LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

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Risultati della ricerca

Bianciardi (1957)

«Dal meridione venne Simonetta, un salernitano grasso, con i baffi: aveva sposato una ragazza della nostra città, e gli avevano trovato quella sistemazione, come responsabile del lavoro culturale. [...]
Simonetta invece fece un’altra proposta concreta, per la crisi del libro: la biblioteca, si doveva utilizzare la biblioteca comunale, per farne un centro di lettura, di dibattito, di incontro. Intorno all’attività della biblioteca si poteva mobilitare un pubblico il piú possibile vasto di intellettuali cittadini, avvocati, professionisti, medici, insegnanti.
La biblioteca della nostra città era stata fondata da una singolare figura di prete garibaldino, illuminista e guerrazziano. Roma lo aveva sospeso a divinis [...]. I locali che ospitavano la biblioteca un tempo appartenevano ad un convento: la sala di lettura, dalle volte altissime, fresca e silenziosa, un tempo era stata il refettorio. C’erano molti cimeli preziosi, nella nostra biblioteca: trentadue incunabuli, di cui uno rarissimo, forse unico, molte cinquecentine, centinaia di manoscritti, un atlante del cinquecento illustrato a mano e un curioso libro su foglia di palma, in lingua tamil.
Non ci entrava quasi mai nessuno, perché il vecchio bibliotecario non amava i seccatori. Come molti dei suoi colleghi, considerava la biblioteca un suo luogo privato e cacciava con grandi urlacci i ragazzini del ginnasio che a volte si affacciavano là dentro e chiedevano di poter dare un'occhiata alle riviste. Era un ometto piccolo e grigio di capelli, sempre vestito di nero, con i polsini e il colletto di celluloide bianca; un tipo triste e misantropo, che viveva solo, con una vecchia serva, senza parenti né amici. Si chiamava Chellini Sforzi, due cognomi, come quasi tutti i bibliotecari, i quali in genere son persone modestissime, ma par che non badino all’economia, in fatto di nomi.
Simonetta fece venire un intellettuale da Roma, per una riunione a cui invitò una trentina di persone [...]. Spiegò quale sia l’ufficio di una biblioteca in un paese civile e moderno. La biblioteca italiana di solito si limita alla conservazione del glorioso nostro patrimonio bibliografico e anche nei registri del comune il bibliotecario vien definito “conservatore della biblioteca.” Un patrimonio ricchissimo, senza dubbio, ma sterile, ove non si proponga la diffusione della lettura e del sapere. Una biblioteca veramente moderna deve proporsi di andare incontro al lettore, invitarlo alla lettura, presentandogli il libro aperto. [...]
Prese subito la parola Simonetta [...]. Ripeté che una biblioteca moderna deve proporsi la diffusione del libro, e che quindi noi dovevamo, lí in biblioteca, prendere tutta una serie di iniziative in questo senso: letture, conferenze, dibattiti, diffusione del libro popolare. Potevamo giovarci delle numerose iniziative editoriali già esistenti, delle collane popolari, per esempio. [...]
Intanto bisognava che da quella prima riunione uscisse un comitato provvisorio, per preparare il programma di attività [...]. Si sarebbero riuniti fra quindici giorni, sempre in biblioteca.
Il vecchio Chellini Sforzi, seduto in un angolo, li stava a sentire con la faccia scura, visibilmente assillato dal pensiero che tutte quelle novità dovevano proprio accadere là dentro. Eppure doveva star zitto, perché c’era la sua pratica per la pensione già in corso, e sperava che il comune lo congedasse con l'abbuoni di cinque anni di servizio. [...]
Alla fine dell'anno Simonetta se ne andò. [...]
Per il lavoro culturale fecero venire Minuti, un elemento molto attivo, che si era messo in luce con la diffusione della stampa, a Campagnatico. [...]
Naturalmente andò da Marcello. [...] “Bene, bene, bravo professore, lo so che lei si è dato da fare. Bravo, bravo. Ora andremo avanti, vedrà, c’è da prendere tutta una serie di iniziative. Che ne pensa della biblioteca? Mi pare un po’ ferma, un po’... come dire? un po’ invecchiata. Non le pare? Ora che il vecchio Chellini Sforzi è in pensione potremmo rimodernarla, farla diventare un centro vivo di dibattito, di discussione, di diffusione della cultura. No? Insomma la biblioteca potrebbe diventare un po’, come dire? la nostra casa di cultura. Vedesse a Milano cosa fanno alla casa della cultura! Vedesse a Livorno [...]”.
E cosí, grazie a Minuti e al contributo del comune, trasformammo la nostra biblioteca. Comprarono la scaffalatura nuova, metallica, intensiva, a palchetti mobili. Riempirono di scaffali un intero stanzone, tante file bifronti di scaffali metallici disposti a pettine, a due piani, con un praticabile di lamiera e la ringhierina cromata: illuminazione al neon, un tubo per corsello. Sotto i libri, sopra i periodici. Per la sala di lettura comprarono mobili nuovi, un bel portariviste di legno e vetro, la vetrinetta per l’ingresso, dove esporre i recenti acquisti, gli avvisi per i soci e le locandine degli spettacoli. [...]
La settimana dopo venne uno da Roma [...], si congratulò per il nuovo assetto della biblioteca, tirò fuori dalla borsa alcuni opuscoli e disse che dovevamo organizzare tutta una serie di manifestazioni per la cultura giovanile [...].»

(Luciano Bianciardi, Il lavoro culturale, 3ª ed. accresciuta, Milano, Feltrinelli, 1974, p. 65, 68-70, 87-89, 91. La prima edizione uscì sempre da Feltrinelli nel 1957. La fondazione della Biblioteca comunale di Grosseto era stata dovuto al canonico Giovanni Chelli; era poi stata diretta per circa un ventennio, dal 1921 in poi, dal sacerdote Antonio Cappelli, e quindi per un breve periodo da Maria Emilia Broli. Dopo i danni della guerra, Bianciardi la riordinò dal principio del 1949 e la diresse fino all'agosto 1954).

Bianciardi (1962)

«Come tutti sanno, nel 1773 i compagni di Gesù si scompagnarono e così [...] la cattolicissima imperatrice Maria Teresa [...] riunì là dentro il lascito librario del munifico conte Pertusati, la vecchia biblioteca dell’ordine [dei Gesuiti], altre raccolte minori, e aprì alla cittadinanza colta una nuova e doviziosa fonte del sapere.
Intendiamoci: tutte queste cose io le ho imparate proprio alla vecchia Braida del Guercio, perché amo documentarmi e non parlare mai a casaccio. Nemmeno con gioia, lo confesso – e lo confesso volentieri perché dà più merito alle mie fatiche di ricercatore. Ci entravo ogni volta con una specie di trepida ansia, che somigliava assai allo sbigottimento. Già mi intimoriva, nella sala dei cataloghi, fra i grossi tomi dei vecchi repertori manoscritti – dove l’inchiostro arsenicato invecchiando luccica e rode la carta, pur ottima, di duecento anni or sono – e le cassettine dei nuovi accessi (nuovi per modo di dire, in realtà appena posteriori al 1924 e fermi a prima della guerra), già mi intimoriva il grosso ritratto incombente dell’imperatrice, paffuta e vestita di nero, con in mano una cartapecora penzoloni che non guardava, perché teneva fissi su di me gli occhi materni, anzi nonneschi. [...].
Mi intimoriva lo sguardo di questa nonna pasciuta, serissima e forse un po’ avara, che occupava mezza parete, appesa alla balconata di legno, in mezzo alle scaffalature altissime, su su fino alle volte con graffiti i ritratti di Virgilio, Orazio, Lucano eccetera. E con una punta di angoscia consegnavo il talloncino giallo delle richieste agli impiegati dietro il bancone.
Non so per quale disposizione ministeriale, questi giovani addetti alla consegna dei libri in lettura erano quasi tutti mutilati alle mani. A chi mancava un dito, a chi due, a chi tutti e cinque. Qualcuno aveva la mano di legno e cuoio dentro il guanto nero, ferma e secca nella positura di chi te la offre alla stretta, ma senza poterla stringere. Né poter segnare sulla scheda di richiesta il numerino corrispondente al tuo nome; tanto vero che qualcuno aveva dovuto imparare a scrivere con la mano buona (buona in senso relativo, a scrivere insomma con le tre dita residue della mano sinistra), oppure ad aiutare il moncherino intervenendo con la bocca; e allora vedevi l’uomo chino sul tavolo scapeare iroso, furibondo, sembrava, i denti serrati sul mozzicone della matita. E io sinceramente mi sentivo in colpa, d’aver chiesto il libro e di costringere questo pover’uomo, in tutto eguale a me fuor che nel numero delle dita, a un simile inverecondo calvario.
Le schede di richiesta sparivano dietro una porticina, e qualcuno certo saliva su, per soppalchi e soffitte, a cercare il libro polveroso. Io non ci sono mai stato, ma mi hanno detto che i depositi della biblioteca erano e sono stipatissimi, accessibili per passaggi e cunicoli e pertugi stretti, e così bassi che un uomo di normale statura difficilmente li raggiungerebbe. Ecco perché – me l’hanno detto, ma io veramente con gli occhi miei non li ho mai visti, e non potrei quindi giurarci – la direttrice della biblioteca – aveva un nome tedesco, questa signora, ad accrescere il mio sbigottimento, quasi fosse una nipote, o una protetta, insomma una fiduciaria dell’imperatrice dei talleri – la direttrice della biblioteca utilizzava per il ritrovamento dei libri alti uomini di piccolissima statura, reclutati in Val Brembana, e forse anche nani autentici da circo equestre.
E nemmeno quietavano i miei rimorsi i lettori abituali, quelli che entravano in sala grande: in trepida attesa del mio libro – una miscellanea sulle origini della biblioteca per esempio – vedevo sfilare ora una ragazza paraplegica, la gamba sinistra sottilissima e il piedino sghembo, ora un vecchio coi capelli bianchi irsuti e scomposti, il capo torto da un lato, gli occhi sbarrati, o strabici, o abbogliorati dalla cataratta, ora persino un infermo sulla carrozzella da invalido, spinto da un’anziana donna vestita di nero e con la cuffia, che sembrava una monaca. Non vedevo l’ora di consegnare il talloncino giallo al banco della restituzione, varcare la porta a vetri, e prendere giù per l’ampio scalone.
Tutt'altra cosa, là fuori. I gradini erano larghi e comodi, tagliati per piedi cardinalizi. [...]. A scendere quello scalone capivi di aver sbagliato chissà quante scelte importanti, in vita tua; nemmeno il passo era giusto, inadeguato per via dei calzoni che dismagano l'onestà dell'incedere. Erano scalini da scendere in tonaca, con piede posato e solenne e comodo.
Alla svolta della prima rampa una vaschetta di bronzo appesa al muro avvertiva gli entranti di spegnere il sigaro, ed anche quella scritta mi intimoriva, mentre accendevo la nazionale e posavo con cura là dentro il cerino. C'era da percorrere un passaggio a volte altissime, in penombra, fiancheggiato da tante statue [...].
La luce ti coglieva giù in fondo, dove il passaggio buio sbocca nel cortile. C'è subito una fontanella col mascherone [...]. Mi fermavo sempre a bere, prima di dare un'occhiata all'intorno, sul cortile quadrato pieno di archi, di colonne e di statue. [...]
Era grande il palazzone della biblioteca, già casa insegnante dei compagni di Gesù, e prima ancora prepositura degli Umiliati e alle origini Braida del Guercio. Io ho parlato diffusamente della biblioteca perché lì mi conducevano sovente, vincendo rimorsi e angustie, i miei scrupoli di giovane erudito».

(Luciano Bianciardi, La vita agra, Milano, Bompiani, 1962, p. 8-13. La direttrice della Braidense dal 1942 al 1954, Maria Buonanno, nata a Cremona di famiglia napoletana, era vedova di Giuseppe Schellembrid, funzionario ministeriale nato a Napoli ma di cognome tedesco, ed era generalmente citata col cognome acquisito).

Bianciotto (1977)

«Mi hanno arrestata al mese di luglio, nel ’32. Mi hanno mandata prima a Torino poi a Milano e da Milano a Bologna. [...]
Sono stata condannata al Tribunale speciale a Roma. Però nel frattempo è venuta la famosa amnistia del decennale, allora hanno amnistiato tutti. Ho fatto otto mesi.
Amnistiata sono tornata a Torino; a Torino non mi hanno liberata, mi hanno denunciata alla Commissione del confino; sono stata ancora cinque mesi in carcere e poi mi hanno dato cinque anni di confino.
A Torino sono stata come si può stare in carcere. [...]
Mio marito allora era [in carcere] a Civitavecchia...
A Torino in carcere mi hanno tenuta isolata. [...]
Poi lí ho conosciuto anche la famosa Vercesi, Rosina Vercesi. La vedevo all’aria e siccome passava i libri all’«indice» a me interessava andare con lei, perché io non riuscivo ad avere niente da leggere, e invece lei aveva tutti i libri in cella... Cosí sono riuscita a leggere, ma erano tutti quei libri che regalavano le patrone di San Vincenzo… C’era quasi niente.
Beh, ho trovato una Storia universale d’Italia, qualche cosa cosí...
Poi sono stata mandata al confino. Era nel mese di... marzo, aprile del ’33. Sono andata al confino e là è stata tutta un’altra cosa.
Sono andata a Ponza, l’isola dove in quel periodo portavano proprio tutti i confinati. [...]
Lí al confino c’era la faccenda che, per ogni pretesto, la direzione emanava dei decreti che ti proibiva questo, ti proibiva quello, per toglierci quelle poche libertà…
Noi avevamo una biblioteca, che però aveva questo handicap, che era sita nel camerone degli uomini. E cosí nell’ora di apertura, poteva capitare che trovavi magari un compagno in pigiama, in mutande... Allora han trovato quella scusa per impedirci l’entrata. Come reazione... Noi avevamo un «libretto di permanenza» si chiamava, con tutte le regole di come dovevamo comportarci: non si poteva andare nei caffè, o andare ma restare in piedi, camminare in piú di tre, non potevi far questo non potevi far quello... Quando ti ritirano questo libretto non potevi piú uscire di casa.
Allora tutte le donne, forse è stata anche una cosa non ben organizzata, tutte d’accordo abbiamo consegnato il libretto per protesta e ci siamo ritirate nei nostri «appartamenti».
Ci hanno dato tre giorni di punizione. Non potevamo uscire. Dopo ci hanno riconsegnato quel libretto; noi ci siamo ripresentate davanti alla biblioteca per entrare, tutte insieme. Ci han di nuovo ritirato quell’affare... Insomma due o tre volte cosí, poi ti fanno il processo. [...]
Ci hanno fatto il processo a Napoli, però non ci hanno condannato, ci hanno «trasferite» come punizione.»

(Lucia Bianciotto in Scarpone (Pivella-Piera), [Testimonianza], in Bianca Guidetti Serra, Compagne: testimonianze di partecipazione politica femminile, vol. 2, p. 327-330).

Bilenchi (1976)

«Proprio in quel tempo Elio [Vittorini], Vasco [Pratolini] e io, ormai inseparabili, cominciammo a leggere Le lotte di classe in Francia e altri scritti di Marx che Vittorini aveva avuto segretamente in prestito da un funzionario della “Nazionale”. Era allora direttrice della Biblioteca la signora Anita Mondolfo, poi epurata per ragioni razziali, e non ricordo bene se anche lei fosse della partita. Poco dopo, un mio amico pure lui giornalista mi portò da Parigi i quattordici volumi del Capitale nella traduzione del Molitor e Rivoluzione e controrivoluzione in Germania, e questo libro sono riuscito a conservarlo. L'amico lavorava allo stesso mio tavolo, era un uomo religioso, ostentava quasi la sua fede cattolica e, forse proprio per questo, era nel suo animo profondamente antifascista».

(Romano Bilenchi, Vittorini a Firenze, in Amici: Vittorini, Rosai e altri incontri, p. 124. Il ricordo si colloca intorno al 1936. Già pubblicato in «Il ponte», 29 (1973), n. 7/8, p. 1085-1131: 1095-1096).

Billanovich (1996)

«La discesa a Roma confermò a [Pierre de] Nolhac la vocazione di storico dell’umanesimo e gli offrí mezzi vigorosi per servirla [...] e entrò nella Biblioteca Vaticana, biblioteca regina per gli studi umanistici anche in questa sua età grigia. Infatti mentre già il British Museum aveva ricevuto da Antonio Panizzi – che, attraverso il suo consorzio iniziale con Angelo Pezzana alla Palatina di Parma, vi aveva apportato l’eredità dei bibliotecari italiani dell’aureo Settecento – i nuovi ordinamenti e la cupola e mentre la Bibliothèque Nationale veniva regolata da Delisle, la Vaticana stava passando quasi in dormiveglia dal regime di riservatezza a quello di biblioteca pubblica: non ancora animata dalla magia di padre Ehrle, cioè dalla sua dottrina e dai suoi sacrifici, essa mostrava manoscritti e libri – come lo stesso Nolhac riferí novellando nei Souvernirs d’un vieux romain: Paris 19221 (19302) – con orari limitati, e per concessioni di favore, che a un decennio dalla breccia di Porta Pia potevano venir elargite piú facilmente a uno straniero, e anzi a un francese, che a un italiano. Infatti quella biblioteca divise come uno spartiacque i nostri protagonisti di quegli anni. [...] Il [Giovan Battista] de Rossi operò tra la sua creatura il Museo lateranense cristiano e la Biblioteca Vaticana: spartendosi mirabilmente tra la catalogazione d’un fondo di codici vaticani – i Palatini latini –, l’edizione delle Inscriptiones christianae urbis Romae e, spalla a spalla con l’altro gigante Teodoro Mommsen, l’edizione d’una grossa fetta, il tomo VI, I, dentro il territorio piú fitto e piú complicato, le epigrafi di Roma classica, del Corpus inscriptionum latinarum; [...] Al contrario il nostro maestro universitario allora piú luminoso, naturalmente Giosuè Carducci, mai passò la soglia della Vaticana, ricorrendo invece nelle sue discese a Roma ai surrogati modesti prima della Biblioteca Angelica e, dopo che lo ornò il laticlavio, della Biblioteca del Senato. [...] E alla Vaticana, racconta ancora Nolhac, veniva pure il Mommsen: portato dal de Rossi, che gli aveva fatto riservare il posto migliore; anche se poi questo ospite incomodo era l’unico a non alzarsi in piedi quando appariva nella sala di studio Leone XIII.».

(Giuseppe Billanovich, Pierre de Nolhac e Petrarca, p. 580-597: 581-583; il saggio apparve per la prima volta nel 1964: Nolhac e Petrarca (a cent’anni dalla nascita di Pierre de Nolhac), «Atti e memorie dell’Accademia Petrarca di letteratura, arti e scienze di Arezzo», n. s., 37 (1958-1964), p. 121-135, e successivamente nel 1977: Nolhac e Petrarca, in Studi di letteratura e di storia: in memoria di Antonio Di Pietro, Milano, Vita e pensiero, 1977, p. 315-331).

Binni (1934)

«Ill.mo Professore
sarebbe così gentile da cercarmi i più notevoli scritti di Angelo Conti e di portarmeli lunedì prossimo a Pisa? Qui non si trovano e ci vorrebbe un'infinità di tempo per farli venire per mezzo della biblioteca universitaria [di Pisa].
Scusi il mio ardire e riceva i miei migliori ossequi»

(Walter Binni, cartolina a Luigi Russo, Pisa 13 dicembre 1934, p. 3)

Binni (1940)

«In questa bella biblioteca di Lucca, ricca di ricordi settecenteschi, il piacere insolito di tagliare il primo fascicolo del Giornale dei letterati di Pisa, 1771, ancora intonso, mi riporta a un motivo di curiosità infantile, di curiosità appassionata per la vita minuta, quotidiana dei tempi lontani della storia. Separavo allora con cura i particolari del costume, l’aria di quelle età da tutto ciò che di grandioso vi era avvenuto, allontanavo scrupolosamente le tentazioni dei colori piú illustri, dei quadri violenti ed oleografici. A poco a poco la fantasia infantile cedeva ad una specie di incanto oggettivistico, tagliava quello spicchio di vaga realtà, lo spianava secondo il ritmo piú stento e rallentato, lo impastava sui dati immaginari della memoria con i risultati di una paziente dissociazione di spazio e di tempo: e mi trovavo cosí come adesso con la voglia di stagnare in un silenzio diverso da quello in cui di solito viviamo. Cosí adesso la resistenza opposta dall’ottima carta del Giornale dei letterati allo scorrere del tagliacarte mi insinua senza piú difficoltà in quel mondo, in cui la letteratura e il giornalismo letterario nel senso piú generico furono amati con passione calma e curiosità soddisfatta.»

(Walter Binni, I giornali letterari del Settecento, in Scritti settecenteschi, 1938-1954, p. 21-24: 21; originariamente apparso in: «La ruota», s. 3, n. 7/8 (ott.-nov. 1940), p. 308-313).

Binni (1997)

«Mentre scrivo queste brevi pagine nella mia casa romana, davanti al giardino di Villa Torlonia, di colpo mi ritrovo nella mia casa natale, nel nulla da cui qui a Perugia uscii tanti anni fa’ piccolo e ingenuo bambino, in una giornata di neve e di tramontana, di prima mattina, caldo nel letto e protetto dalle cure materne, ad ascoltare rapito la voce festosa di un giornalaio, a me noto come eroico combattente nella grande guerra da poco finita, che gridava: «Corriere dei piccoli, piccoli, piccoli, brr: che freddo»; o mi ritrovo, ragazzo, a una finestra aperta sul Monte Malbe e Monte Lacugnana accanto a mia madre (era il 1929, l’anno del “nevone”), ambedue sorpresi e commossi dalla vista inattesa del cielo divenuto improvvisamente tutto sereno e della luna che illuminava la vallata e i tetti colmi di neve, o mi ritrovo, pure in quell’anno, in un’aula del Liceo, a leggere, sotto il banco, i romanzi di Svevo, Gli indifferenti di Moravia o gli Ossi di seppia di Montale, sottraendomi cosí alle noiosissime lezioni di un vecchio e dotto professore di greco ma viceversa pronto ad accendermi alla lettura che il preside, il toscano Chiavacci, ci faceva a volte delle poesie di Michelstaedter («il porto è la furia del mare») o, adolescente, nella sala della Biblioteca Augusta (allora era nel palazzo comunale) a leggere antiche cronache perugine che alcuni vecchi inservienti mi portavano, riluttanti e brontoloni («sono libri difficili per la sua età»), e da cui traevo, oltre un esagerato orgoglio campanilistico, un rinforzo al mio nascente anticlericalismo.»

(Walter Binni, Perugia nella mia vita: quasi un racconto, in La tramontana a Porta Sole: scritti perugini e umbri, 1942-1997, p. 224-225)

Biraghi (1943-1945)

«Sono soddisfattissimo del mio tavolino ove passo le giornate leggendo tutto quel che mi capita ed incidendo ghirigori sulla gavetta. Nel campo [di Wesuwe] funziona una biblioteca circolante dalla quale si può avere qualche libro; poi, per procurarsene altri, basta circolare per le camerate con un libro proprio strillando “cambio libro” ed in tal modo si ottiene qualcosa di nuovo. Leggo in tal modo la Storia Moderna del Manaresi, un libro di Pearl S. Buck, uno del Verne ecc. [Franco] Brunello mi ha lasciato “Il mio Paese ed il mio Popolo” di Lin Yutang la cui intelligenti parole mi danno un’ulteriore prova della saggezza di questo autore che metto senz’altro al primo posto nella scala delle mie preferenze letterarie. Si parla molto di questo autore e dell’insegnamento ch’esso potrebbe dare all’umanità travagliata e questo aiuta a passare il tempo. Noto che, probabilmente a causa dell’inazione che favorisce la meditazione, si è sviluppato, in me come negli altri, un maggior senso critico. Ci si abitua a considerare più attentamente le cose e ad osservarne lati che prima si trascuravano. Anche la prigionia ha i suoi lati buoni.»

(Luigi Biraghi, Diario; scritto durante gli anni di prigionia e rimasto manoscritto, il diario è consultabile in trascrizione sul sito Stalag 307, in formato PDF e HTML)

Bishop (1900)

«No other library has the associations, the history, or the value of the famous collection of the Vatican. [...]
To secure the privilege of the manuscript reading-room one has simply to come armed with proof that he is a person prepared to make use of the valuable documents in a proper way. With the introduction of the consul, or with other credentials, Americans have no difficulty in securing admission. Fortunately for the writer he was a member of the American School of Classical Studies in Rome; which fact insured a hearty welcome, for the Vatican authorities have been exceedingly kind in extending all possible courtesies to the School. During an almost constant attendance of some months I heard of no one who was refused the privileges of the library, and, in fact, I was frequently astonished at the extreme liberality of the management.
It is a more difficult task to secure physical admission than the written permission. Guards in various gaudy and somber uniforms bar the way with a polite but firm demand to know your business there. The words "Biblioteca," or "Padre Ehrle" generally secure an instant salute and a polite direction. To a newcomer it is no easy task to make his way up staircases, across courts, and through galleries to the black, nail-studded door which bears a card requesting him not to enter but to apply to another door in the garden for admission. [...] Once inside, a polite and deferential porter receives his hat and cane. He generally keeps on his outer coat, if he is wise, for to the northerner these enormous palaces of Italy are damp and dangerous. And as he has climbed over 160 steps from the Piazza San Pietro he is usally so warm that he fears the chill of an unheated room.
The vestibule to the reading-room in older times was the reading-room itself. Two dark wooden counters down the sides, flanked by equally dark and tightly closed bookcases or lockers, create a gloom which the one window would not much relieve were it not for the numerous portraits of former cardinal librarians which deck the walls of vestibule and reading-room. By this window is generally seated a woman at work on some manuscript, for women are not admitted to the sacred precincts of the reading-room itself. In return, however, for this treatment the feminine student gets the best light in the place. [...]
The reading-room, which is entered through green baize doors, is a rectangle, nearly twice as long as it is broad, high, of course, and lighted by two large windows on the north side. Between them Father Ehrle, S.J., the justly famous guardian of these treasures, has his desk. In the long cassock and black biretta of his order he presides with kindly interest over the readers. Apparently he speaks with ease all the languages of modern Europe, and his courtesy and good humor seem unfailing. Parallel to the shorter side of the room are four long tables, each with 12 chairs and racks for manuscripts. Across the end of the room opposite the entrance is a raised platform with seats upholstered in red. These are intended, I suppose, for the officials, for I saw using them only priests and two of the so-called scriptores of the library. All the furniture is of plain, dark wood. On the east side opposite the windows are ranged the ponderous tomes of the inventory and catalogs. Near the door is a small counter, behind which an attendant sits to receive the applications for manuscripts and to keep the tallies. He has one or two assistants who bring the documents to him.
[...]
The prospective reader takes his papers to Father Ehrle, and is by him required to write his name and address in a book, together with the particular subject he wishes to investigate. He then discovers the number of his manuscript and fills out in duplicate an application blank, of half of which a reduced copy is here printed [...].
The attendant – who must in some cases walk nearly a quarter of a mile in making the trip to and fro – brings him his manuscript. At the time he leaves, a receipt in duplicate is made out at the bottom of the same slip, of which one copy is retained by the library and one by the reader. In case he wishes to consult the same manuscript the next day, it is retained for him at the desk. Before leaving the room he must obtain a ticket to show to the porter. Thii is given him by the man who receipts for the manuscript, and so equal justice is done to both librarian and reader. I ought to add that the attendants are exceedingly courteous, prompt, and obliging. In no other library anywhere have I met with more hearty, prompt – considering the distances – and polite service. It seldom takes more than 10 minutes to secure a manuscript after the slip has been made out – and none are so near the desk as the remoter books in any ordinary library, while many are at great distances.
The readers would afford an inviting study to an artist. All nations of Europe seem represented. [...]
It is exasperating to a librarian to see the careless manner in which many of the readers handle the manuscripts. [...] The amount of noise which a few men make in the room is also a source of annoyance to a librarian.»

(William Warner Bishop, The Vatican Library: some notes by a student, p. 110-112).

Blum (2000a)

«Ben presto, dopo la mia immatricolazione, cominciai a rielaborare, come tesi di laurea, il mio lavoro per l’esame di stato (sulla composizione dello scritto del corpus Hippocraticum sulla dieta nelle malattie acute). Cambiai qualcosa del suo impianto, allungai la mia dimostrazione, ma nell’insieme ripresi quanto a suo tempo avevo esposto. Allestire un nuovo lavoro non mi sarebbe stato possibile, poiché la situazione delle biblioteche di Firenze era allora molto sfavorevole. La Biblioteca Nazionale, che per le mie materie disponeva di buone raccolte, era in procinto di traslocare dagli Uffizi nell’edificio costruito apposta in piazza Cavalleggeri (non lontano dall’Arno!).6 La biblioteca dell’Università aveva solo una piccola sala di lettura; le opere dell’apparato di consultazione, peraltro non ricco, stavano in armadi lungo le pareti, chiusi da griglie, e si dovevano ordinare una per una. Non esisteva un seminario di filologia classica, con una biblioteca specializzata. Allora capii come si trovavano bene gli studenti di antichità classica a Berlino.»

6 Io ho potuto vedere la sua deprimente sala di lettura agli Uffizi. Non lontano dall’entrata si trovava un grande tavolo rettangolare riservato alle signorine. Il direttore sedeva in una stanza attigua, che era separata dalla sala di lettura soltanto da una pesante tenda.

(Rudolf Blum, La Firenze bibliotecaria e bibliofila degli anni 1934-1943 nei ricordi di un tedesco non ariano, p. 222)

Blum (2000b)

«Munito di una raccomandazione di [Enrico] Rostagno, mi presentai alla direttrice della Biblioteca Laurenziana, dottoressa Lodi, a lui succeduta; volevo esaminare al più presto possibile il catalogo della biblioteca della Badia e i codici che provenivano da essa. La signora Lodi accolse con favore il mio programma e assicurò il suo appoggio. Ella era, come già il nome indicava, ebrea; era ritenuta una direttrice severa e, come non pochi dei suoi correligionari, una fascista convinta. Io dubito di averle detto come stavano le cose, tuttavia sospetto che lei – anche per via del mio nome – mi ritenesse ebreo.
Così ora mi recavo piuttosto spesso in Laurenziana, per studiare il detto catalogo della biblioteca della Badia e guardarmi uno dopo l’altro i manoscritti da questa passati alla Laurenziana. Essendosi confermato ciò che mi aveva detto Rostagno, decisi di scrivere, come tesi di diploma, uno studio sulla biblioteca della Badia e i codici di Antonio Corbinelli. Il professor [Domenico] Fava, direttore della Biblioteca nazionale, nostro professore di bibliografia, si offrì quindi di rilasciarmi una tessera, che mi dava diritto d’entrata alle sale di studio nel nuovo edificio della Biblioteca. C’era lì, appunto, oltre alla grande sala di lettura generale, in cui stavano poche opere di consultazione, una serie di sale più piccole, che erano fornite di eccellenti apparati di consultazione, ma riservate solo a studiosi con la tessera. Ero felice di poter usare di nuovo una biblioteca di ricerca di prim’ordine. Le condizioni di lavoro nella Biblioteca nazionale fiorentina erano addirittura ancora migliori che nella Biblioteca di Stato e universitaria di Berlino. Se uno aveva bisogno di un libro che non si trovava nell’apparato di consultazione, lo ordinava per scritto all’impiegato di sorveglianza e questi lo faceva prendere subito da un inserviente nel magazzino e portare al suo posto.16
Quando informai il professor [Carlo] Battisti di che cosa mi stavo occupando, egli mi assicurò che la bibliografia sui dialetti italiani, che dovevo fare, bastava del tutto come tesi di diploma. Con l’occasione gli domandai se dopo superato l’esame avrei potuto impiegarmi presso una biblioteca statale. [...] Avevo anche paura allora di essere costretto, per trovare lavoro in una biblioteca statale o ecclesiastica, a prendere la tessera del partito fascista o a farmi cattolico. Tuttavia mantenni il mio proposito di ottenere il diploma di bibliotecario paleografo. Sebbene, secondo Battisti, non avessi bisogno di presentare a tale scopo un lavoro scientifico, continuavo a recarmi, peraltro non così spesso come prima, in Laurenziana per vedere i codici provenienti dalla Badia.
Un giorno del marzo 1936, proprio quando stavo per andar via, la direttrice mi fece pregare di passare da lei. Mi disse che il bibliotecario della biblioteca Landau-Finaly, certo dottor Dreyer, tedesco, voleva andare di lì a poco in pensione; si cercava perciò chi lo sostituisse. Mi chiese se non volevo presentarmi per quel posto.»

16 I lettori della sala di lettura generale dovevano ordinare alla distribuzione i libri desiderati e quindi aspettare che i volumi venissero presi da un inserviente.

(Rudolf Blum, La Firenze bibliotecaria e bibliofila degli anni 1934-1943 nei ricordi di un tedesco non ariano, p. 230-231)

Boccioni (1907)

«20 aprile 907
Sono a Venezia da dodici giorni. Sono abbastanza forte. Vivo regolarmente e lavoro. Alla sera vado alla Biblioteca Querini Stampalia e leggo. Ora ho un libro di Ruskin: Venezia.
È quale lo immaginavo, ma troppo volto al passato.»

(Umberto Boccioni, Taccuini futuristi)

Boccioni (1914)

«Nella nostra epoca in formazione, la diffusione della cultura ha messo un velo alla sensibilità sviluppatasi rachiticamente in una ignoranza secolare. [...] E, come certe libertà generano sul principio confusione, così la democratizzazione del sapere, il furore delle biblioteche, le Università Popolari, hanno imbaldanzite tutte le menti volgari vanitose e mediocri [...].
[...]
La meravigliosa atmosfera giovane che si va formando e nella quale l’Italia si avvia a divenire grande potenza lavoratrice e militare, quest’atmosfera, è poco adatta per i polmoni avariati dalla polvere delle biblioteche e dei musei e dal fetore secolare degli scavi. L’ombra del monumento nazionale ha fiaccato fino ad oggi la virilità italiana ed ogni malcontento cerca pace nella cultura.»

(Umberto Boccioni, Pittura scultura futuriste, p. 67 e 71).

Boine (1911)

«L'articolo 192 della Legge comunale e provinciale (Testo unico 21 maggio 1908) enumera in venti paragrafi le spese obbligatorie pei comuni: ve n'è uno per l'istruzione elementare. Altre disposizioni particolari rendono anche obbligatorio, per i comuni dove funzioni, un certo contributo fisso per l'istruzione secondaria. Ma di biblioteche niente: dolorosa constatazione per me che di leggi non so.
Ecco qui il mio caso. In un comune di provincia (capoluogo di provincia veramente, ma piccolo comune tuttavia) e non importa dir quale [Porto Maurizio, poi Imperia], un gruppo di giovani, saputo di un notevole fondo di libri di proprietà comunale, chiuso da parecchi anni con sette chiavi a delizia delle tignole e dei ragni, si adoperò per trarlo alla luce ed ordinarlo. Libri di fraterie soppresse, in gran parte, ma spesso libri rari e libri utili, la base di una biblioteca infine. Fecero i cataloghi, regalarono essi stessi delle opere, il Consiglio comunale sollecitato diede un locale ed incoraggiò. – Ora un bel giorno si trattò finalmente di aprire questa biblioteca al pubblico e di ottenere per essa dal comune una dotazione fissa ed annuale affinchè potesse vivere e vivere regolarmente.
E fu così ch'io conobbi l'articolo 192 della Legge sopraccitata: poichè le spese per la biblioteca non sono spese obbligatorie, un Consiglio non può per esse istituire un canone fisso e perenne [...]. – Nel caso pratico, nel caso delle biblioteche civiche delle grandi città, la perennità e la fissità della sovvenzione (condizione prima di esistenza e di regolare funzionamento) sono assicurate dalla consuetudine. Nel caso mio, che non è quello di una grande città a grandi bilanci (anzi è purtroppo il caso di un comune a bilancio malfermo), tutto ciò significa press'a poco l'arenamento. [...]
Che se [...] la paura della giunta provinciale [...] o il demone del risparmio trionfassero; poiché una biblioteca non è obbligatoria anche se il comune è capoluogo di provincia; ecco che questi poveri giovani ingenui ed entusiasti avrebbero con gran scherno e gaudio dei bottegai concittadini e più dei lor coetanei amici di passeggiate in bicicletta e giuocatori di bigliardo che di biblioteche si strafottono, questi poveri giovani avrebbero in conclusione buttato un anno di fatiche.
Ora, sarà perché non m'intendo di legge, ma [...] non son riuscito a capire ancora perchè mai le biblioteche non siano come le scuole e come le pubbliche latrine obbligatorie. La gente colta si sta, solitamente, beata nelle città grandi e ci legge libri in abbondanza senza fatiche, per liberalità del governo, dei privati o dei municipi. Obbligatorie o no, delle biblioteche nelle città grandi si usa: se ne dice male e se ne dice bene, ma se ne usa. Ma nelle città piccole, dove le amministrazioni o dormono o sono attente agli stomaci e ai calli più che ai cervelli dei cittadini e dove la coltura perchè nasca e cresca bisogna aiutarla ed imporla, qui [...] l'obbligo legale ci dovrebb'essere.
Perchè [...] la biblioteca ha un suo così naturale e così necessario officio di completamento della loro scuola che gli istituti secondari (non so per la saggezza di quale ministro) appunto per esserne ciascuno forniti hanno tutti quanti per legge una lor dotazione annuale e regolare. Che se la legge fosse adempiuta [...] ciascuno dei nostri licei e dei nostri istituti avrebbe una sua bibliotechina ordinata [...].
Ma i barbassori secondari invece, m'è parso nella mia breve esperienza liceale, devono essere delle biblioteche scolastiche o nemici o gelosi; che fa nei risultati lo stesso. Generalmente gli studenti della libreria del loro istituto non san nulla: è chiusa con sette chiavi o è nell'ufficio del preside come nell'antro dell'orco; non ne san nulla e quindi non ne chiedono. Io per mio conto mi ricordo d'averla ai miei tempi, ancora in ginnasio, scoperta per caso, appunto come si scopre una cosa nascosta. Ci avevan messo dentro, per mancanza di locali, le signorine, ne avevan fatto il gineceo. Ed io, ragazzetto spaurito e timido che di fondo ad un corridoio tratto tratto ne vedevo di tra la porta socchiusa sgonnellar fuori e sciamare ridendo le ragazze che pigliavan tutte dieci in latino ed in greco, per un certo pudibondo rispetto, non azzardavo d'accostarmi. Ma avvenne un giorno... che m'accostai. Dev'esser stata la curiosità di veder più da presso un certo uccellaccio impagliato, rizzato su d'una scansia con l'ali tese e con gli occhi vetrigni e fissi su me, che mi fece entrare. Libri tutt'intorno fin su in alto, file di libri dietro i vetri chiusi, ed un gran silenzio. Sbigottimento. Poi curioso, gioioso cercare con gli occhi le diciture dell'opere fra i riflessi dei vetri e gran voglia di leggere, di leggere, di passar lì tutto il mio tempo. E più volte dopo scuola, quando non v'era nessuno, ci ritornai e mi stavo dinnanzi alle scansie un poco come dinnanzi all'altare tra curioso e rispettoso, tra avido e pudico; finchè una volta il preside, buon vecchio garibaldino, mi ci sorprese e capì. Quanta roba ci lessi e sfogliai da allora in quella biblioteca! I libri me li portavo anche in scuola e li sbirciavo di sotto il banco, tutto in essi, mentre dalla cattedra il professore insegnava gli aoristi e la storia letteraria per generi; e poi a casa e poi ancora in biblioteca. Avevo io stesso la chiave delle scansie (ragione per me di compiacimento e di fierezza) e come volevo le aprivo e le chiudevo, sbizzarrendomi a scorrerle tutte quante da cima a fondo, rimanendo dell'ore intere sulla scala a pioli per aria, con un libro per mano, finchè si facesse scuro e nel silenzio di quella gran sala tombale a terreno, con quell'uccellaccio minaccioso allato, un poco non mi pigliasse la paura.
Fu lì dentro ch'io m'avvezzai a studiare da me [...]. 
Ora mi chiedo perchè io mi fossi solo in questa biblioteca, perchè mai i professori non ci mandassero anche gli altri scolari, e perchè s'io non li aprivo tutti, gli scaffali si rimanessero chiusi ed i libri spesso non tagliati. Io ero per conto mio ben contento di non aver compagni rumorosi intorno e me ne stetti con essi ben zitto come chi ha trovata la pignatta dell'oro, ma la via ch'io come a caso seguivo nel formarmi una coltura era ben la via più naturale ed anche gli altri l'avrebbero dovuta seguire. Niente. Me ne sono più tardi informato: ci son forse tre o quattro licei in tutta Italia dove la biblioteca è una cosa attiva. Negli altri, [...] le biblioteche o sono embrionali o chiuse o non esistono. [...]
Però io vado inutilmente facendo della metafisica e l'articolo 192 starà lì immutato... e la nostra fatica di un anno rimarrà presso a poco e per chissà quanto ancora, sterile.»

(Giovanni Boine, Un ostacolo alle biblioteche, «La voce», 3, n. 5 (2 feb. 1911), p. 499).