Santovito non avrebbe saputo da dove cominciare e lasciò che se la cavasse Raffaella che ne sapeva più di lui. La ragazza prese il tagliando d'ingresso e fece segno a Santovito di seguirla. Trovò quasi subito la scheda nei cassettini dei vecchi mobili, schede vergate da una penna in un'elegante grafia in chiaroscuro, da chissà quanti anni. Compilò il tagliando con i dati della scheda, lo consegnò al bibliotecario e andò a sedere nelle antiche panche, sempre seguita da un Santovito silenzioso e quasi intimorito. Di tanto in tanto il passaggio di un tram per via del Pavaglione faceva vibrare i vetri delle enormi finestre. Per il resto, silenzio e caldo.
«Il Gozzadini» mormorò Raffaella «è stato fra i primi a impostare scientificamente lo scavo archeologico; di ogni tomba registrava le dimensioni ed eseguiva personalmente o faceva eseguire i disegni degli oggetti trovati... Vedrai. Scoprì la prima necropoli dell'età del ferro nella sua tenuta di Villanova, vicino a Bologna... Di là è venuto il termine di "civiltà villanoviana"...»
Si interruppe e si alzò per tornare al banco del prestito: il bibliotecario era appena rientrato in sala di consultazione con il grosso volume. Raffaella lo portò al tavolo, lo sfogliò rapidamente e si fermò alle belle illustrazioni.
«Stupefacente, sono identici, sono i gioielli che Stelio ha disegnato, non c'è dubbio!» mormorò.
«Sì, sono loro» e Santovito controllò il titolo di copertina: «Di un'antica necropoli nel Bolognese; 1865 l'anno di stampa».
«Ma come accidenti sono finiti fra le mani del Romitto e poi fra quelle di Stelio?» si chiese Raffaella.
Santovito tornò alle pagine disegnate e vi posò le mani come per accarezzare le riproduzioni: «Io credo proprio di saperlo» e sorrise a Raffaella che lo guardava sorpresa. Aggiunse, sempre sottovoce per non turbare il silenzio della sala: «Cioè, me lo immagino». Si alzò. «Vieni che andiamo a controllare».»

(Francesco Guccini - Loriano Macchiavelli, Un disco dei Platters, p. 284-285. Il romanzo è stato poi raccolto, con altri due, in Appennino di sangue).

Guccini-Macchiavelli (2002)

[Il maresciallo Santovito] «Passò in ufficio per fumare un sigaro prima di andare a letto a leggere qualche pagina del romanzo che teneva sul comodino. Prima di lasciare Bologna ne aveva comperati alcuni, non tanti perché sperava di non restare lontano troppo a lungo, in una biblioteca di via Galliera che, oltre ad essere biblioteca circolante, vendeva anche romanzi usati. Gli piaceva leggere, un piacere che gli aveva trasmesso suo padre.
Era arrivato al terzo capitolo di E adesso pover’uomo, di uno scrittore tedesco [Hans Fallada] che la libraia, un’anziana signora che accarezzava i libri prima di metterli nelle mani dei clienti, gli aveva consigliato perché «parlava di povera gente ed era pieno di sentimenti umani».»

(Francesco Guccini - Loriano Macchiavelli, Lo Spirito e altri briganti, p. 39-40).

Guerrieri (1963)

«In un angolo della vecchia Biblioteca Comunale di Catanzaro, al pianterreno del Palazzo del Municipio, presso una finestra, la figura di un vecchio signore dalla lunga barba, con un berretto in testa, una pipa in bocca, un plaid sulle ginocchia... Lì vicino un braciere, e, dall'altra parte, uno scaffale sulla cui fiancata era qualche fotografia eseguita con la tecnica di tanti anni fa. [...] E libri e libri, in mano al vecchio Signore e al suo interlocutore, sul muretto della finestra, oltreché in tutto l'ambiente oscuro, oppressivo, dagli scaffali lignei non sufficienti a contenere i volumi ad essi destinati, e con un grande tavolo a disposizione dei lettori. E libri anche nello sfondo di questa prima stanza della Biblioteca Comunale di Catanzaro, in altro ambiente che si raggiungeva scendendo qualche scalino e che ospitava anch'esso, ordinati sì, ma stretti, stretti negli scaffali altre raccolte di volumi...
Quando entrai per la prima volta in questa Biblioteca Calabrese vidi quel che sopra ho detto.
Il vecchio Signore era il Direttore della Biblioteca: cioè colui che l'aveva in realtà costituita e la reggeva con competenza e con amore, il Barone Filippo De Nobili, uomo tanto dotto e generoso con gli studiosi, amato e stimato, chiamato il Barone Dott. Filippo De Nobili solo nelle carte ufficiali, ma da tutti appellato più familiarmente, affettuosamente Don Pippo.
[...]
Analogamente del resto, egli volle una nuova sede per la sua Biblioteca, vi aspirò come ad un sogno che credette per lungo tempo non realizzabile [...], ma... come «Sua» Biblioteca, Don Pippo sentì sempre quella degli angusti locali che videro tutta l'opera sua; quel «suo angolo» dove pensava, dove esaminava i libri, donde li consigliava, dove trascorreva più ore in rievocazioni e commenti; egli intuiva che nella nuova sede ariosa, dall'arredamento metallico, dal grande magazzino a torre, con impianti moderni, non si sarebbe più ricostituito, non sarebbe più quello.»

(Guerriera Guerrieri, Un bibliotecario rimpianto, p. 75-76, 79-80).

Pippo De Nobili

Guerrini (1880)

«L'anno passato mentre facevo il mio tirocinio in biblioteca [universitaria di Bologna] per il bel sugo di prenderci cappello, capitarono due Tedeschi. Non parlavano nè francese, nè inglese, nè italiano. Io di tedesco ne masticavo allora meno che ora e non c'era modo di intenderci. Finalmente uno di loro, grande e cogli occhiali d'oro, disse: Marcus Tullius Cicero. Oh, il latino! Fu una idea luminosa, e cominciai a parlare la lingua di Cicerone con una eloquenza da fare arrossire il Vallauri. E la dicono una lingua morta! S'intende che in biblioteca non si porta l'abito di società. Il regolamento vuole che in un dato mese dell'anno si spolverino tutti i libri; operazione che richiederebbe parecchi mesi a farla bene, un personale numeroso e sopratutto il trasporto dei libri giù nel cortile, se no la polvere rimane in biblioteca. Il regolamento è furbo! Si fa dunque come si può e la polvere, si sa, non manca mai nelle biblioteche che sono chiamate appunto polverose. Ma la polvere dei libri sporca i panni ed ecco perchè si va vestiti alla meglio. Io poi andavo tanto alla meglio che molti visitatori, ai quali facevo da cicerone, allungavano la mano per regalarmi mezza lira; rifiutata s'intende con un gesto di pudicizia offesa degno d'esser fuso in bronzo.
I miei due tedeschi parlavano tra di loro in tedesco, e allor chi li capisce? S'entra nella sala dei manoscritti e domandano di vedere quel che c'è delle Epistole di Cicerone. Ne reco parecchi codici preziosi, quando quello dagli occhiali mi strizza l'occhio e mostrandomi un codicetto in pergamena mi dice nella più pura lingua del Lazio se glielo voglio vendere. Mehercule! dissi io: an te pudet, Germane... Chi sa che bella pagina di latino ha perduto la moderna letteratura! S'intende che i due Tedeschi se ne andarono scornati e il codice è ancora là, nel suo scaffale. Ma faccia conto che al mio posto ci fosse stato un povero diavolo carico di famiglia e di fame! Non c'è che stracciare una scheda e stender la mano ai marenghi. Dunque? Dunque, cosa strana, gli impiegati delle biblioteche non sono forse al loro posto, ma sono onesti.
Conclusione.
1. L'Italia è il paese che ha più biblioteche e meno bibliotecari.
2. Se ci sono ancora biblioteche in Italia, si deve alla fenomenale onestà degli impiegati retribuiti come tutti sanno.
3. Se si tira avanti così verrà il giorno che essendo le biblioteche italiane in Germania o in Inghilterra il bilancio risparmierà le paghe del personale.
4. Il Governo fa il suo dovere; nomina delle Commissioni.»

(Olindo Guerrini, Delle biblioteche, «Fanfulla della domenica», 2, n. 5 (1° feb. 1880), p. [3]. Ripubblicato, con piccole variazioni formali, in Olindo Guerrini (Lorenzo Stecchetti), Brani di vita, Bologna, Zanichelli, 1908 (stampa 1907), p. 60-62).

Guerrini (1905)

«Carissimo signore,
questa sera, dopo aver riempito un fascio di moduli, che sono le Note caratteristiche degli impiegati della R. Biblioteca, sentendomi abbastanza seccato da un lavoro tanto geniale, ho dato una capatina nella Sala delle riviste e mi è capitato in mano il fascicolo della Critica, dove Ella parla di me.
Prima di tutto, grazie. Ella parla con sincerità onesta e cortese, ed io ci sono tanto poco avvezzo che ripeto: grazie!
Ma il curioso è che Ella mi ha rivelato alcune parti del mio carattere di uomo e di scrittore, che io non vedevo così chiare, e, leggendo, dicevo: – Ha ragione!»

(Olindo Guerrini, lettera a Benedetto Croce, [Bologna 2 febbraio 1905], p. 23. Croce pubblicò in tre puntate, nei volumi XIII-XV della «Critica», lo scritto Dalle «Memorie di un critico», nel quale venivano commentate e pubblicate le lettere ricevute da numerosi scrittori via via che andava seguitando la pubblicazione della Letteratura della nuova Italia. Croce ripubblicò poi lo scritto in apertura del terzo volume delle Pagine sparse (Memorie, schizzi biografici e appunti storici, Napoli, Ricciardi, 1920, pp. 1-61). L’opera è stata poi ripubblicata in forma unitaria, per la cura di Emma Giammattei: Dalle memorie di un critico: con un’aggiunta di lettere inedite, Napoli, Fiorentino, 1993).

Guttuso (1991)

«Andavo a Palermo. Frequentavo il liceo. E frequentavo anche un gruppo di pittori futuristi della seconda ondata: Pippo Rizzo, Vittorio Corona e Giovanni Varvavo. Varvaro suonava il frecaletto, il piffero di canna. [...]
Era il '27. Venne a Palermo Marinetti. Lo conobbi con quei pittori. Leggevo molto. Avevo letto la storia della pittura moderna della Sarfatti, Cubismo futurismo e espressionismo di Corrado Pavolini, i libri di Soffici: erano i libri che potevo trovare in biblioteca. E guardavo la pittura solo attraverso le riproduzioni. Dipinsi due quadri nell'anno della terza liceo. Era il '30. Una spiaggia col mare e una palma, e un gruppo di donne alla fontana. Erano due quadri del gusto del Novecentismo: un po' di Carrà, un po' di De Chirico, sempre visti e studiati sulla carta stampata. Mandai quelle due tele alla prima Quadriennale romana. Vennero accettate. Arrivai a Roma il primo gennaio del '31.».
(Enzo SicilianoMa tu che libri hai letto?, p. 134-135; l'intervista è datata al 10 marzo 1973)

Hirschmann (1993)

«Racconto di Eugenio – oltre che di me – perché so che egli amava raccontare, l'avrebbe certamente fatto lui stesso, se non gli fosse capitato di morire. Ho la presunzione di saperne parlare meglio di altri, perché lui ed io avevamo ed abbiamo conservato fino alla fine una cosa in comune, anche se per tutto il resto la nostra convivenza, con il nostro continuo cercare e non trovare, è finita male. [...]
Ho conosciuto Eugenio Colorni nell'autunno del 1932 a Berlino, quando studiavo Hegel nella Staatsbibliothek. Si era messo a sedere vicino a me per due o tre volte nel grande emiciclo, e io avevo osservato che studiava Leibniz su enormi volumi antichi, prendendo appunti minuti e ordinati. Dopo qualche giorno egli mi fece qualche domandina scherzosa sui miei studi hegeliani, e interrompemmo le nostre letture per fare quattro passi insieme nel grande salone d'ingresso della biblioteca. Nel suo modo diretto espresse subito tre o quattro giudizi che si era formato su di me, osservandomi da vicino; non ne ricordo nessuno, ma qualcuno di essi probabilmente mi piacque o mi colpì. Si rise insieme e così ebbe inizio l'amicizia. Era allora lettore d'italiano presso il professor Erich Auerbach a Marburgo e veniva qualche volta a Berlino per completare i suoi studi leibniziani iniziati sotto la guida di Piero Martinetti a Milano. Dopo l'incontro alla Staatsbibliothek continuammo a vederci ogni tanto, anche se non così spesso quanto avrebbe voluto lui, e ci scrivemmo qualche volta tra Berlino e Marburgo.»

(Ursula Hirschmann, Noi senzapatria, p. 131-132).

Huetter (1963)

«Conobbi l’incomparabile e desideratissimo amico [Giuseppe De Luca] nel 1923, sicuramente in qualche stamperia o biblioteca; ma ogni circostanza di quell'incontro iniziale mi sfugge. [...]
Seguono otto lunghi anni d’ecclissi totale. Inesplicabili: i registri della memoria sono in proposito affatto immacolati di qualsiasi rimembranza. Ma un giorno d’estate del ‘33 il felice ritrovamento si verifica – occorre dirlo? – proprio in una biblioteca. Entro alla Casanatense, e presso i cataloghi mi scontro con un pretino occhialuto. Ci guardiamo: – Tu sei Huetter – Tu sei De Luca – Viemmi a trovare – Dove abiti?...»

(Gigi Huetter, «Concors» et «discors», la perfetta amicizia, in Don Giuseppe De Luca: ricordi e testimonianze, pp. 203-207: 203; il volume di ricordi su De Luca ebbe una prima edizione nel 1963 presso i tipi della Morcelliana, per poi essere ristampato nel 1998 in anastatica con le Edizioni di storia e letteratura)

Jedin (1963)

«Fonti di luce nel lavoro quotidiano costituivano per me le conversazioni con quanti condividevano i miei stessi sentimenti nella Biblioteca Vaticana, in quell’incomparabile luogo d’incontro della scienza internazionale, che a chiunque si nutra per qualche tempo dei suoi tesori diviene una patria spirituale. Tra gli spiriti affini, con i quali era possibile uno scambio di idee quasi quotidiano, figurava l’allora segretario della Biblioteca, Alcide De Gasperi, figuravano l’indimenticabile Auguste Pelzer, il piccolo mons. [Enrico] Carusi, e molti altri: figurava anche Giuseppe De Luca. Lo vidi e gli parlai la prima volta nella Biblioteca Vaticana, e ricordo ancora che l’occasione fu la sua recensione al mio Girolamo Seripando su Rinascita, ma non mi è dato rammentare l’anno, tanto meno il giorno di quel primo incontro.»

(Hubert Jedin, Incontri con don Giuseppe, in Don Giuseppe De Luca: ricordi e testimonianze, pp. 208-226: 219; il volume di ricordi su De Luca ebbe una prima edizione nel 1963 presso i tipi della Morcelliana, per poi essere ristampato nel 1998 in anastatica con le Edizioni di storia e letteratura).

Joyce (1906)

«I was today in the Biblioteca Vittorio Emanuele, looking up the account of the Vatican Council of 1870 which declared the infallibility of the Pope. Had not time to finish. Before the final proclamation many of the clerics left Rome as a protest. At the proclamation when the dogma was read out the Pope said ‘Is that all right, gents?’. All the gents said ‘Placet’ but two said ‘Non placet’. But the Pope ‘You be damned! Kissmearse! I’m infallible’.»

(James Joyce, lettera al fratello Stanislaus, Roma, 13 novembre 1906, in Letters of James Joyce, vol. II, p. 192)

«On 30 July 1906, Joyce, Nora and Giorgio set off for Rome. [...] They found a room at 52 via Frattina, close to the Spanish Steps, where the rent was high enough to make a serious hole in his salary.
The ghosts of Keats and Shelley hovered nearby. Keats had died at a house on the Steps, and on the via Corso was the house where Shelley had written The Cenci and Prometheus Unbound. Joyce showed little interest in Keats; apart from Shakespeare, Wordsworth and Byron, Shelley was the English poet to whom he gave ‘the highest palms’, so his spirits were lifted by the thought of treading in the footsteps of one so inspired. But, for him, Rome was less a place of literary pilgrimage than of religious fascination. [...] He attended services at St Peter’s, fascinated not by its architecture but by its priestly rituals. He also visited the Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele to examine the records of the 1870 Vatican Council which declared the infallibility of the Pope – a casual and empty decision, it seemed to him, embodying what he most hated: tyranny.»

(Gordon Bowker, James Joyce: a biography, London, Weidenfeld & Nicolson, 2011).

La Resistenza nelle biblioteche di Venezia (1950)

«Accanto alle scuole di Venezia non è possiible non ricordare le pubbliche Biblioteche.
La «Querini», diretta dal prof. Manlio Dazzi, fu un centro di antifascisti fin dal lontano 1924, cioè da quando l'oppressione si manifestò nella sua più piena padronanza e nel suo più feroce dispotismo.
La «Querini» non fece mai mancare ai suoi lettori le riviste che il Governo aveva escluso dalle biblioteche statali, e attraverso importanti periodici stranieri tenne sempre al corrente il pubblico veneziano dei movimenti politici e sociali esteri. Contrariamente agli ordini, la «Querini» non tolse dal suo schedario le schede delle opere ufficialmente probite.
Alla morte di Gobetti, questa Biblioteca acquistò in blocco tutte le sue opere e le sue edizioni nonchè i periodici, dalla vedova dello scomparso.
Le accuse ministeriali che qui vi fossero convegni di ebrei e di antifascisti, e quella di un impiegato che si volessero usare magazzini per deposito di armi, non rispondevano che a verità. Tutti i cospiratori ebbero nella «Querini» un centro di raccolta e di informazione, un centro di smistamento di periodici clandestini.
[...]
Alla «Marciana», e particolarmente nelle sale riservate, era un continuo andirivieni di cospiratori, alcuni dei quali vi avevano fatto il loro quartiere generale, col pretesto di compilare un manuale di storia o di filosofia.
E anche alla «Marciana» più di una volta entrarono i distinti signori della polizia, per scoprirvi questo o quel patriotta. Ma sempre invano.»

(La Resistenza nelle scuole e nelle biblioteche di Venezia, «Cronache veneziane», 2, n. 14 (23 apr. 1950), p. 13-14: 14).

Labriola (1873)

«Sul principio di gennaio p.p. v'inviai per la posta sotto fascia la copia del manoscritto della B. Nazionale contenente la corrispondenza fra il Seripando, il Flaminio, il Contareno etc. intorno alla grazia. Io allora contava che tutto al più per la fine di febbraio sarebbero state espletate le copie che mi avevate dato incarico di fare, e pensavo di rimettervi insieme alle copie stesse tutte le altre notizie che avevo raccolte. Ma l'uomo propone, e Dio dispone [...]. Messo nella impossibilità di rimanere più a Napoli, ho dovuto smetter casa, e ritirarmi in provincia per parecchi mesi.
Detti allora incarico ad una persona, che credevo capace e vogliosa di spendersi per me, di mettere assieme e di copiare le notizie che io avevo raccolte, e d'inviarvi i manoscritti quando fossero stati copiati. Nel caso che voi m'aveste onorato d'ulteriori incarichi, lo pregavo di rimettermi le vostre lettere.
Tornato qui a Napoli alla fine di luglio con mia grande maraviglia ho saputo che i manoscritti già copiati dormivano tranquillamente nelle due biblioteche, la Brancacciana e la Nazionale, e che a voi non s'era rimessa alcuna notizia. Ho raccapezzato quello che ho potuto di notizie raccolte, e ve le mando ora assieme ai manoscritti copiati.
Vi chiedo scusa, con quanta maggiore insistenza so e posso, della mia inadempienza, proceduta in gran parte da ragioni superiori alla mia volontà, alle quali ha concorso la negligenza altrui.
E vi prego anche che vogliate, in segno della indulgenza che mi userete, addebitarmi tutto quel lavoro che vi parrà. [...] Unisco a questa un elenco delle carte che mando sotto fascia ed in un plico*. [...]

* Elenco delle carte che si trasmettono
1°. Sotto fascia (raccomandata) tre copie di manoscritti, ossia:
Codice X, G. 3 (B. Na.) contenente: Le Lettere di S. Carlo Borromeo al Cardinal di Ferrara.
Codice X, D. 27 (B. Na.) contenente l'Apologia alla Relazione del Navagero.
Codice XI, G. 3 (B. Na.) contenente: Le Lettere scritte da S. Carlo Borromeo ai Legati in Francia.
2°. Sotto fascia (raccomandata) cinque copie di manoscritti della Biblioteca Brancacciana, ossia:
Cod. l. D. 15, contenente: Le Lettere del Vescovo di Caserta.
Cod. l. D. 14 (Volume 2. A. 34) le parti 2, 4, 21, 22.
3°. In un plico diversi fogli contenenti indicazioni, descrizioni, e copie di diversi manoscritti della Nazionale di Napoli [e] della Brancacciana (e del Museo Nazionale).»

(Antonio Labriola, lettera a lord Acton, Napoli 16 agosto 1873, p. 25-26).



Labriola (1881-1887)

«Caro Gnoli [...]
Fammi ora un piacere.
Avrei bisogno di raccogliere delle notizie da parecchi libri di leggi ed ordinamenti scolastici. Non è il caso di chiederli in prestito, perché devo fare la ricerca in molti volumi al tempo medesimo.
Ora dimmi se i libri del già Museo [d'istruzione e di educazione, passati alla Biblioteca nazionale di Roma] si trovano ancora disposti in maniera che con l'aiuto del vecchio catalogo si possa far presto una ricerca; e se tu puoi darmi un po' di posto da lavorare.
Nel caso contrario differirò la ricerca a miglior tempo.»
(Antonio Labriola, lettera a Domenico Gnoli, Roma 26 [novembre 1881], p. 77-78).

«Caro Gnoli,
Il prof. Heerdegen che ti presento, è venuto espressamente di Germania, per studiare i manoscritti di Cicerone, di cui procura una nuova edizione.
Ti prego di dargli facoltà di esaminare i manoscritti delle tre biblioteche che dipendono da te. Il prof. Heerdegen non si fermerà a Roma che alcune settimane, cosicché ha bisogno di poter tutto esaminare senza indugio.»
(lettera a Domenico Gnoli, Roma 6 maggio 1882, p. 78-79. Secondo il regolamento Bonghi del 1876 l'Angelica e la Casanatense dopendevano amministrativamente dalla Biblioteca nazionale).

«Caro Gnoli. Poco fa son venuto alla Biblioteca a chiedere il Brinckmeier (manuale di scienza cronologica) che mi fu negato perché si trova nella sala riservata. Credo che in massima non convenga sottrarre al prestito molti più libri di quello che il regolamento generale prescrive; ma nel caso speciale il Brinckmeier è proprio un libro di studio, e punto di semplice consultazione. Perciò ti prego di autorizzarmi a prenderlo.
Il giorno quindici io riportai alla Biblioteca due libri che avevo in prestito, cioè il Kühner (grammatica latina) e il Teuffel (Letteratura Latina), e m'erano stati nominativamente richiesti. Ora non so perché il Ghiron m'abbia detto d'aver saputo dal Carbone che io sono moroso verso la Biblioteca.
Si tratterà forse del libro che io l'anno scorso dichiarai d'aver perduto. Ora per questo ti prego di farmi sapere il prezzo, perché possiate commetterlo voi stessi, e liberarmi la ricevuta se mai c'è ancora.
Si trattava del Wiese, lettere su l'educazione inglese, 1877, vol. II (che fa da sé). Il I vol. 1854 [ma 1852] è fra i libri del già Museo. Pagherò il prezzo che il Loescher vi avrà fissato.»
(lettera a Domenico Gnoli, [Roma] 21 febbraio 1883, p. 94-95).

«Caro Gnoli.
Giorni fa venni a prendere in prestito 2 fascicoli della sociologia descrittiva dello Spencer. Ho visto che la biblioteca ha 4 soltanto degli 8 fascicoli pubblicati. Almeno tanti me ne mostrarono.
Fa di completare l'opera.»
(lettera a Domenico Gnoli, [Roma, 3 marzo 1887], p. 170).