LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

N.B. La casella di ricerca qui sotto opera soltanto sul titolo della testimonianza (di norma, cognome dell'autore e anno).
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Risultati della ricerca

Calamandrei (1944)

«Alla Biblioteca Nazionale [di Roma] perdo un’ora per sfogliare Chroniques de l'oeil-de-boeuf di Touchard-Lafosse, propostemi da Smeriglio per la traduzione. Non c’è in esse assolutamente nulla che valga la pena. Uscendo, trovo lo stesso Smeriglio indaffarato intorno ai cataloghi, in cerca di titoli. Mi dice che è sulle tracce nientedimeno delle memorie del parrucchiere di Maria Antonietta (!). Più tardi, a Documento, firmerò il contratto per il Coeur Simple.».

(Franco Calamandrei, La vita indivisibile, p. 169; poi riproposto in nuova edizione e con una Nota introduttiva di Silvia Calamandrei, Firenze, Giunti, 1998, p. 209. Marco Smeriglio fu segretario di redazione della Anonima Documento Editrice (qui evocata), fondata e diretta da Federigo Valli; è probabile che le «memorie del parrucchiere di Maria Antonietta» citate nella testimonianza vadano identificate con i Souvenirs de Léonard, coiffeur de la reine Marie-Antoinette, stampate a Parigi nel 1838 e composte da Léonard Autié, stilista e impresario teatrale noto con il soprannome di Monsieur Léonard, e che fu il parrucchiere favorito della regina di Francia Maria Antonietta).

Calasso (2021)

«Mettendo piede a Palazzo Strozzi, la prima porta sulla destra era quella del Gabinetto Vieusseux. Si entrava in una stanza vasta, con un lungo balcone, dietro il quale sedevano e si muovevano i commessi che avrebbero evaso le richieste dei soci. Li conoscevo tutti e godevo della loro benevolenza, che mi concedeva qualche privilegio nel numero dei libri che potevo prendere in prestito, essendo mio padre membro del consiglio. Il presidente era Bonsanti, che ogni tanto si vedeva uscire dal suo studio, con un'aria sommessa di alto funzionario coloniale.
La stanza adiacente era quella dei cataloghi. C'è un piacere specifico, molto intenso, legato ai cataloghi – e mi accadde di scoprirlo in quella stanza. Era un momento in cui cercavo gli scrittori americani, come d'obbligo in quegli anni, ma avevo anche sviluppato una passione per i gialli. E in quei cataloghi trovavo tutto. Con Simenon stranamente non cominciai dai Maigret, ma dai romans durs. Credo che Il testamento Donadieu sia stato uno dei primi. Cercavo anche i classici del giallo anglo-americano – Van Dine, Dickson Carr, Rex Stout, Edgar Wallace, Peter Cheyney. Più di una volta mi sono trovato davanti ai commessi insieme alla moglie del severo linguista Giacomo Devoto (mio padre, per spaventarmi minacciava di chiamarlo, come un orco, se commettevo qualche malestro), una signora di una certa età, che aveva i miei stessi gusti: voleva solo i puri gialli. Uscivamo talvolta con pile di libri degli stessi autori.
Mi affascinava, e ancor più mi piace oggi, come venivano rilegati i libri del Vieusseux. Sul piatto, una carta con un giglio e cinque scritte alternate: Biblioteca / Gabinetto / Scientifico / Letterario / G. Vieusseux. Visione riposante e rassicurante. Ma ancora più attraente era il dorso in tela color sabbia, dove il nome dell'autore e il titolo erano scritti in corsivo e separati da una riga orizzontale. In basso, un numero. Era una soluzione originale, di sottile eleganza, che non ho mai trovato altrove.
Per un caso che non so bene spiegarmi, è rimasto fra i miei libri uno di questi volumi del Vieusseux. Sul dorso si legge: Fargue / riga orizzontale / Poésies. È un libro del '63, quindi devo averlo preso in prestito quando già da dieci anni ci eravamo trasferiti a Roma. Per me è un relitto amato, che mi riconduce a un autore a cui torno sempre, anche solo per il suono della sua lingua, come a un vecchio vizio.».

(Roberto Calasso, Memè Scianca, Milano, Adelphi, 2021, p. 57-59).

Calcagno (1938)

«Due innovazioni nel campo bibliotecnico, allora assai limitato in Italia, si devono a Domenico Gnoli: la Sala di studio e il nuovo sistema di Catalogo generale alfabetico [nella Biblioteca nazionale di Roma]. Per separare dal pubblico più movimentato e meno esigente la schiera dei veri studiosi, fu istituita una Sala riservata, corredata di ricco materiale bibliografico di consultazione messo a loro diretta disposizione, dove non era imposto limite al numero delle richieste dei libri, che venivano ritirati solo quando il lettore non ne aveva più bisogno. Di questa sala fruirono largamente dotti italiani e stranieri, fra i quali ultimi ricordo il Gregorovius e il Mommsen che ebbero con lo Gnoli maggiore dimestichezza.
[...]
L'onorarono nel suo ufficio le maggiori personalità della letteratura e dell'arte, stranieri e italiani che di passaggio per Roma venivano in Biblioteca o per loro necessità culturali o per visitarlo: ricordo fra gli altri molti Carducci, Pascoli e D'Annunzio, le cui non infrequenti visite erano subito segnalate dal personale di servizio il quale gareggiava nel riaccompagnare il poeta alla sua vettura che l'attendeva al portone, recando i volumi da lui presi in prestito e ricevendone in compenso mance più che regali. Il Re Vittorio Emanuele e la Regina Margherita lo ebbero assai caro. Venne a visitare la biblioteca il Re, pochi mesi dopo la sua assunzione al trono [agosto 1900]: il Sovrano volle tutto vedere e di tutto informarsi, in tutto rivelando una competenza insospettata. Le tre mostre di cui si è detto ebbero le visite minuziose e attente così del Re come della Regina Margherita: l'interessamento loro e il godimento che ne riportarono fu grande, e ampiamente e cordialmente manifestato.».

(Guido Calcagno, Domenico Gnoli bibliotecario (nel centenario della sua nascita), p. 152, 154-155).

Calogero (1927-1950)

«Io son qui da quasi due settimane e mi trovo bene. Le lezioni non m'interessano gran che [...]: viceversa lavoro molto in biblioteca, utilizzando le possibilità di studio che qui sono davvero ottime. Non è tale, invece, la conoscenza che qui si ha della miglior cultura italiana contemporanea.»
(Guido Calogero, lettera a Benedetto Croce da Heidelberg, [dicembre 1927?], p. 14-15).

«Caro Senatore,
mi capita sott'occhio qui (dove sono stato invitato come Visiting Professor of Philosophy alla McGill Univ.) un catalogo di un libraio antiquario di New York, con un «numero» che non so se possa interessarLa, riguardando l'Erotilla del poeta secentesco Giulio Strozzi. Debbo confessarLe che non rammento se Lei si sia occupato dello Strozzi nel suo volume sulla letteratura del Seicento o nella Storia dell'età barocca: e purtroppo nella biblioteca qui dell'Università (che pure possiede un numero cospicuo di Suoi libri, nei testi originali e in traduzioni) quei due volumi mancano (ho già detto che li comprino, ma ci vuol tempo perché arrivino), e non posso riscontrare.»
(Calogero, lettera a Croce da Montreal, 24 gennaio 1949, p. 92-93).

«La ringrazio dell'interesse col quale mi domanda notizie della vita dell'Istituto [italiano di cultura a Londra], che pensavo del resto, prima o poi, di mandarLe. Dopo un periodo iniziale di molto intense manifestazioni culturali (mostre, concerti, ecc.), nella prima parte dell'estate (l'Istituto è stato inaugurato dal Ministro Sforza e dall'Ambasciatore Gallarati Scotti nel giugno scorso: io ne ho assunto la direzione il primo settembre), ci siamo ora messi sulla via di una laboriosa e continuativa attività ordinaria: abbiamo iniziato nove corsi di lingua, letteratura, storia e filosofia [...].
Mi faccio ardito a chiederLe questo, perché molti dei nostri studenti non sono ricchi, spesso lavorano tutto il giorno e vengono la sera ai nostri corsi: per alcuni compreremo del resto i volumi come testi aggiunti della biblioteca e li daremo loro in prestito (la biblioteca dell'Istituto, parzialmente costituita con parte dei libri già appartenenti alla biblioteca dell'Istituto italiano di Bucarest, ora chiuso, è abbastanza buona: le principali collezioni dei classici italiani sono quasi complete, e almeno tre palchetti son pieni di suoi volumi. Del resto anche la biblioteca della McGill University, che non è molto ricca, aveva già al mio arrivo una cinquantina di suoi libri e opuscoli, e altri naturalmente ho fatti acquistare io). [...]
Voglio soltanto dirLe che cerchiamo anche di venire incontro agli studiosi che ci domandano ricerche al British Museum, dall'Italia: ne ho fatta io stesso una per Alessandro Galante Garrone, sui rapporti tra Filippo Buonarroti e il cartista irlandese Bronterre, che si sta rivelando piuttosto contagiosa perché altri studiosi se ne stanno interessando, e forse ne verrà fuori un libro su Bronterre, figura non molto nota e interessantissima di pre-fabiano. Un'altra piccola ricerca stiamo facendo, per Firpo, su Francesco Pucci in Inghilterra. [...]
Non so se posso esserLe utile in qualcosa qui. Se avesse bisogno di qualche ricerca al British Museum o altrove, pensi che niente mi sarebbe più grato che venire incontro a un Suo desiderio.»
(Calogero, lettera a Croce da Londra, 31 ottobre 1950, p. 97-100).

Calvino (1943)

«Mi sono da alcuni giorni abbonato alla famosa biblioteca «gabinetto Vieusseux» e faccio partire un libro al giorno con grave pericolo per l’esame che ho da dare tra una settimana. Basterebbe questo solo fatto per farmi restare a Firenze vita natural durante.»

(Italo Calvino, lettera a Eugenio Scalfari, Firenze 14/15 febbraio 1943, p. 115).

Calvino (1953)

«In Panduria, nazione illustre, un sospetto s'insinuò un giorno nelle menti degli alti ufficiali: che i libri contenessero opinioni contrarie al prestigio militare. [...]
Lo Stato Maggiore di Panduria si riunì per fare il punto sulla situazione. Ma non sapevano da che parte cominciare, perché in materia bibliografica nessuno di loro era molto ferrato. Fu nominata una commissione d'inchiesta, al comando del generale Fedina, ufficiale severo e scrupoloso. La commissione avrebbe esaminato tutti i libri della più grande biblioteca di Panduria.
Era questa biblioteca in un antico palazzo pieno di scale e di colonne, scrostato e qua e là cadente. Le sue fredde sale erano stipate di libri, strapiene, in parte impraticabili; solo i topi potevano esplorarle in tutti gli anditi. Il bilancio dello Stato panduro, gravato da ingenti spese militari, non poteva provvedere a alcun aiuto.
I militari presero possesso della biblioteca un piovoso mattino di novembre. [...]
Furono messe sentinelle alle porte, e un cartello che vietava l'ingresso, «causa le grandi manovre, fino a tutta la durata delle stesse». [...] Gli studiosi che usavano recarsi in biblioteca ogni mattino, tutti incappottati, con sciarpe e passamontagna per non gelare, dovettero tornarsene indietro. Perplessi, si chiedevano: – Ma come, le grandi manovre in biblioteca? Ma non metteranno in disordine? E la cavalleria? E faranno pure i tiri?
Del personale della biblioteca rimase solo un vecchietto, il signor Crispino, reclutato perché spiegasse agli ufficiali la dislocazione dei volumi. Era un tipo bassottino, con la testa calva a uovo, e occhi come capocchie di spillo dietro gli occhiali a stanghetta.
Il generale Fedina si preoccupò innanzitutto dell'organizzazione logistica, [...] si procurarono rifornimenti di viveri, alcune stufe da caserma, una provvista di legna cui andarono a aggiungersi alcune raccolte di vecchie riviste, reputate poco interessanti. Mai c'era stato tanto caldo in biblioteca [...].
A ognuno dei tenenti furono assegnate determinate branche dello scibile, determinati secoli di storia. Il generale avrebbe controllato lo smistamento dei volumi e apposto timbri diversi a seconda se il libro era dichiarato leggibile per gli ufficiali, i sottufficiali, la truppa, oppure andava denunziato al Tribunale militare.
E la commissione cominciò il suo servizio. Ogni sera la radio da campo trasmetteva il rapporto del generale Fedina al comando supremo. «Esaminati volumi numero tanti. Trattenuti come sospetti tanti. Dichiarati leggibili per ufficiali e truppa tanti». Di rado quelle fredde cifre erano accompagnate da qualche comunicazione straordinaria: la richiesta di un paio di occhiali da presbite per un tenente che aveva rotto i suoi, la notizia che un mulo s'era mangiato un raro codice di Cicerone lasciato incustodito.
Ma avvenimenti di portata ben maggiore andavano maturando [...]. La foresta dei libri anziché sfoltirsi, pareva farsi sempre più aggrovigliata ed insidiosa. Gli ufficiali si sarebbero smarriti, non fosse stato per l'aiuto del signor Crispino. Per esempio, il tenente Abrogati s'alzava in piedi di scatto e buttava sul tavolo il volume che stava leggendo: – Ma è inaudito! Un libro sulle guerre puniche che parla bene dei cartaginesi e critica i romani! Bisogna subito fare la denuncia! – [...]. Col suo passo silenzioso nelle pantofole felpate, gli s'avvicinava il vecchio bibliotecario. – E questo è niente – diceva, – legga qui, [...] e gli sottoponeva una pila di volumi. Il tenente cominciava a sfogliare i volumi, nervoso, poi più interessato leggeva, prendeva appunti. E si grattava la testa borbottando: – Perbacco! Ma quante se ne imparano! Ma chi l'avrebbe detto! – Il signor Crispino si spostava verso il tenente Lucchetti che chiudeva un tomo con furia, dicendo: – Bella roba! Qui hanno il coraggio d'esprimere dei dubbi sulla purezza degli ideali delle Crociate! Signorsì, delle Crociate! – E il signor Crispino, sorridente: – Ah, guardi che se deve fare un verbale su quell'argomento, posso suggerirle qualche altro libro, dove può trovare più dettagli – e gli tirava giù mezzo scaffale. [...]
Nel comunicato serale della commissione, la cifra dei libri esaminati era sempre più grossa, ma non si riportava più alcun dato sui verdetti positivi o negativi. I timbri del generale Fedina restavano inoperosi. Se egli, cercando di controllare il lavoro dei tenenti, chiedeva a uno di loro: – Ma come mai ha lasciato passare questo romanzo? La truppa ci fa più bella figura degli ufficiali! È un autore che non rispetta l'ordine gerarchico! – il tenente gli rispondeva citando altri autori, e impelagandosi in ragionamenti storici, filosofici e economici. Ne nascevano discussioni generali, che continuavano ore e ore. Il signor Crispino, silenzioso nelle sue pantofole, quasi invisibile nel suo camice grigio, interveniva sempre al momento giusto, con un libro che a suo parere conteneva particolari interessanti sull'argomento in questione, e che aveva sempre l'effetto di mettere in crisi le convinzioni del generale Fedina.
Intanto i soldati avevano poco da fare e s'annoiavano. Uno di loro, Barabasso, il più istruito, chiese agli ufficiali un libro da leggere. Lì per lì volevano dargliene uno di quei pochi che erano già stati dichiarati leggibili dalla truppa; ma pensando alle migliaia di volumi che restavano ancora da esaminare, al generale rincrebbe che le ore di lettura del soldato Barabasso andassero perdute ai fini del servizio; e gli diede un libro ancora da esaminare, un romanzo che pareva facile, consigliato dal signor Crispino. Letto il libro, Barabasso doveva riferirne al generale. Anche altri soldati chiesero e ottennero di far lo stesso. Il soldato Tommasone leggeva a alta voce a un suo camerata analfabeta, e questi diceva il suo parere. Alle discussioni generali cominciarono a partecipare anche i soldati.
Sul proseguimento dei lavori della commissione non si conoscono molti particolari: quello che successe nella biblioteca nelle lunghe settimane invernali non è stato riportato. [...] Il comando supremo cominciò a allarmarsi; trasmise l'ordine di concludere l'inchiesta al più presto e di presentare un'esauriente relazione.
L'ordine giunse alla biblioteca mentre l'animo di Fedina e dei suoi uomini era combattuto da opposti sentimenti: da un lato stavano scoprendo ogni momento nuove curiosità da soddisfare, stavano prendendo gusto a quelle letture e a quegli studi come mai prima avrebbero immaginato; d'altro canto non vedevano l'ora di tornare tra la gente, di riprendere contatto con la vita che appariva loro adesso tanto più complessa, quasi rinnovata ai loro sguardi; e d'altro canto ancora, l'approssimarsi del giorno in cui dovevano lasciare la biblioteca li riempiva d'apprensione, perché bisognava render conto della loro missione, e con tutte le idee che andavano loro rampollando in capo non sapevano più come cavarsi d'impiccio.
A sera guardavano dalle vetrate le prime gemme sui rami illuminate dal tramonto, e le luci della città accendersi, mentre uno di loro ad alta voce leggeva i versi d'un poeta. Fedina non era insieme a loro: aveva dato ordine d'esser lasciato solo al suo tavolo, perché doveva stendere la relazione finale. Ma ogni tanto s'udiva il campanello suonare e la sua voce chiamare: – Crispino! Crispino! – Non poteva andare avanti senza l'aiuto del vecchio bibliotecario, e finirono per sedersi allo stesso tavolo e stendere la relazione insieme.
Un bel mattino finalmente la commissione usci di biblioteca e andò a rapporto al comando supremo; e Fedina illustrò i risultati dell'inchiesta davanti allo Stato Maggiore riunito. Il suo discorso era una specie di compendio della storia dell'umanità dalle origini ai nostri giorni, in cui tutte le idee più indiscutibili per i benpensanti di Panduria erano criticate [...]. Il consesso dei generali di Panduria allibì, sbarrò gli occhi, ritrovò la voce, gridò. Il generale non poté neppure finire. Si parlò di degradazione, di processo. Poi, per timore di scandali più gravi, il generale e i quattro tenenti furono mandati in pensione per motivi di salute, causa «un grave esaurimento nervoso contratto in servizio». Vestiti in abiti civili, furono visti spesso entrare, incappottati e imbottiti per non gelare, nella vecchia biblioteca, dove li aspettava il signor Crispino coi suoi libri.»

(Italo Calvino, Il generale in biblioteca, p. 935-940. Il racconto fu pubblicato il 30 ottobre 1953 sull'edizione di Torino de «L'unità» (30, n. 254, p. 3) e poi nel corso di novembre nelle edizioni di Milano, Genova e Roma).

Calvino (1959)

«Da bordo, 3 nov. 59
[...]
La noia ha ormai per me l'immagine di questo transatlantico. Cosa mai ho fatto a non prendere l'aereo? [...]

I miei compagni di viaggio (Young creative writers)
[...].
CLAUDE OLLIER, francese, 37 anni, nouveau roman, finora ha scritto un solo libro. Voleva approfittare del viaggio per leggere finalmente Proust ma la biblioteca circolante del transatlantico non va più in là di Cronin.»

(Italo CalvinoDiario americano 1959-1960, in Eremita a Parigi, p. 26-27).

Calvino (1969)

«Per lunghi anni soffersi d'una nevrosi geografica: non riuscivo a stare tre giorni di seguito in nessuna città o luogo. Alla fine elessi stabilmente sposa e dimora a Parigi, città circondata da foreste e carpini e betulle, in cui passeggio con mia figlia Abigail, e circondante a sua volta la Bibliothèque Nationale, dove mi reco a consultare testi rari, usufruendo della Carte de Lecteur n. 2516.» 

(Italo Calvino, Una lettera in due versioni, p. 180-181. Lettera con notizie biografiche all'editore Franco Maria Ricci, per il volume Tarocchi, pubblicato nel 1969. Lo scrittore si era trasferito a Parigi nel 1967).

Calvino (1972a)

«Di tutti i cambiamenti di lingua che deve affrontare il viaggiatore in terre lontane, nessuno uguaglia quello che lo attende nella città di Ipazia, perché non riguarda le parole ma le cose. [...]
Non mi restava che interrogare i filosofi. Entrai nella grande biblioteca, mi persi tra scaffali che crollavano sotto le rilegature in pergamena, seguii l'ordine alfabetico d'alfabeti scomparsi, su e giú per corridoi, scalette e ponti. Nel piú remoto gabinetto dei papiri, in una nuvola di fumo, mi apparvero gli occhi inebetiti d'un adolescente sdraiato su una stuoia, che non staccava le labbra da una pipa d'oppio.
– Dov'è il sapiente? – Il fumatore indicò fuori della finestra. Era un giardino con giochi infantili: i birilli, l'altalena, la trottola. Il filosofo sedeva sul prato.»

(Italo Calvino, Le città invisibili, p. 53)

Calvino (1972b)

«Invasioni ricorrenti travagliarono la città di Teodora nei secoli della sua storia; a ogni nemico sgominato un altro prendeva forza e minacciava la sopravvivenza degli abitanti. Sgombrato il cielo dai condor si dovette fronteggiare la crescita dei serpenti; lo sterminio dei ragni lasciò le mosche moltiplicarsi e nereggiare; la vittoria sulle termiti consegnò la città in balia dei tarli. A una a una le specie inconciliabili con la città dovettero soccombere e si estinsero. [...]
La città, grande cimitero del regno animale, si richiuse asettica sulle ultime carogne seppellite con le ultime loro pulci e gli ultimi microbi. L'uomo aveva finalmente ristabilito l'ordine del mondo da lui stesso sconvolto: nessun'altra specie vivente esisteva per rimetterlo in forse. Per ricordo di quella che era stata la fauna, la biblioteca di Teodora avrebbe custodito nei suoi scaffali i tomi di Buffon e di Linneo.
Cosí almeno gli abitanti di Teodora credevano, lontani dal supporre che una fauna dimenticata si stava risvegliando dal letargo. Relegata per lunghe ere in nascondigli appartati, da quando era stata spodestata dal sistema delle specie ora estinte, l'altra fauna tornava alla luce dagli scantinati della biblioteca dove si conservano gli incunaboli, spiccava salti dai capitelli e dai pluviali, s'appollaiava al capezzale dei dormienti. Le sfingi, i grifi, le chimere, i draghi, gli ircocervi, le arpie, le idre, i liocorni, i basilischi riprendevano possesso della loro città.»

(Italo Calvino, Le città invisibili, p. 164-165)

Calvino (1979a)

«L'apparecchio sta atterrando: non sei riuscito a finire il romanzo Sul tappeto di foglie illuminate dalla luna di Takakumi Ikoka. Continui a leggere scendendo la scaletta, nel bus che attraversa il campo, nella coda per il controllo dei passaporti e la dogana. Avanzi reggendo il libro aperto davanti ai tuoi occhi, quando qualcuno te lo sfila di mano, e come all'alzarsi d'un sipario vedi schierati davanti a te poliziotti bardati di bandoliere di cuoio, ferrati d'armi automatiche, dorati d'aquile e spalline. [...]
– Sequestrato, signore. Quel libro in Ataguitania non può entrare. È un libro vietato. [...]
– Lascia perdere, – sussurra una voce dietro di te. – Non ti ci mettere, con questi. Per il libro non ti preoccupare, ne ho una copia anch'io, parleremo dopo... [...]
Dopo aver frugato nelle sue borse, Corinna ne tira fuori un libro e te lo dà.
– Ma non è questo, – dici, vedendo sulla copertina un titolo e un nome d'autore sconosciuti: Intorno a una fossa vuota di Calixto Bandera. – È un libro di Ikoka che m'hanno sequestrato!
– È quello che ti ho dato. In Ataguitania i libri possono circolare solo con copertine finte. [...]
[...]
– Sta' tranquillo e aspetta. Continua a leggere il tuo libro.
– Accidenti! L'ho perso quando m'hanno liberato, no, arrestato...
– Non importa. Quella in cui andrai ora è una prigione modello, con una biblioteca fornita delle ultime novità.
– Anche i libri proibiti?
– E dove si dovrebbero trovare, i libri proibiti, se non in prigione?
[...]
– Lei ha fatto reclamo alla biblioteca del carcere, per un volume incompleto, – dice l'alto ufficiale seduto dietro un'alta scrivania.
Tiri un respiro dì sollievo. Da quando un guardiano è venuto a chiamarti nella tua cella e t'ha fatto attraversare corridoi, scendere scale, percorrere anditi sotterranei, risalire gradini, attraversare anticamere e uffici, l'apprensione ti metteva addosso brividi e vampate di febbre. Invece, volevano semplicemente rispondere al tuo reclamo per Intorno a una fossa vuota di Calixto Bandera. Al posto dell'ansia, senti risvegliarsi in te il disappunto che t'ha preso quando ti sei visto in mano una copertina scollata che teneva insieme pochi quinterni sfilacciati e logori.
– Certo che ho fatto reclamo! – rispondi. – Vi vantate tanto della biblioteca modello del carcere modello, e poi quando si va a chiedere un volume regolarmente schedato in catalogo, si trova un mucchietto di fogli sfasciati! Domando io come potete proporvi la rieducazione dei detenuti con questi sistemi!
L'uomo alla scrivania si toglie lentamente gli occhiali. Scuote il capo con aria triste. – Non entro nel merito del suo reclamo. Non è di mia competenza. Il nostro ufficio, pur avendo stretti rapporti tanto con le carceri quanto con le biblioteche, s'occupa di problemi più vasti.»

(Italo Calvino, Se una notte d'inverno un viaggiatore, p. 820-822, 825-826. Il romanzo è stato pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 1979).

Calvino (1979b)

«Lettore, è tempo che la tua sballottata navigazione trovi un approdo. Quale porto può accoglierti più sicuro d'una grande biblioteca? Certamente ve n'è una nella città da cui eri partito e cui hai fatto ritorno dopo il tuo giro del mondo da un libro all'altro. Ti resta ancora una speranza, che i dieci romanzi che si sono volatilizzati tra le tue mani appena ne hai intrapreso la lettura, si trovino in questa biblioteca.
Finalmente ti s'apre una giornata libera e tranquilla; vai in biblioteca, consulti il catalogo; ti trattieni a stento dal lanciare un grido di giubilo, anzi: dieci grida; tutti gli autori e i titoli che cerchi figurano nel catalogo, diligentemente registrati.
Compili una scheda e la consegni; ti viene comunicato che nel catalogo ci dev'essere stato un errore di numerazione; il libro non si trova; comunque faranno delle ricerche. Ne chiedi subito un altro: ti dicono che risulta in lettura, ma non si riesce a stabilire chi l'ha richiesto e quando. Il terzo che chiedi è in legatoria; sarà di ritorno tra un mese. Il quarto è conservato in un'ala della biblioteca chiusa per restauri. Continui a riempire schede; per una ragione o per l'altra, nessuno dei libri che chiedi è disponibile.
Mentre il personale continua le sue ricerche, tu attendi con pazienza seduto a un tavolo insieme ad altri lettori più fortunati, immersi nei loro volumi. Allunghi il collo a sinistra e a destra per sbirciare nei libri altrui: chissà che uno di costoro non stia leggendo uno dei libri che cerchi.
Lo sguardo del lettore di fronte a te, anziché posarsi sul libro aperto tra le sue mani, vaga in aria. Non sono occhi distratti, però, i suoi: una fissità intensa accompagna i movimenti delle iridi azzurre. Ogni tanto i vostri sguardi s'incontrano. A un certo punto ti rivolge la parola, o meglio, parla come nel vuoto, pur rivolgendosi certamente a te:
– Non si meravigli se mi vede sempre vagare con gli occhi. In effetti questo è il mio modo di leggere, ed è solo così che la lettura mi riesce fruttuosa. [...]
– La capisco bene, – interloquisce un altro lettore, alzando il volto cereo e gli occhi arrossati dalle pagine del suo volume, – la lettura è un'operazione discontinua e frammentaria. [...] Per questo la mia lettura non ha mai fine: leggo e rileggo ogni volta cercando la verifica d'una nuova scoperta tra le pieghe delle frasi.
– Anch'io sento il bisogno di rileggere i libri che ho già letto, – dice un terzo lettore, – ma a ogni rilettura mi sembra di leggere per la prima volta un libro nuovo. [...]
Interviene un quarto: – Se volete insistere sulla soggettività della lettura posso essere d'accordo con voi, ma non nel senso centrifugo che voi le attribuite. Ogni nuovo libro che leggo entra a far parte di quel libro complessivo e unitario che è la somma delle mie letture. [...] Da anni frequento questa biblioteca e la esploro volume per volume, scaffale per scaffale, ma potrei dimostrarvi che non ho fatto altro che portare avanti la lettura d'un unico libro.
– Anche per me tutti i libri che leggo portano a un unico libro, – dice un quinto lettore affacciandosi da dietro una pila di volumi rilegati, – ma è un libro indietro nel tempo, che affiora appena dai miei ricordi. [...] Nelle mie letture non faccio che ricercare quel libro letto nella mia infanzia, ma quel che ne ricordo è troppo poco per ritrovarlo.
Un sesto lettore che stava in piedi passando in rassegna gli scaffali a naso alzato, s'avvicina al tavolo. – Il momento che più conta per me è quello che precede la lettura. Alle volte è il titolo che basta ad accendere in me il desiderio d'un libro che forse non esiste. Alle volte è l'incipit del libro, le prime frasi... Insomma: se a voi basta poco per mettere in moto l'immaginazione, a me basta ancor meno: la promessa della lettura.
– Per me invece è la fine che conta, – dice un settimo, – ma la fine vera, ultima, nascosta nel buio, il punto d'arrivo a cui il libro vuole portarti. [...]
È venuto il momento che anche tu dica la tua. – Signori, devo premettere che a me nei libri piace leggere solo quello che c'è scritto; e collegare i particolari con tutto l'insieme; e certe letture considerarle come definitive; e mi piace tener staccato un libro dall'altro, ognuno per quel che ha di diverso e di nuovo; e soprattutto mi piacciono i libri da leggere dal principio alla fine. [...]
– Mi può far vedere? – domanda il sesto lettore, prende l'elenco dei titoli, si toglie gli occhiali da miope, li mette nell'astuccio, apre un altro astuccio, inforca gli occhiali da presbite e legge ad alta voce [...]».

(Italo Calvino, Se una notte d'inverno un viaggiatore, p. 863-868. Il romanzo è stato pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 1979).

Camilleri (2006)

«Ho vissuto ad Enna per qualche anno, tra il 1946 e il 1948. Avevo ventun'anni. Partii a malincuore perché avrei dovuto lasciare per lungo tempo i miei amici, i miei amati libri, il mio mare. Fin dal primo giorno, guardando dalla terrazza del belvedere, capii che quello sconfinato panorama che si presentò ai miei occhi, di paesi vicini e lontani, di laghetti e di boschi, di monti ora azzurri ora bianchi di neve, avrebbe potuto anch'esso trasformarsi in mare, luogo di fantasie e di avventure. Bastava che io l'avessi voluto, e il pensiero mi consolò. [...]
Ma un giorno capitò una specie di miracolo. Mi dovetti recare al Municipio, non ricordo più perché. Nel cortile mi colpì una corrente di gradevolissima aria calda, che fuoriusciva da una porta sopra la quale c'era scritto "Biblioteca comunale". Entrai. Dentro non c'era nessuno, fatta eccezione di un tale, in maniche di camicia, che alimentava grossissime stufe, ora non ricordo più se a legna o a carbone. Si voltò, mi vide e mi domandò:
– Desidera?
– Niente, volevo solo guardare la biblioteca.
– Legge?
– Sì, molto.
– Venga con me.
Mi portò nel suo ufficio, si mise la giacca, si presentò: "Sono l'avvocato [Giuseppe] Fontanazza, il direttore". E cominciò a farmi da guida. Da quel giorno, andai tutti i giorni in biblioteca, un po' per i libri, un po' per il tepore di quelle grosse stufe. Con Fontanazza diventammo amici. Quando seppe che avevo pubblicato delle poesie volle leggerle. E fu allora che mi aprì le porte delle due stanze del tesoro. Contenevano i lasciti, non ancora schedati, di Francesco Lanza e di Nino Savarese, altro scrittore di quelle parti. E io, in quei due anni ennesi, proprio in quelle due stanzette, credo di essermi formato come scrittore.»

(testimonianza tratta dal documentario RAI Il luogo e la memoria. Prodotto nel 2006 e andato in onda su RAI Tre il 18 marzo 2010, il documentario è stato diretto da Vittorio Nevano, con testi e narrazione di Camilleri (che parla dalla sala di lettura della Biblioteca Angelica di Roma). Una versione leggermente differente della testimonianza, meno ricca di particolari, è stata pubblicata nello scritto Enna città dei ricordi)

Cancogni (2014)

«Un giorno mi telefona Cassola, che non vedevo da qualche mese, per una delle solite rotture. [...] Mi telefona e mi dice se gli porto un libro: anche lui faceva Legge e così ci si dette appuntamento all'Università, che allora [nel 1935] era stata trasferita alla Città degli Studi, mentre il primo anno di Università era stata in centro a Roma, nella vecchia Sapienza. In quel primo anno avevo scoperto la città, all'Università non ci andavo, entravo ma non andavo a lezione, nei miei quattro anni di Università avrò sentito venti lezioni, ma nemmeno, perché comunque mi piaceva andare là, ero uno studente universitario, dopotutto, era ancora una élite quella che poteva studiare, mica come oggi. [...]

[Capecchi:] Quindi fissasti l'appuntamento con Cassola per portargli il libro...
... e si comincia a chiacchierare. Per andare a Bassano, m'ero fermato a Venezia, dove non ero mai stato, ed ero andato a vedere la Biennale di pittura, importantissima. Si poteva vedere tutto, contrariamente a quello che poi si è creduto e soprattutto si è voluto far credere. Durante il fascismo si era informatissimi dell'arte, della musica, delle letterature; si poteva leggere tutto, anche i libri antifascisti, in biblioteca. Naturalmente non si poteva andare a fare propaganda...»

(Manlio Cancogni, Il racconto più lungo, p. 97-98).

«Ti ho già parlato del barbiere di Sarzana che era il mio istruttore, in un certo senso, perché mi dava delle indicazioni su come dovevo fare la propaganda comunista legalmente: «Tu devi mascherare questa propaganda attraverso la conoscenza della storia. Se tu spieghi la storia da un punto di vista marxista, fai propaganda e non è proibito dalla legge». In libreria si trovava anche il Manifesto del Partito Comunista, perché era in appendice ai Saggi sul materialismo storico del Labriola; e c'erano libri di storiografia marxista, come per esempio la Storia della Rivoluzione francese del Mathiez, la Storia moderna del Giappone, il Napoleone del Tarle, che si potevano prendere dal libraio. E poi si leggevano le Esperienze della guerra di Spagna del Matthews. C'era una libertà enorme di informazione durante il regime, giustamente deprecato, ma non per questo.»

(ivi, p. 113).

«[Capecchi:] Hai parlato dell'importanza che il Joyce di Dedalus e dei Dublinesi ha avuto per te e hai accennato a Proust e alla Recherche. I libri di Kafka hanno rappresentato per te una lettura importante?
Mi ha suggestionato. Lessi La metamorfosi in Biblioteca Nazionale [di Roma], prima della guerra, e rimasi schiacciato da questa lettura. Veramente: un senso di compassione così non l'avevo mai provato.»

(ivi, p. 138).

«Si stava a Roma: c'erano Mafai, Guttuso... Tra l'altro nel '36 avevo scoperto in biblioteca un volume dove c'era illustrata tutta la pittura impressionista, che in bianco e nero ci guadagna, suggerisce veramente qualche cosa di straordinario (quando la vai a vedere dal vivo, è sciupata dal tempo, è scurita). L'emozione, per me, fu travolgente: l'incontro, soprattutto, con Monet. Tanto che nel luglio del '36 mi fermai, come ti ho detto, alla Biennale di Venezia, dove, nelle sale della Francia, c'era una retrospettiva di Degas. [...] E così io coltivavo questo interesse per la pittura moderna.»

(ivi, p. 148).

«Io ci credo poco alle esercitazioni verbali, compreso Finnegans Wake, che io non ho mai affrontato, anche se con spirito religioso tenni tra le mani la prima copia che arrivò a Roma nel 1939, appena uscita, alla libreria Piave [ma Piale] in piazza di Spagna. Uscirono anche dei tentativi di traduzione in rivista, su "Prospettive", su "Oggi", un settimanale di grande tiratura: ma naturalmente non si può tradurre quella lingua. [...]
Io ero un ragazzino fino a diciotto anni. Ho cominciato a crescere veramente a diciotto-diciannove anni, all'Università, quando ho cominciato a frequentare la biblioteca (non l'Università che, come ti ho detto, frequentavo poco). C'è stata, come dire, un'educazione intellettuale che ha prevalso. Facevo delle grandi scoperte. Leggevo Schopenhauer, Nietzsche, Ibsen. Andavo un po' a casaccio. Ho cominciato a mettere ordine nelle letture quando ho conosciuto Cassola.»

(ivi, p. 155).

Canfora (2013)

«D. A questo punto vorrei introdurre il tema dei suoi studi antichistici e in particolare del suo lavoro su Tucidide, che è un analista raffinato dei fenomeni politici connessi a un grande conflitto. In che modo la sua attività scientifica si è intrecciata con le riflessioni sull’attualità?
R. A Bari il mio liceo aveva una bella biblioteca, con molti classici anche in edizioni importanti. Mi imbattei così prima in Tucidide e poi nelle Guerre civili di Appiano, altro libro per me capitale. Nel 1958 cominciai a leggere la storia della guerra del Peloponneso dal V libro, quello del dialogo tra gli Ateniesi e i Melii, e giunsi all’VIII, dove si parla del colpo di Stato avvenuto ad Atene nel 411 a.C. Qui Tucidide descrive come si suicida un regime democratico, votando in assemblea i provvedimenti che lo esautorano. Mentre mi davo con passione a queste letture, si svolgeva la crisi francese. Il Parlamento eletto nel 1956, in cui le sinistre (comunisti, socialisti e radicali) avevano la maggioranza, abdica di fronte agli sviluppi drammatici della guerra algerina. Il capo del governo socialista, Guy Mollet, si sposta a destra, alleandosi con i democristiani del Mrp. Poi diventa presidente del Consiglio il cattolico Pierre Pflimlin. Infine il presidente René Coty, nonostante Pflimlin, pur dopo il golpe di Algeri, avesse riottenuto la fiducia, accetta le sue dimissioni e designa come capo del governo il generale Charles de Gaulle, al quale l’Assemblea Nazionale conferisce poteri eccezionali. In sostanza è il suicidio della Quarta Repubblica francese. Ciò mi parve talmente inerente a quanto stavo leggendo da indurmi ad un tipo di indagine che trovo feconda, benché presenti gravi pericoli: il pensiero «analogico», che consiste nel riconoscere (quando si tratti di fenomeni politici) un nesso non velleitario fra dinamiche di epoche differenti che s’illuminano a vicenda.»

(Luciano Canfora, Intervista sul potere)