LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

N.B. La casella di ricerca qui sotto opera soltanto sul titolo della testimonianza (di norma, cognome dell'autore e anno).
Per testimonianze relative a singole biblioteche vedi l'Indice delle biblioteche, per quelle di/su singole persone vedi l'Indice delle persone, per quelle relative alle biblioteche di una singola località vedi l'Indice delle città.
Per fare ricerche sulle parole delle testimonianze usare la casella Cerca nella barra in alto a destra.

Risultati della ricerca

Cantimori (1962)

«Nel 1929-30 e nel 1930-31, a Cagliari, [...] ero abbonato alla «Critica fascista» (e la facevo leggere); ma anche al «Selvaggio»; all’«Italiano»; alla «Europäische Revue» del Rohan; agli «Europäische Hefte» di Amburgo; alla rivista di geopolitica di Haushofer, al settimanale politico conservatore tedesco «Der Ring», a «Vita Nova» di Bologna, diretta da Giuseppe Saitta, alla «Critica» di B. Croce, al «Giornale critico della filosofia italiana» di G. Gentile e alla «Neue Schweizer Rundschau» di M. Rychner. [...]
Ero entrato nel partito fascista nel 1926, durante l’estate o la primavera. Ero pieno di confusione mentale e quasi senza scusanti: infatti avevo pur letto «Rivoluzione liberale» alla Biblioteca civica di Forlì e l’«Unità» di Salvemini alla quale era abbonato mio padre; nel 1929 poi, quando andai a Cagliari, avevo discusso, durante gli anni universitari, con Umberto Segre, con A. Capitini, con C.L. Ragghianti. Tuttavia, ero convinto che il fascismo aveva fatto e stava facendo la vera rivoluzione italiana, che doveva diventare rivoluzione europea; e ritenevo che bisognasse lavorare su questa strada. Non ignoravo neppure (proprio dai conservatori tedeschi avevo imparato a tenerla presente) l’importanza della Rivoluzione sovietica [...], non ignoravo le tristi giornate dell’estate 1922 in Italia; avevo letto spesso l’«Avanti!», e qualche volta «Il Comunista» [...]: eppure, ero convinto o credevo d’esser convinto che la strada giusta fosse per l’Italia quella dei fascisti: che mistero di stoltezza! [...] Ma, se penso a quel che ero, non posso vantarmene: insomma non ero all’oscuro di alcune delle più note alternative politiche al fascismo (compresa quella conservatrice e reazionaria dichiarata, che conoscevo attraverso i tedeschi [...]); avevo letto perfino, in Svizzera, qualche numero di giornale dell’emigrazione italiana, nel 1927 o 1928. Dunque, non era perché non sapessi. Certo, non sapevo tutto. Non starò a fare l’analisi del come e del perché mi ero messo su quella strada, né mi metterò a dire che la confusione che avevo in testa era colpa di Gentile, Croce, De Sanctis, Hegel, Mazzini, Gioberti, Gioacchino Volpe, Lutero, Burckhardt, Sorel. Non mi metterò a dire che era colpa dei padri».
(Delio Cantimori, Il mestiere dello storico, «Itinerari», n. 58 (giugno 1962), pp. 94-104; poi in Conversando di storia, p. 132-144: 137-139).

«Con gli studenti, il primo anno mi trovai molto bene; ero pieno di entusiasmo per il mio lavoro, riuscivo a studiare per le mie ricerche con l'aiuto del buon [Gino] Tamburini, direttore della biblioteca universitaria [di Cagliari]; una mia relazione al libro sulle Tre economie di W. Sombart, appena uscito, mi aveva procurato l'approvazione di Adelchi Baratono e un po' di prestigio scolastico.»
(ivi, p. 139-140).

Capon Fermi (1954)

«Enrico [Fermi] sapeva leggere l'inglese abbastanza bene ma lo parlava poco. Lo aveva imparato con un suo speciale metodo di apprendere le lingue che andava raccomandando a tutti per l'esito sicuro. Si comincia a leggere un libro divertente in una lingua del tutto sconosciuta, con l'aiuto del vocabolario. Dopo una diecina di pagine si butta via il vocabolario e si va avanti da sé. Quando si son letti dieci o dodici volumi si è imparata la lingua alla perfezione. Enrico aveva preso a una biblioteca circolante tutti i libri di ]ack London l'uno dopo l`altro. Risultato? Altrettanta fiducia nel suo inglese quanta ne avevo io nel mio.»

(Laura Fermi, Atomi in famiglia, p. 84. L'opera fu pubblicata per la prima volta in inglese nel 1954 e poi nello stesso anno anche in versione italiana).

Caproni (1959)

«A Genova ti ho cercato, perché anch’io avevo bisogno di un favore. Ma non ti ho trovato (avevo poche ore a disposizione). [...]
Nella Biblioteca Nazionale di Roma (che tra l’altro è ancora chiusa) non esiste intera la collezione della Riviera Ligure, purtroppo. Non ricordo quanti numeri manchino: molti, moltissimi».
(Giorgio Caproni, lettera a Mario Boselli, Roma 29 agosto 1959, p. 93).

Carandini (2021)

«Al mio malore, in tutti i sensi teatrale, sono seguite quelle che solo molto tempo dopo ho capito essere state crisi gravi di panico - allora ignote -, nelle quali temevo di morire per un generale e profondo malessere unito a batticuore. Per curare il disturbo non vi era allora che il Bellergil e altre medicine inefficaci. Scendevo allora dal Quirinale alla biblioteca di archeologia e storia dell'arte a Palazzo Venezia per redigere la mia tesi sui mosaici di Piazza Armerina, facendo però il percorso a tappe, come se avessi dovuto attraversare le Ande; uscivo poi dalla biblioteca con un'oppressione al petto...».

(Andrea Carandini, L'ultimo della classe, p. 252)

Cardarelli (1910-1911)

«Potremo vederci una volta, almeno una volta? Io vado in Biblioteca (Vittorio Emanuele) ogni giorno dalle cinque alle sette. Ho bisogno di dirle tante cose: e parlare di lei, soprattutto di lei.
[...]
Io lavoro e studio furiosamente.»
(Vincenzo Cardarelli, lettera a Laura Albertini, Roma 21 giugno 1910, p. 31).

«Caro Prezzolini, ho quasi rimorso a scrivervi di questi tempi ma ho bisogno di qualche vostro consiglio.
[...]
Da quattro anni io ho fatto la vita del caffè e della strada: ho fatto anche quella della Biblioteca. Ma la Vittorio Emanuele ha il torto di essere troppo a portata di mano. Per andarvi non si fa un sacrifizio. Non so se mi spiego. Voglio dire che una vera solitudine di raccoglimento e di studio, purtroppo, nella mia vita non c'è mai stata. E ora voglio che ci sia.»
(Cardarelli, lettera a Giuseppe Prezzolini, Roma 27 giugno 1911, p. 51-52).

Cardarelli (1913-1914)

«Ho deciso invece di fare una cosa: di prendere abbonamento da Vieusseux che ha alcune opere classiche sulla Sardegna, e di andarmele a leggere a Gavinana, dove resterò un mese o poco più. Poi mi fermerò, ancora un poco, a Firenze, tra Vieusseux e la Nazionale, potrò consultare ancora parecchi libri e prendere gli appunti che mi bisogna. Per ora ho speso sette lire e mi son preso tre opere: l'itinerario del Lamarmora, la storia del Manno, e certe considerazioni, vecchie ma interessanti, di Baudi di Vesme. Ho visto la breve nota bibliografica del Pintor. [...] Non mi parli di residenze a Roma. Del resto non debbo mica fare un'opera erudita. Quando ho scelto con un certo criterio e conosciuto alcuni scritti fondamentali, di molte pubblicazioni più moderne e più agevoli mi posso informare anche a Firenze, il mese prossimo, e soprattutto anche a Cagliari, dove ormai ho deciso, se lei non ha nulla in contrario, di passare quel tempo che mi ci vorrà a scrivere il libro.»
(Vincenzo Cardarelli, lettera a Angiolo Orvieto, Firenze 12 luglio 1913, p. 56).

«Io conto di star qui fino alla fine d'agosto. Ho ordinato a Vieusseux altri libri. Poi, siccome ho il biglietto gratis, andrò un giorno o due a Venezia, e farò una visita, passando, a mia sorella ch'è nella bassa Lombardia. Sicchè verso il dieci settembre potrò essere a Firenze, dove proseguirò queste letture sarde e dove spero di poterla vedere per concertare definitivamente il nuovo viaggio e la struttura e i termini della pubblicazione.»
(Cardarelli a Orvieto, Gavinana 15 agosto 1913, p. 64).

«Caro signor Angiolo,
sono, dunque, a Firenze. [...] Dimenticai l'altra volta di dirle che, oltre alle spese di vitto, posta, lavatura etc. (supplementi assai cari in villeggiatura) avevo pagato, con le duecento lire di Firenze, anche due mesi di abbonamento da Vieusseux. E ora, il dieci di questo, debbo pagare il terzo. [...]
Qui passerò parecchie ore del giorno in biblioteca. In modo che quando ripartirò per la Sardegna avrò già consultato il maggior numero di libri, e, al ritorno, non mi resterà che mettermi al lavoro.»
(Cardarelli a Orvieto, Firenze 5 settembre 1913, p. 64, 66).

«Qui sto, normalmente, quattro o cinque ore il giorno, in Biblioteca. Scorro l'Archivio Storico, la Miscellanea storica e il Bollettino storico subalpino, dove sono gli scritti più moderni sulla storia sarda, della quale mi vado facendo un'idea abbastanza precisa. Poi la sera a casa leggo le opere (vecchie cronologie) del prestito Vieusseux. Credo che, quando partirò da Firenze, avrò ingollato parecchia letteratura.»
(Cardarelli a Orvieto, Firenze 15 settembre 1913, p. 66).

«Caro signor Angiolo,
non si stupisca di sapermi ancora a Roma. Ho dovuto impiegare qualche giorno alla lettura della inchiesta parlamentare sulle condizioni economiche della Sardegna dell'on. Pais, che a Firenze, come le dissi, non potei vedere.»
(Cardarelli a Orvieto, Roma 20 ottobre 1913, p. 73).

«Come sa la Sardegna costa, tanto vero che mi guarderò bene dal rimanere qui in Cagliari un mese, come avevo deciso. Non solo non si trovano camere (la gente di qui affitta a stagioni!), ma sarebbe assai laborioso e difficile servirsi della biblioteca di qui, come avevo pensato, e, inoltre, per la siccità, la mancanza assoluta di acqua (non ce n'è neanche per fare un bagno) non fa ritenere del tutto infondato il pericolo di un'epidemia da un momento all'altro.»
(Cardarelli a Orvieto, Cagliari 5 novembre 1913, p. 76).

«Nel frattempo spero di concludere molto a proposito di questo libro e di poter mantenere, se dio vuole, la promessa. Ho ottenuto dal Pintor della biblioteca del Senato il prestito di tutti i libri che mi occorrono, cosicchè posso lavorare comodamente in casa senza bisogno di andare a far esercizi di pazienza in giro per le biblioteche pubbliche.»
(Cardarelli a Orvieto, Roma 16 dicembre 1913, p. 81).

«Dico la verità, quando io accettai di consegnare questo libro per la fine dell'anno avevo sì entro di me un nucleo sostanziale di cose da dire forse più vivo e tumultuoso di quel che non abbia ora, ma non un'idea molto precisa del lavoro di preparazione che avrei dovuto compiere e del tempo che mi ci sarebbe voluto per iscriverlo. In seguito alle letture di Firenze e a queste ora riprese a Roma, col gentilissimo ausilio del signor Pintor, tale idea l'ho acquistata. [...]
Per darle un'idea del lavoro preparatorio che ancora debbo esaurire sappia che mi rimangono da leggere e consultare almeno una ventina di pubblicazioni, alcune delle quali vecchie, faticose a scorrere, e ponderose. Non creda con ciò tuttavia ch'io mi voglia sperdere in questo ingenuo bisogno di erudizione. Io ho un certo fiuto e so dove fermarmi e cosa prendere da tanta mole libresca, che faccia al caso mio. [...]
Intanto se lei mi mandasse il libro sul Malvezzi, che ho visto ieri in Senato (dico il libro), mi farebbe un piacere.»
(Cardarelli a Orvieto, Roma 23 dicembre 1913, p. 84-86).

«Caro signor Angiolo,
io soffrivo già il suo silenzio come una severa condanna meritata, e intanto il signor Pintor mi cercava come il più gentile e benvenuto degli ambasciatori. Non so che dire. Vincendo la paura di una disfatta ancora più triste riprendo il mio coraggio e decido di andarmene in campagna a scrivere questo libro cui avevo, dolorosamente, rinunziato.»
(Cardarelli a Orvieto, Roma 5 marzo 1914, p. 89-90. Il libro non fu mai completato).

Cardinale (2015)

«Pasolini, appena giunto a Roma, frequenta nei primi anni Cinquanta la Biblioteca nazionale nella sua sede storica al Collegio romano, in particolare la sala di consultazione denominata "A", per preparare il Canzoniere italiano, antologia della poesia popolare pubblicata nel 1955 dall'editore Guanda. Mosso dall'urgenza di concludere il lavoro, si reca egli stesso in biblioteca o prende in prestito dei volumi. Spesso commissiona ad altri il reperimento dei testi o chiede aiuto ai bibliotecari. Nel 1953 mostra tutta la sua preoccupazione per la chiusura temporanea dell'Istituto [...].
A conclusione del Canzoniere italiano Pasolini pubblica gli Appunti bibliografici e note ai testi, precisando egli stesso che non «è questa una bibliografia, ma il materiale bibliografico» che ha raccolto lavorando all'antologia. Di questo materiale bibliografico raccolto durante la preparazione del volume si conserva un elenco nel quale accanto all'indicazione dell'opera è presente la segnatura del libro posseduto dalla Biblioteca nazionale. È la prova evidente di come lo scrittore abbia frequentato l'Istituto per approntare l'antologia della poesia popolare. [...] Ulteriore conferma del fatto che lo scrittore abbia consultato quei testi emerge dagli stessi esemplari posseduti dalla Biblioteca, molti dei quali presentano segni di lettura proprio di Pasolini, come per esempio i Canti del popolo napoletano raccolti ed annotati da Luigi Molinaro Del Chiaro del 1880.»

(Eleonora Cardinale, Il laboratorio dello scrittore: Pasolini alla Biblioteca nazionale centrale di Roma, in: "Ragazzi leggeri come stracci", p. 51-52, con una riproduzione. Il volume citato è Canti del popolo napoletano raccolti ed annotati da Luigi Molinaro Del Chiaro, Napoli, Tipografia di Gabriele Argenio, 1880, collocazione 256.8.F.23, descritto a p. 75).

Carducci (1864)

«O senti: tu hai ragione di lagnarti di me, hai ragione, mille ragioni: ma poi pensa anche un poco, o imagina, come l'accertarsi se nelle nostre biblioteche, le quali mancano di cataloghi non ragionati ma decenti, esistano o no copie delle cose che ricerchi, richiede tempo e lavoro non indifferente»

(Giosue Carducci, lettera a Alessandro D'Ancona, Bologna 21 gennaio 1864, p. 67)

Carducci (1892)

«Satana diventando vecchio si fa eremita, ed il suo cantore riceve e fa salamelecchi cogli abati della Biblioteca vaticagnesca.»

(«Il fischietto» (Torino), 45, n. 12 (2 feb. 1892), riprodotto in Albo carducciano, p. 260, su una visita di Carducci alla Biblioteca Vaticana. Nell'ecclesiastico che saluta Carducci si voleva probabilmente rappresentare Isidoro Carini, che allora dirigeva la Biblioteca. Isidoro Carini, peraltro, era figlio del generale garibaldino Giacinto).

Carducci alla Vaticana (1892)

Carnevali (1918)

«Qui non si comprano giornali italiani all’infuori della Lettura e Domenica del Corriere. Ma nella Public Library, ho scoperto tutti i numeri della Voce, e ciò mi ha dato una gran fame di cose italiane. E [Joel Elias] Spingarn mi diede una volta dei volumi legati della sua Critica. Sono affamato di quelle cose e di tutto in genere, poiché scrivo, non faccio quattrini e mi manca tutto.»

(Emanuel Carnevali, lettera a Benedetto Croce, New York 5 agosto 1918, in Voglio disturbare l'America, p. 62).

Carnevali (1978)

«Le donne di Chicago si dipingono meno orrendamente che a New York e sono anche più sane da vedere. Chicago lancia alle quattro pareti del cielo la ventosa scommessa che durerà ancora stagioni e stagioni prima di affondare nel marasma come New York. (Ma nel tempio della sapienza, la biblioteca pubblica di Chicago, c’è questo cartello: «mettersi in ordine gli abiti, prima di uscire». Sapreste trovarne uno migliore? Certamente no).»
(Emanuel Carnevali, Il primo Dio, p. 94).

Il romanzo autobiografico di Carnevali, scritto in inglese e rimasto inedito, è stato tradotto in italiano da Maria Pia Carnevali (sorellastra dell’autore) e pubblicato nel 1978.

Carpenito Vetrano (2002)

«Marinari studiò la letteratura ottocentesca, in particolare quella del Mezzogiorno e, con estrema originalità, l'opera del De Sanctis e del Padula, entrambi uomini ed intellettuali del nostro Mezzogiorno.
Fu l'amore grande per il critico di Morra a mantenere vivi in lui i rapporti con la sua terra e con questa Biblioteca [Provinciale di Avellino] che di De Sanctis conserva gran parte dei suoi manoscritti.
Fin dagli anni Cinquanta, dalle colonne del "Corriere dell'Irpinia" e del "Progresso irpino", incitava, sollecitava energicamente e con frequenza gli amministratori del tempo perché si desse alla Biblioteca Capone una sede degna dei suoi fondi librari.
Mi ritornano alla mente le sue visite frequenti, lo vedo aggirarsi allora giovane, ma noto intellettuale, nelle sale anguste dell'antica sede della Biblioteca, scrutatore minuto e profondo, raccoglitore paziente, instancabile di notizie preziose. Le visite di Muscetta e Marinari, in quel tempo, erano sempre un evento per noi giovani funzionari. Il vecchio direttore [Mario] Sarro le annunciava con molto anticipo, perché diligentemente copiassimo, molto spesso a mano, e con bella grafia ci raccomandava, pagine di testi richiesti dai due professori.
Fu forse allora, conoscendo professori dello spessore culturale di Muscetta e Marinari, che iniziammo ad amare il nostro lavoro, cominciammo ad intendere la funzione di bibliotecario come vocazione e nobile privilegio».
(Annamaria Carpenito Vetrano, [ricordo di Attilio Marinari], p. 41-42)

Cecchi (1912-1913)

«19 Marzo [1912]. Cinque giorni di vuoto [...]. Cominciato ad andare a studiare nella biblioteca della Keats Shelley Memorial House. Ora: mettere in pari e completare tutte le letture diverse; e riunirmi nello studio per gli «Inglesi» [...].»
(Emilio Cecchi, Taccuini, p. 59).

«Giugno 1912. Levarmi dal letto prestissimo, verso le due o le tre, e lavorare a comporre fino alle otto; alle otto fare il bagno, fare colazione e andare alle biblioteche, fino all'ora di desinare. Tornare alle biblioteche nel pomeriggio subito. [...] Andare a letto non più tardi delle 9, e non distaccarmi da questa regola di vita per qualche mese.»
(ivi, p. 79. Altri brevi riferimenti, nello stesso periodo, non specificano quali biblioteche Cecchi frequentasse).

«Leggo in Piazza di Spagna, ancora; ora i taccuini di lavoro dello Shelley (II e III) dove sono cose belle e curiose. Come aveva ragione di tenersi tanto attaccato a Eschilo e a Pindaro! Quelle sono le basi. [...] Eh, lo Shelley era un gran poeta; ma grande di molto. Quando si è intorno a uno di questi uomini, pare d'esser sotto una delle piramidi di Egitto.»
(Emilio Cecchi, cartolina a Arturo Onofri, Roma 27 giugno 1913, in: Carteggi Cecchi-Onofri-Papini (1912-1917), a cura di Carlo D'Alessio, Milano, Bompiani, 2000, p. 52-53).

Cecchi (1913)

«Il Blondel l'ebbi dalla Biblioteca filosofica di Palermo, di cui è direttore già [o Gio.?] Gentile. Non conosco il Gentile, ma gli scrissi e me la mandò. Credo che tu potrai fare altrettanto, con successo. Addio. A Gentile scrivi: Università di Palermo. Se poi ti associ alla Biblioteca (una tassa minima), hai diritto di avere il volume. Addio: per la terza volta.»

(Emilio Cecchi, lettera a Arturo Onofri, [Roma] 26 gennaio 1913, in: Carteggi Cecchi-Onofri-Papini (1912-1917), p. 52. Secondo il curatore il riferimento è a Maurice Blondel, L'action, Paris, Alcan, 1893).

Cecchi (1919)

«Quando conobbi il Croce, pochi anni dopo la prima edizione dell'Estetica, egli non era famoso come ora che gli hanno confermato la fama anche a forza di vitupèri. Fu in quella sala della Biblioteca Filosofica di Firenze, che spiritualmente parlando ne ha viste di tutti i colori. Aspettavo un pomeriggio di essergli presentato, con un turbamento per nulla diminuito dal ricordo di qualche espressione bonaria ch'egli aveva avuto per un mio lavoro. Farò ridere i miei fratellini minori a parlare in quest'ordine di sentimenti? [...] L'adolescente che non ha mai sospirato il napoleonico: «Caporale son contento di voi» io lo chiamo sepolcro imbiancato, almeno da quanto l'altro che non rubò mai un sigaro dalla tasca paterna.»

(Emilio Cecchi, Benedetto Croce, (Gli uomini dell'Italia odierna), «Rivista d'Italia», 22, n. 8, 31 agosto 1919, p. 504-506: 504. Ripubblicato in Emilio Cecchi, Ricordi crociani, Milano-Napoli, Ricciardi, 1965, p. 42-47: 42-43).