LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

N.B. La casella di ricerca qui sotto opera soltanto sul titolo della testimonianza (di norma, cognome dell'autore e anno).
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Risultati della ricerca

Allodoli (1913)

«Fra quel jumbled heap of murky buildings che da Piazza di Spagna vanno al Corso, nel centro della città affaristica e procacciante, non lungi dai bordelli più noti, la casetta segnata col n. 26 sulla Piazza stessa rappresenta dinanzi alla volgarità che passa un suggestivo e simpatico rifugio dell’ideale. [...] Ci è cara, perché ivi più si sente diffuso lo spirito suo [di John Keats]; lì ci sono i libri che parlano di lui, i libri che egli lesse ed amò. [...] L’iniziativa di fondare questo ricordo è dovuta esclusivamente, com’è naturale, agl’inglesi. Quando gl’inglesi intendono veramente un poeta, lo circondano di una profonda ammirazione, ma non per curiosità vana, non per eccentricità, non per pubblicare su di lui un libro in ottavo, non per farsene un titolo da presentare a un concorso, ma perchè quel poeta è ormai un amico buono al quale bisogna fare gentilezze e complimenti. I pochi e bravi signori che per centoseimila lire comprarono quattro o cinque anni fa la casetta ove Keats morì, non si è trasformata in un club, in una società di letture, in un cenacolo; ma ha lavorato con serietà a costituire una bella biblioteca di libri e documenti non solo su Keats ma anche su Shelley, e col tempo raccoglieranno tutto ciò che è possibile raccogliere su altri poeti inglesi italofili.
La casa di Keats è nella stessa forma quale era nel 1821, quando il Poeta venne d’Inghilterra a morirvi. Sono quattro stanzette piene di libri, di ricordi, di quadri; un’architrave divide la sala più grande in due e da essa si va in un’altra più piccola che con un terrazzino è messa a livello della scalinata della Trinità dei Monti. Tutto in ordine, tutto in pace, tutto in silenzio; rari i visitatori; quasi tutti inglesi e americani; se sfogliate il registro, tra filze di nomi in kins, son, in ay trovate solo tre o quattro tondeggianti casati italiani.
Non io vorrei o potrei dar consigli alle ottime e colte persone che dirigono l’istituzione, a Sir [James] Reunel [ma Rennel] Rodd, ambasciatore d’Inghilterra, e a Nelson Gay; ma credo che, data la crescente difficoltà di studiare nelle grandi biblioteche, è ormai tempo d’intensificare la fondazione di piccole biblioteche speciali, dedicate a un pubblico speciale. Con Keats è connesso lo studio del tempo suo, dei suoi amici, dei suoi divulgatori. [...] Con Keats si collega lo studio di Hunt, di Haydon, di Reynolds, di Hazlitt, di Wordsworth; di tutto un periodo denso, vivace, movimentato. Siccome la direzione della K. S. Memorial House intende raccogliere tutto quanto si riferisce anche a Shelley, il cui raggio d’influenza è più esteso, e, nel futuro, vuole aggiungere anche lo studio di Byron, tra breve tempo la biblioteca e i documenti saranno si numerosi che diverranno oggetto di viva ricerca da parte degli studiosi. Sarebbe bene che i proprietari aprissero perciò una sala di lettura al primo piano o al superiore, rinunziando allo scarso reddito degli affitti (il museo keatsiano-shellyano è al secondo). Per certe ricerche, è assolutamente necessario rivolgersi qui; per esempio, son raccolte tutte le edizioni delle opere di Keats: l’Ode sopra un’urna greca, scritta nel febbraio o marzo 1819, fu pubblicata nel 1820 negli Annals of the Fine Arts. Ora, di questa rivista, ricca di notizie, di testi rari e importanti per la storia della letteratura inglese, si trova quasi tutta la collezione nella biblioteca keatsiana. I documenti inediti, lettere di Severn, di Trelawny, del capitano Roberts ecc. vengono, è vero, pubblicati nel Bullettino della fondazione, compilato da Rennel Rodd e Nelson Gay; ma non basta ciò a rendere pubblica l’utilità della raccolta; lo studioso ha bisogno, non dell’inedito di per sè, ma di consultare, di vedere libri che altrove non trova; e vederli e consultarli con più sveltezza e comodità. Ormai nelle grandi biblioteche non vanno che gli oziosi e i principianti: ci vogliono, per la cultura, diffusa e specializzata, dei luoghi tranquilli, frequentati da una determinata classe di persone, un ambiente più utile per il lavoro, più incitante per lo spirito. La casa di Keats a Roma può diventare uno di questi luoghi; chi la dirige ha i mezzi, il potere, l’intelligenza adatta a far bene; lo faccia. Quando qualche diecina di studiosi liberamente e fervidamente staranno a lavorare entro queste stanzette, sarà allora più onorato lo spirito del nostro Poeta, il quale ebbe per la cultura un ardore frenetico, e una febbre di letture, di conoscenze varie e diffuse. E voleva appunto morire dopo che la sua penna «avesse spigolato tutta la profonda mente per accumulare in grosse cataste l’un sull’altro i volumi, come il bel maturo grano nei ricchi granai».»

(Ettore Allodoli, La Casa di Keats biblioteca pubblica, p. 1083-1084).

Alvaro (1956)

«È mio proposito raccontare quello che accadde nella città di Turio nel 1914. Costretto a vivere nella biblioteca comunale di questa città, vado occupando il mio tempo in un lavoro che possa tornare utile a quelli che vorranno rintracciare un momento della storia dei turiesi, o turioti come si suol dire. [...] Spero che la pazienza per scrivere di queste cose mi assista fino in fondo, e che non mi scoraggisca il fatto di vedermi attorno tanti libri negli scaffali, in cui è scritto tutto e in cui tutte le combinazioni della fantasia umana sono esaurite. Ma forse mi salverà dal ridicolo, agli occhi di chi leggerà questo manoscritto, scrivere di storia locale, e forse appunto per ciò il mio nome potrà essere ricordato meglio di quello di persone che si affaticano a mettere insieme fantasie sulla vita. Il mio nome è Vitaliano Stabili, direttore della biblioteca comunale di Turio. [...] L'idea di mettere insieme queste pagine m'è venuta da una visita che ho avuto da Rinaldo Diacono nel giugno di quest'anno 1948. Così ho riveduto Diacono a quasi cinquant'anni da quando lo conobbi ragazzo. Egli mi disse: "Giacché non siamo riusciti nessuno a raccontare le vicende di quell'anno a Turio, perché non lo fate voi? Nella vostra biblioteca vi sono passati sotto gli occhi tutti gli uomini e i ragazzi di quel tempo, e d'altra parte voi avete risolto da allora il problema di non vivere del tutto rinchiuso. Perciò molte cose avete veduto e saputo. Se vi mancasse qualche informazione, scrivetemi e io vi dirò quello che posso ancora ricordare". Quanto alla soluzione del problema di non vivere rinchiuso, come egli ha detto, devo dire che io occupo la mia stanza a pianterreno, le cui pareti sono scaffali di libri, a cui si accede per un corridoio formato ugualmente di scaffali di libri, e con una porta a vetri che dà sulla strada. Chi passa mi vede al tavolino, e io dal mio posto vedo tutto quanto accade fuori. La strada è centrale.»
(Corrado Alvaro, Mastrangelina, in Opere, [1], p. 911-1149: 915-916. Il romanzo fu pubblicato dopo la morte dell'autore, a cura di Arnaldo Frateili, nel 1960. Il personaggio di Vitaliano Stabili è ispirato a Filippo De Nobili, direttore della Biblioteca comunale di Catanzaro dal 1908 al 1958, e la descrizione dei locali corrisponde alla sede di allora. Alvaro, che in parte si rispecchia in Rinaldo Diacono, frequentò il Liceo a Catanzaro fino al richiamo alle armi per la Grande guerra e in quel periodo utilizzava abitualmente la Biblioteca comunale).

«Devo tacere il nome di questo antiquario, per evidenti ragioni, e lo chiamerò Tecca. Tecca si trovò una sera ad alloggiare in una locanda di Metaponto, e fece conoscenza con uno straniero, un tedesco, il quale veniva da un viaggio a piedi nell'Italia meridionale. Che cosa facessero questi viaggiatori, che penetravano nei paesi più remoti della Calabria e della Sicilia, non si sa; dicevano di compiere studi di geologia o di parlate dialettali, e all'apparenza era vero perché molti venivano a visitarmi nella biblioteca comunale per chiedere documenti e libri di storia della regione, e dopo qualche tempo mi mandavano dai loro paesi le pubblicazioni in cui avevano dato conto delle loro ricerche.»
(ivi, p. 920).

«Mi accorgo che vado mettendo insieme rimpianti come della mia stessa vita, in una storia che non mi appartiene se non come testimonianza. Mi capiterà, credo, di farlo ancora, giacché dal mio posto dietro una porta a vetri che dà sulla strada, mi sembra di avere vissuto molte vite.»
(ivi, p. 1011).

«Spina gli chiese: "Non vieni in convitto?"
"No, vado in biblioteca."
"Mi vuoi con te?"
"Oggi non vado a mangiare. Ne ho abbastanza [...].
L'ora era già tarda, per la strada c'era poca gente che andava a casa, lieta del pasto che l'aspettava. Era l'ora in cui il lastricato della città, tutto di pietre larghe e grige, si scorgeva arido e deserto. Nella biblioteca non c'era che un custode sonnolento. Il bibliotecario dalla barba fluente e rossastra come quella d'un apostolo, non c'era. Diacono risentì quell'odore di folla, di libri, caldo e fermentante, l'odore delle vernici delle impalcature, il vecchio odore umano dei banchi, lucidati dalle mani che vi si erano posate. Egli andò dritto a uno scaffale, e ne tolse un libro. Lo aprì, i caratteri grandi, capricciosi, con gli accenti forti e le lettere smussate, svolgevano un dialogo fitto e serrato. I grandi margini della carta colore avorio formavano un cielo in cui sì moltiplicava la risonanza di quelle parole, la carta odorava di mare, col tanfo dì pesce secco di un porto. Il fruscio del foglio che si voltava, risuonava nella sala come qualcuno che cerchi l'uscita strisciando con le mani su una porta.
"Questo è un libro proibito", disse Diacono mentre Spina aguzzava gli occhi su quelle pagine. "Il bibliotecario storce il naso se vede uno dì noi che lo legge."
Leggevano tutti e due toccandosi lievemente con la spalla. Le lunghe file di versi fremevano di una passione che irrompeva fragorosa, ad alta voce. Essi erano assorbiti in un altro mondo, con gli occhi che divenivano freddi sotto le palpebre che si abbassavano dì quando in quando.
"Anche nella mia vita c'è un dramma", disse sottovoce Diacono. [...] Le parole di quel libro gli rivelarono il senso di quanto era accaduto, e ne provò un improvviso dolore; nello stesso tempo ebbe il senso della sua potenza. [...] Egli diceva di aver veduto il poeta che aveva scritto quelle pagine, e nella sua mente, senza che neppure formulasse il pensiero, balenò l'idea di essere stato lui a suggerire alcune di quelle parole al poeta. Il quale era calvo, con una barbetta caprina, calvo come qualcosa di lubrico e di indecente. [...]
La metà delle parole che essi leggevano non le capivano, ma le riempivano di significato, un significato vago, pieno come il brusio di un alveare, o come il vento tra i boschi. [...] "Andiamo, vieni con me", disse Diacono. Spina lo seguì trotterellando, traversarono il ponte, uscirono dall'abitato. Forse nei campi avrebbero trovato quelle apparizioni di cui parlava il poeta.»
(ivi, p. 1072-1075. Il libro è probabilmente da identificare con un'opera di D'Annunzio).

Amendola (1980a)

«Le giornate erano lunghe [nel carcere di San Vittore], mi sentivo un leone in gabbia. Come passare il tempo, senza andare a rimuginare sempre gli stessi pensieri? Chiesi i libri della biblioteca. Venne un cappellano, dall'aria gentile. Gli dissi subito, con aria sprezzante, che ero ateo, che non avevo bisogno di un prete, ma di libri. Non si scompose, e mi rispose quieto che non era venuto come prete ma come bibliotecario. Rimasi mortificato per la mia inutile scortesia. Di regola si potevano avere due libri la settimana, ma a me, "data la mia cultura", ne concesse quattro. Lo conquistai scegliendo nel catalogo, tra i primi, I promessi sposi ed il Marco Visconti. Non ricordo i motivi di quella scelta. Forse perché mi trovavo in Lombardia. Fu la prima lettura seria dei Promessi sposi e ne compresi finalmente il valore. La biblioteca era vecchia. Vi trovai molti romanzi ottocenteschi, D'Azeglio, Guerrazzi, anche padre Bresciani. Trovai motivi di freschezza, e di speranza nella capacità dell'uomo, con la lettura attenta e ripetuta, fatta a voce alta, dei canti dell'Iliade e dell'Odissea nelle vecchie traduzioni Sonzogno di Vincenzo Monti e di Ippolito Pindemonte. Una volta si fermò allarmato il secondino ed aprì lo sportello per vedere con chi parlassi. Gli indicai il libro che leggevo. Era il brano dell'incontro di Nausicaa con Ulisse. Se ne andò con un cenno che significava che mi considerava un po' matto.»

(Giorgio Amendola, Un'isola, p. 92).

«A Roma mi ficcarono in un'automobile, e di corsa a Regina Coeli. [...] Rimasi in isolamento per circa dieci mesi. [...] Dopo la minestra, studio e letture. La biblioteca del carcere mi forniva libri di viaggi, quelli di Appelius, allora in gran voga, ma anche di vecchi esploratori, una grande storia dell'India, un volume di un missionario dell'Amazzonia. Così il grande mondo lontano giungeva sino nella mia cella.»
(ivi, p. 94-95).

Amendola (1980b)

«Tornato in libertà nel settembre 1932, [Giuseppe] Boretti aveva preso a frequentare l'Università cattolica, dove andava con il compagno Eugenio Giovanardi a leggere testi marxisti ed a fare propaganda antifascista, soprattutto verso elementi di "Parte guelfa", piccola organizzazione clandestina cattolica. Il rettore dell'Università, padre Gemelli, si accorse di tale attività e si affrettò a denunciarla alla polizia. Questa volta Boretti fu inviato al confino con Giovanardi.»

(Giorgio Amendola, Un'isola, p. 114-115. Boretti era stato arrestato a Milano nel giugno 1932 con Giorgio Amendola, ma era stato poi scagionato).

Amendola (1980c)

«L'organizzazione comunista [nella colonia di Ponza] era fondata su una ricca base materiale, la mensa collettiva, lo spaccio cooperativo, la biblioteca, persino servizi con la caffetteria, la barberia, la lavanderia. [...]
Benché fossi in posizione di attesa, mi avevano subito affidato due incarichi: direttore della biblioteca e responsabile del corso di storia italiana. [...]
Come direttore della biblioteca dovetti sostenere una prima battaglia culturale. Prevaleva la concezione di una cosiddetta cultura sociale, che orientava le letture esclusivamente verso libri di carattere sociale. Molto ricercata era l'incredibile storia del socialismo di Beer, in più volumi, che faceva risalire il socialismo alle prime lotte sociali della repubblica romana. Io sostenni invece la necessità di orientare le letture dei compagni verso i libri di storia e verso la conoscenza della grande letteratura ottocentesca, da Balzac a Victor Hugo, da Turgheniev a Tolstoi, da Stevenson a Dickens, da Nievo a Verga. Mi sembrava necessario che i compagni, in prevalenza giovani, aprissero le loro conoscenze e facessero proprie, come indicava Lenin, tutte le più alte tradizioni del pensiero umano. Le mie indicazioni ebbero un grande successo. La biblioteca vide aumentare il numero dei lettori, e con soddisfazione vidi i giovani chiedermi consigli per la scelta dei libri. Consigliai a molti un piano di letture, partendo dalla Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis.
Rivolsi a molte riviste italiane la richiesta di inviare gratuitamente i loro numeri alla biblioteca dei confinati di Ponza. Croce mi rispose personalmente con una cordiale cartolina e mi annunciava l'invio gratuito della "Critica". Ma la rivista fu respinta perché, diceva la motivazione, dono di un antifascista. Una lettera del marzo 1934 della direzione di Pubblica Sicurezza aveva impedito al direttore della colonia di trasmettere mie lettere indirizzate alle direzioni delle riviste "Il Saggiatore" e "Cultura". Chiedevo l'invio di queste riviste alla biblioteca dei confinati politici di Ponza ed affermavo di avere già avuto risposta positiva dalla "Nuova Rivista storica", dalla "Riforma sociale", dalla "Rivista bancaria", dalla "Rivista di politica economica", dal "Bollettino delle notizie economiche" e dalla "Critica". La direzione della Pubblica sicurezza esigeva che ogni rivista inviata in omaggio alla biblioteca venisse trattenuta. Bisognava impedire che si utilizzasse il termine "biblioteca confinati politici", perché la biblioteca dipendeva dalla direzione della colonia, anche se era affidata alla gestione di alcuni confinati. Si voleva evitare una manifestazione di solidarietà culturale con i confinati. Il professore Corrado Barbagallo fu diffidato a mantenere una corrispondenza con la biblioteca.»

(Giorgio Amendola, Un'isola, p. 112, 115, 116-117).

«Subito, poche settimane dopo il mio arrivo, mi ero già trovato implicato in un processo. Il compagno Pontoni, direttore della biblioteca, era stato trasferito in una località dell'interno. Appunto dopo la sua partenza i compagni avevano deciso che avrei preso il suo posto. Ma il 26 maggio fui fermato per un incidente avvenuto nella biblioteca. Il confinato professor Germani, triestino, inviato al confino come aderente a Giustizia e Libertà, aveva assunto subito un atteggiamento decisamente anticomunista. Non riconosceva la direzione della biblioteca perché affidata dai comunisti ad un comunista, anche se i comunisti costituivano la grande maggioranza dei soci paganti la quota di una lira. Aveva quindi preteso di trattenere presso di sé alcune riviste oltre il termine fissato dal regolamento. Questo termine veniva abitualmente allungato, ma con lui i compagni assunsero un atteggiamento di particolare severità. Germani rispose in modo sprezzante e ne nacque una vera colluttazione. Attirato dalle grida, mi precipitai anch'io, considerandomi responsabile dell'ordine della biblioteca. Finì che fummo arrestati in cinque, per resistenza a pubblico ufficiale e per aver percosso Germani.»
(ivi, p. 118).

«Fui ancora incaricato io di fare un passo personale presso la direzione della Pubblica Sicurezza, per chiedere di poter parlare direttamente con un funzionario, mandato dal ministero, a cui illustrare la reale situazione creatasi a Ponza. L'esposto fu inviato il 26 luglio 1935. [...]
Io trattavo il mio caso personale e risalivo al primo incidente della biblioteca, maggio 1933, per dimostrare come fin dall'inizio ero stato coinvolto in una situazione di estrema tensione, provocata da chi cercava volutamente di disturbare la tranquillità della colonia. Rivendicavo l'utilità educativa della biblioteca e l'opportunità di una gestione affidata agli stessi confinati che, con la loro partecipazione, arricchivano la dotazione della biblioteca stessa, regalando libri e giornali. Affidata alla gestione diretta dell'amministrazione, sarebbe decaduta, come era provato dallo stato in cui si trovava la biblioteca carceraria. In ogni modo la direzione della colonia aveva tutti i mezzi per controllare gli acquisti, la corrispondenza e la contabilità della biblioteca.»
(ivi, p. 164).

Amendola (1991)

«La mia cultura letteraria era francese. Leggevo Romain Rolland, Gide, sempre per motivi di opposizione al gusto che aleggiava intorno al regime. Quando mi mandarono al confino, a Ponza, feci il bibliotecario.
Che anno era?
Il '32, l'anno del decennale: per questo mi condonarono il carcere, e mi spedirono nell'isola. Oppure fu per un caso, o per un criterio di opportunità: era giugno. [...]
Ma lei, da bibliotecario, che problemi aveva?
Consigliavo di leggere I Miserabili, Guerra e Pace, sempre i classici della letteratura, i romanzi. Ero convinto che un giovane operaio, un giovane contadino, prima di leggere i testi del socialismo, si dovesse formare alla luce della tradizione umanistica. Altrimenti il socialismo non si può costruirlo.
Come vi procuravate i libri?
Certi libri stranieri arrivavano camuffati. Tradussi Materialismo ed empirio-criticismo di Lenin sulla versione inglese. I libri italiani li acquistavamo direttamente dagli editori. Pensi che Croce, per la biblioteca, mi spedì un pacco di suoi libri e un abbonamento a La critica. L'autorità carceraria respinse tutto, col motivo che si trattava di “dono d'antifascista”. Allora pagammo all'editore il costo dei volumi e l'abbonamento alla rivista: tutto ritornò tranquillamente indietro.».
(Enzo SicilianoMa tu che libri hai letto?, p. 36; l'intervista è datata al 10 febbraio 1972)

Andreotti (1991)

«Quale liceo?
Il Tasso, e andavo il pomeriggio nella biblioteca Besso, specializzata in cose romane. Ci andavo dapprincipio perché c'era un buon riscaldamento. Studiavo, e poi leggevo tutto quello che trovavo: e me ne venne la passione che lei diceva. Ci stavo talmente tante ore là dentro, che credo di dovere solo a questo fatto se il professor Amaldi padre, allora direttore della biblioteca, mi fece una borsa di studio.».
(Enzo SicilianoMa tu che libri hai letto?, p. 32; l'intervista è datata all'8 febbraio 1972)

(Ugo Amaldi (1875-1957) fu segretario della Fondazione Besso ma non ricoprì mai, formalmente, l'incarico di bibliotecario)

Anguissola (1910)

«La biblioteca comunale [Passerini-Landi] vanta 140 mila volumi e molti manoscritti. La frequentano ogni anno circa novemila lettori, dei quali un migliaio di studiosi. Ha un’entrata di ventiseimila lire, ma solo duemila possono essere destinate agli acquisti, colla tara di ottocentocinquanta per abbonamenti ai giornali e alle riviste, non escluse le cittadine, perchè quanto stampiamo, per una vecchia legge, la procura deve inviare alla biblioteca di Parma [Biblioteca Palatina].
Molti opuscoli, numeri unici, comparse legali, talora importanti, mancano alla nostra raccolta.
Il materiale vecchio è buono specialmente per le discipline ecclesiastiche, ma in parte ingombrante, perchè molte opere, provenienti da vari lasciti, vi sono in parecchie edizioni. È copiosa fonte di studi giuridici, consultati solo a scopo professionale. La parte moderna rigurgita di libri scolastici, a sollievo di troppi frequentatori, giovanilmente rumorosi. Non manca un saggio d’opere di coltura filosofica. Molto letti sono il Carducci, il d’Annunzio, il De Amicis, il Mantegazza e le riviste.
Gli studiosi chiedono sopra tutto libri letterari e storici. È in pubblicazione il catalogo dei manoscritti, per cura del bibliotecario, il colto Prof. Augusto Balsamo, il quale si presta a soddisfare ogni legittimo desiderio dei frequentatori. Ma è un peccato che il catalogo dei libri non sia a disposizione del pubblico.»
(Carlo Anguissola, Piacenza, «La Voce», 2, n. 12 (3 marzo 1910), p. 277-278: 278.)

Antoni (1937)

«Eccellenza,
Le sarei infinitamente grato se Ella avesse la bontà d'inviarmi le bozze o gli estratti dei Suoi articoli sul Meinecke e sul libro del Löwith sul Burckhardt. La Revue de métaphysique arriva alle biblioteche romane, ma passano dei mesi prima che sia accessibile. Sono impaziente di vedere quanto non sono riuscito a scorgere con i miei propri occhi, specialmente nei riguardi del Meinecke.»
(Carlo Antoni, lettera a Benedetto Croce, Roma 5 giugno 1937, p. 24)

Anzillotti (1909)

«Non esagero affermando che Livorno è la città della speculazione mediocre, l’emporio del trafficante gretto, che non conosce arditezze di nessuna sorta, vive alla giornata e si racchiude gelosamente nel suo stretto cerchio di attività. [...]
Qui gli affari hanno soffocato ogni forza ideale; qui non si contratta, si vende; ma non si studia: chi vuol studiare sa come fare: Pisa è vicina; essa è la città che vive della sua università ed è quindi lo studio aperto al livornese che ne ha voglia: là bisogna andare. [...]
La Biblioteca Labronica è discreta; ma mostra bene coi suoi cataloghi ch’essa non ha un progresso proprio, vitale, sotto l’impulso, che viene dalla richiesta, dall’interessamento giornaliero, dai suggerimenti, dai bisogni improrogabili del ceto fisso e serio degli studiosi. Il Municipio e la Commissione dirigente cercano di mandarla avanti nel miglior modo possibile e di migliorarla; ma spesso quest’opera rassomiglia troppo a ciò che si fa nel cantiere per quei vecchi navigli, ai quali si tappano le falle e si rende più moderna l’alberatura, per rimediare alla costruzione antiquata. Una biblioteca, che ha una media di una ventina di lettori al giorno, i più dei quali ricercano (a testimonianza dei registri di richieste) un libro o una [...] lettura, per ammazzare un po’ meglio un’ora del giorno, non può che rivelarci una vita artificiale, che ha bisogno sempre, mi si passi la frase, dell’aiuto dell’ossigeno da parte dei suoi dirigenti. La biblioteca vivacchia, ecco tutto: ma non ha un carattere, un’attività propria, sia pur ristretta, come l’ha quella universitaria di Pisa. – In essa non ha fatto il suo ingresso ancora molta parte di ciò che in quest’ultimi anni ha prodotto il pensiero italiano e straniero di più vitale, di più originale. Se possiede qualche volume di data recente divenuto notissimo, manca degli strumenti più importanti per una ricerca filologica e letteraria; non sembra che abbia molta simpatia per le scienze sociali, se non può darci alcun lavoro recente di economia politica, se disdegna di avere gli studi che illustrano i movimenti sociali moderni e che ormai son penetrati nella pubblica discussione e nel gran pubblico, ed è priva dei libri che rispecchiano la profonda crisi religiosa e morale che tormenta l’età nostra. Si vogliono esempi? Li credo inutili: chi vi è stato lo ha potuto constatare: ma, se posso citare a casaccio, come mi ha detto la memoria, ricorderò che la Labronica non possiede un sol volume di Giorgio Sorel, di Gaetano Salvemini, di Giovanni Gentile; che non ha i saggi famosi di Antonio Labriola; che non ha mai acquistate edizioni, almeno discrete, delle opere classiche della filosofia italiana e straniera, come, per esempio, dell’Hegel; che ignora l’esistenza della «Critica» del Croce e non può aiutare nei suoi studi qualunque studente, che abbia bisogno di un manuale di economia, quali possono essere il Gide, il Supino, il Pareto, o di uno dei grandi trattati della storia della letteratura classica, come può essere lo Schanz. – Ma questo è facilmente spiegabile: chi capita in quella sala deserta chiederà sempre – e potrà ottenere – libri di conoscenza comune: sarebbe ingenuo domandare ad una biblioteca, abbandonata dal pubblico, gli strumenti più raffinati della nuova coltura.»
(Antonio Anzillotti, Livorno, «La Voce», 1, n. 40 (16 settembre 1909), p. 163-164)

Arbasino-Gadda (1963)

«Negli anni Trenta l’Ingegnere [Carlo Emilio Gadda] si interessa soprattutto di fenomeni «proibitissimi dal fascismo... venuti dal di fuori... ‘esterofilo’: parola cara al duce, carica di condanna...». Studia per esempio («per quanto senza possibilità di approfondire... costretto dal lavoro...») la matematica di Einstein, appunto, e la psicanalisi: «Quando molti ritenevano l’idea volgare che Freud fosse un pervertito... e neanche a parlare di Breuer, Charcot...». Rivolge cioè la sua attenzione ad alcune fondamentali discipline scientifiche moderne ignorate o trascurate dalla maggior parte dei letterati di quell’epoca, e praticamente mai integrate sul serio nella nostra cultura umanistica. «Avevo già frequentato a Milano come socio di una biblioteca molto bene – e milanesemente – organizzata (il Circolo Filologico) i precursori: appunto Charcot, Breuer... molti altri... e anche gli psicologi positivisti; ricordo L’intelligenza nel regno animale di Tito Vignoli, psicologo lombardo. [...]».
[...]
Ma perché è andato a Firenze? «Manzonianamente... e anche un po’ come un inglese (senza quattrini) del ’700... Per imparare la lingua e frequentare le biblioteche fiorentine (e pensare che poi non ne ho avuto quasi mai il tempo!)... Il Vieusseux e la Marucelliana hanno sostituito nel mio positivismo illuministico la vecchia organizzatissima biblioteca milanese».»

(Alberto Arbasino, L'ingegnere in blu, p. 45. La conversazione di Arbasino con Gadda è uscita nel quotidiano «Il giorno» del 24 aprile 1963 ed è stata poi inclusa da Arbasino nei suoi volumi Sessanta posizioni (1971) e Certi romanzi (1977) e in una raccolta di interviste di Gadda).

Argento (2019)

«[FA] Ha raccontato spesso l’occulto. Ci crede?
[DA] «Non molto. Mi interessa per lo più come espediente letterario, sia da lettore che da narratore. In passato ho frequentato spesso la Biblioteca Angelica a Roma. Ci andavo per documentarmi ma anche per il piacere della lettura. Lì è possibile trovare i testi proibiti, i codici segreti, i manoscritti vietati dalla Santa Inquisizione. Alcuni sostengono tesi assurde, altri appaiono più verosimili, ma li ho sempre trovati estremamente affascinanti»».

(intervista di Fabrizio Accatino a Dario Argento intitolata: Dario Argento: “Scrivo racconti così prende forma la mia metà oscura”)

Cfr. Rossana Morriello, Intrigo alla Biblioteca Angelica, «Biblioteche oggi», 37, luglio-agosto 2019, p. 63-65.

Assunto (1989)

«Fu al termine di una lezione su Protagora: in una di quelle associazioni fulminee che del suo insegnamento erano il fascino ma anche la difficoltà, Egli passò a parlarci di Pirandello [...].
Sino a quel giorno, Pirandello, almeno per quello che mi riguarda, era stato un semplice nome. Ma Antonello Dato ricorderà che usciti di classe fummo in molti a cercare le opere di Pirandello, dal libraio oppure alla Biblioteca Comunale.»
(Rosario Assunto, Luca Pignato, teorico dell'arte, in: Luca Pignato nella cultura italiana del Novecento, p. 33-46: 33-34. L'episodio deve collocarsi verso il 1932, al Liceo classico di Caltanissetta, in cui Pignato insegnava filosofia e storia).

Avati (2013)

«La folgorazione avvenne a quindici anni, un giorno che ero malato d'influenza. Dopo avermi isolato a casa della zia Laura e dello zio Tini perché non contagiassi i miei fratelli, mia madre mi portò alcuni libri che aveva pescato come sempre alla biblioteca circolante della chiesa di San Giuseppe [a Bologna]. Sceglieva dei titoli a caso, e tra le novità quella volta c’era un libretto appena uscito per Mondadori, scritto da un certo Jain Lang che s’intitolava Il Jazz. Conteneva delle biografie, ognuna non più lunga di sei-sette pagine, ma erano presenti tutti i principali protagonisti della scena musicale americana: Louis Armstrong, Duke Ellington, Benny Goodman...
L’ultima vita raccontata era quella di Bix Beiderbecke, e quando arrivai al suo capitolo capii che quel Bix era esattamente come me, con lo stesso rapporto con la famiglia, la stessa voglia di uscire dai codici comportamentali, però al contempo anche la stessa necessità di tenere insieme il rapporto coi genitori e i fratelli, di non lasciare niente, di rendere tutto compatibile pur non perdendosi le opportunità che c’erano là fuori, ossia: l’America.»
(Pupi Avati, La grande invenzione).

«In realtà non so ancora nulla di come si fa un film, o meglio ho un sacco di conoscenze, ma sono tutte teoriche e fondate sulla lettura di moltissimi libri (già all'epoca decisamente datati), che vado a pescare alla Biblioteca dell'Archiginnasio. Spiegano per filo e per segno l’estetica cinematografica, ma sul fronte pratico, della sintassi, della grammatica, di come si gira un film o di come si proceda a un montaggio, non dicono nulla e io continuo ad averne un'idea molto vaga.»
(ivi).

Bacchelli (1959)

«È una domanda, chiedendo scusa di cominciar da un fatto personale, che mi sono sentito rivolgere più volte.
Infatti, passo per un uomo di molte letture; e se dicessi di averne fatte poche, sarebbe un’insulsa falsa modestia. Ma ho con me in casa, nel mio scrittoio, così scarso numero di libri, che ogni tanto capita qualcuno, che mi chiede: – Ma i tuoi libri, dove li hai?
Rispondo: – In biblioteca; – ossia, tanto per dire, in Milano, a Brera, o all’Ambrosiana o in Castello; in Bologna, all’Universitaria o all’Archiginnasio; e continuerei così di città in città, in quante biblioteche mi ha condotto il lavoro: ma ecco che questa dell’Archiginnasio bolognese, edificio di per sé solo nobile e memorando monumento della civile dignità degli studi nel ricordo si lega con le appassionate stagioni di grandi letture, dell’adolescenza e della prima gioventù.
E non allungo l’elenco perché mi sopravviene il ricordo di quanto ho sentito dire qualche anno fa da un dotto umanista americano: che Roma, nel complesso delle sue varie ed insigni biblioteche, è probabilmente la città più ricca di libri che sia al mondo. E tanto basta, riassuntivamente, in gloria del patrimonio librario italiano. Questa gloria risplende in ogni città e sede di antica e nuova civiltà italiana, s’esprime originalmente da ognuna fra tante sorgenti di luce, e le illumina e comprende tutte in un comune lume superiore».

(Riccardo Bacchelli, «Dove hai i tuoi libri?», p. 23. Conversazione tenuta alla Radio per la Settimana delle biblioteche, poi pubblicata anche in R. Bacchelli, Confessioni letterarie, Milano, Mondadori, 1973, p. 441-445, con piccoli ritocchi al testo, fra i quali, dove si citano le biblioteche milanesi, «alla Comunale» invece di «in Castello», essendo la biblioteca stata ricostituita, dopo la distruzione della seconda guerra mondiale, non più al Castello Sforzesco ma a Palazzo Sormani).