LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

N.B. La casella di ricerca qui sotto opera soltanto sul titolo della testimonianza (di norma, cognome dell'autore e anno).
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Risultati della ricerca

Baccini (1904a)

«I signori Saletti (Brandimarte, sua cognata e la figliuola) mi avrebbero voluto spesso loro ospite tanto in villa come nella loro sontuosa abitazione di Firenze, posta in via Tornabuoni e precisamente in quel bel palazzo Feroni dov'è, ora, il Circolo filologico.
Ma il babbo non permise mai quella familiarità, anche perchè la mia fiorente giovinezza e la natural cortesia del commendatore non dessero luogo a commenti spiacevoli per la mia reputazione.
Coi nuovi guadagni del babbo e la giudiziosa economia della mamma, mi fu concesso di appagare uno dei miei desiderii più ardenti; quello di abbonarmi al Gabinetto letterario di G. P. Vieusseux: a quel Gabinetto in cui, gravi per età, ma ancor giovani d'anima e di cuore, convenivano ancora il Tommaseo, il Capponi, il Lambruschini!
Ricorderò sempre il giorno in cui per la prima volta misi il piede nel Gabinetto, posto allora nel palazzo Buondelmonti, in piazza Santa Trinita.
Mi venne premurosamente incontro il cavaliere Eugenio Vieusseux, uno degli uomini più signorilmente belli e cortesi ch’io m'abbia veduto.
Gli dissi che mi sarei abbonata per sei mesi e che desideravo conoscere subito qualche bel romanzo francese, moderno.
Il signor Eugenio consultò con gli occhi la mamma che sorrise, approvando col capo. No, non era quella la risposta che egli sollecitava. E allora (come ricordo quelle parole dettate da un sentimento squisito, se non giusto, di rettitudine paterna!) disse:
– I romanzi francesi moderni non sono troppo adatti a lei, signorina: è troppo giovane per capirli e... per apprezzarli. Pure, per mostrarle che non sono un orso, le darò un bel romanzo, non scritto precisamente ieri, ma... neanche nei tempi preistorici.
E mi porse Le roman d'un jeune homme pauvre, di Octave Feuillet!
Non lo conoscevo e lo lessi con molto piacere; ma per quel bisogno imperioso di sincerità che è nel mio carattere e che m'ha procurato tanti dolori, non potevo lasciare il signor Eugenio nella convinzione che io fossi una delle solite signorine a cui il severo papà non ha permesso che i Promessi sposi del Manzoni e il Niccolò de' Lapi del D'Azeglio... Forse, in quel bisogno di sincerità c'entrava anche un po' di vanità... femminile. Erano allora così poche, così poche, le ragazze che all'età mia avessero inghiottito una sì inverosimile quantità di libri, tanto diversi, tanto opposti fra loro!
Comunque la cosa fosse, la prima volta che, deludendo un po' la sorveglianza della mamma, occupata a sfogliare un album di caricature, potei parlare col cav. Vieusseux, gli dissi francamente, senza spavalderie e senza falsa modestia:
– Senta, caro signore: per certe condizioni speciali della mia famiglia ho avuto sempre molta libertà nella scelta delle mie letture; quindi ella mi dia liberamente il Catalogo o – se vuol proprio obbligarmi – mi favorisca i libri moderni più notevoli.
Il cav. Vieusseux rimase un po' sorpreso: ma siccome era un uomo di spirito e, dopo tutto, non era obbligato a far con me la parte di Catone il censore – mi suggerì subito il Daudet, il Theuriet, il Loti, tutta la gloriosa falange della Francia romantica moderna.
Da quei maghi dello stile risalii dolcemente la corrente e mi sprofondai – è la vera parola – in Teofilo Gautier, nella Sand, in Victor Hugo, in Alfred de Musset e nel divino insuperabile Balzac, di cui lessi in poche settimane tutta la Comédie humaine

(Ida Baccini, La mia vita, p. 89-91).

Gli abbonamenti di Ida Baccini alla circolante Vieusseux, con l'indicazione dei vari recapiti, risultano registrati nel Libro dei soci (Archivio Storico del Gabinetto Vieusseux XIX 2B). Tra il 1870 e il 1909 sono segnalati i seguenti domicili: 21 luglio 1870 (presso Andrea Salomoni Cartolaro via S. Gallo 35); anche il nome del marito Ida Cerri Baccini, 29 dicembre 1876, 18 luglio 1878 (via Militare 8 p.2 ) e 16 febbraio 1880 (viale del Pallone 6), con il suo solo nome, 9 novembre 1898 (Duomo 22, 1° piano), 11 aprile 1904 (via dell'Anguillara 2), 25 novembre 1909 (Piazza del Duomo), iscritta personalmente dal direttore Carlo Vieusseux, forse in omaggio ad una scrittrice ormai famosa.
Nel Libro del prestito (Archivio storico del Gabinetto Vieusseux XIX 2C) risultano poi alcuni prestiti della Baccini nei primi anni del ‘900: nel 1901 (16 settembre) Anatole France, Balthasar (1889) e il 18 ottobre G. D'Annunzio, La gloria (1899); il 28 ottobre 1902 C. Lombroso, La donna delinquente, la prostituta e la donna normale (1893); il 30 1904 F. Brunetière, Nouveaux essais sur la littérature contemporaine (1895); il 14 settembre 1905, la prima traduzione francese di Wuthering heights di Emily Brontë, con il titolo L’amant (1892).
(cfr. Il Vieusseux dei Vieusseux: libri e lettori tra Otto e Novecento (1820-1923), a cura di Laura Desideri in collaborazione con Francesco Conti, premessa di Gloria Manghetti, Firenze, Polistampa, 2020, p. 173-174).

Baccini (1904b)

«Firenze è la citta del passato e della bellezza; ha quindi soltanto una funzione storica ed artistica.
La città moderna comincia appena ora a farsi, e le idee del nostro tempo non trovano fra noi che qualche rara applicazione. [...] Firenze è arretrata in tutti i servizi pubblici, non ha slanci di iniziative, non ha generosi [i.e. generose] ribellioni. La nostra maggior biblioteca (una delle prime del mondo) minaccia quasi rovina; i miglioramenti edilizi sono osteggiati dalla feroce critica dei partiti, le strade principali sono ancora illuminate a gas, i quartieri fuori di centro oscurissimi [...].
Il suo maggiore Istituto di istruzione è povero. Lo Stato non gli concede che poco. Le cliniche sono sprovviste, i laboratori miseri, le biblioteche pressochè vuote.»

(Ida BacciniLa mia vita, p. 264-265).

Baldacci (1945)

«Quindici o vent'anni fa, al tempo in cui dei giovani, dovendo scegliere tra l'arida ubriacatura fascista e l'austera disciplina della biblioteca, sceglievano quest'ultima scoprendovi via via Croce – Croce fa violenza ad ogni inerzia mentale con la sua incalzante ricchezza di motivi polemici – e, tra libri, giornali e riviste di lettura proibita, Amendola, Gramsci, Salvemini e quant'altri mai sbucavan fuori da fogli ormai perduti alla memoria degli uomini (Rivoluzione liberale, Stato operaio, Quarto Stato, Il Baretti...), a quel tempo "vedemmo" la figura di Piero Gobetti profilarsi e prender corpo sullo sfondo irto di fumaioli della Torino operaia.»

(Gaetano Baldacci, Piero Gobetti, (I nostri morti), «Corriere d'informazione», 1, n. 27 (21 giugno 1945), p. 1-2: 1).

Baldini (1911 e 1941)

«Io attendo una sua risposta per il Doni o per il Berni. E in quel che possa tornarle utile la mia qualità di annusatore di biblioteche si serva senza discrezione.»
(Antonio Baldini, lettera a Giovanni Papini da Roma, 27 maggio [1911], p. 40).

«Sono trentratre anni dal giorno che un amico mi ti fece scoprire, in istampato, nella Efemeroteca della Biblioteca Nazionale di Roma: e dal bene che hai fatto a me in tutti questi anni sommo quanto ti debbano le generazioni novecentine. Tutto sarebbe possibile immaginare, tranne questi quarant'anni senza Giovanni Papini.»
(lettera a Giovanni Papini da Roma, 7 gennaio [1941], p. 180-181).

Baldini (1912-1913)

«Se vai alla sala di studio della Nazionale, quando hai sceso le scale guarda in quegli scaffali a man sinistra, e al secondo ripiano troverai la storia dell'arte del Michel: ci debbon essere 2 vol. sui Débuts de la Renaiss. Prendi il I° e aprilo a pag. 415: e ammutolisci. Ti dispenso dai ringraziamenti.»
(Antonio Baldini, lettera a Emilio Cecchi, [Roma] 5 luglio [1912], p. 18).

«Mi ha scritto Borgese una lettera molto simpatica nella quale mi parla della sua ipocondria di quest'inverno. L'articolo per Gargiulo m'è parso sconclusionato. Invece nell'articolo su Pascoli della N. Antologia – che ho letto però in fretta in Biblioteca – mi pare che ci sian qua e là delle scoperte, quando tenta di abbracciar dal di sotto, nelle significazioni di più novità, la poesia pasc., abbastanza buone.»
(Baldini a Cecchi, [Roma] 5 settembre 1912, p. 24-25. Il primo articolo a cui Baldini fa riferimento, D'Annunzio coronato e velato, era uscito in «La cultura», 31, n. 16 (15 ago. 1912), il secondo, Idee e forme di Giovanni Pascoli, nella «Nuova Antologia», n. 977 (1° set. 1912), p. 3-36).

«In biblioteca nell'ultimo num.° 5 dic. dell'Art decoratif c'è del Gauguin, Degas, Cézanne e tant'altre belle cose.»
(Baldini a Cecchi, [Roma 14 gennaio 1913], p. 27. Baldini fa riferimento alla rivista anche nella lettera del 28 gennaio 1914, senza specificare dove l'abbia vista).

Baldini (1935-1938)

«Il vol. delle "Letture" che mandò la Biblioteca] Naz[ionale] di Firenze, come ti dissi a suo tempo, non era quello buono, e te lo farò avere a parte.»
(Antonio Baldini, lettera a Luigi Federzoni, Roma 15 maggio 1935, p. 228).

«Le restituisco questo vol. che venne richiesto pel tramite della Biblioteca] del Senato alla Bibl[ioteca] Naz ionale] di Firenze: e che bisognerebbe restituire mandando invece a richiedere il 1° vol.»
(Baldini, lettera a un "camerata" non identificato, Roma 16 maggio 1935, p. 229).

«Con l'occasione ti rimando il vol. delle Letture che mi prestasti, ringraziando; e il 1° vol. delle Letture per famiglia, da far riavere alla Bibl[ioteca] Naz[ionale] di Firenze. Neanche in questo vol. è traccia di pagine carducciane.»
(Baldini, lettera a Federzoni, Roma 23 maggio 1935, p. 229).

«La prego di far avere la busta e il vol. più piccolo rilegato in verde al Direttore. Il vol. è della sua biblioteca privata. L'altro vol. si può rimandare alla Bibl[ioteca] Nazionale di Firenze.»
(Baldini, lettera a un "camerata" non identificato, Roma 23 maggio 1935, p. 230).

«Vorrei poter avere dalla Biblioteca del Senato il vol. di Imbriani nelle "più belle pagine" trevesiane-ojettiane, per dare un'occhiata alle notizie che ci sono in fondo.»
(Baldini, lettera a Federzoni, Roma 20 novembre 1936, p. 389).

«Bisognerebbe anche pescare qualche notizia sulla carriera "politica" di Antonio Tari [...]. Forse qualche notizia sarà, con la firma di Vitt[orio] Imbriani, nell'Annuario per l'Università di Napoli 1884-1885 pag. 193 che ho visto citato ma che qui alla Bibl[ioteca] Naz. non esiste. Ma bisognerebbe cercare anche altrove.»
(Baldini, lettera a Federzoni, Roma 1° dicembre 1937, p. 464).

«[Antonino] D'Alia mi stringe di tenace assedio per quel suo artic. [...] Me lo ritrovo fra i piedi, per la strada, in Biblioteca, ogni momento.»
(Baldini, lettera a Federzoni, Roma 2 dicembre 1937, p. 465).

«Ho già visto il vol. di Delogu sul Barabino, che val poco mentre mi sarebbe più utile avere quello di Edoardo [credo] De Fonseca che ho già consultato in biblioteca (nazionale) ma che avrei volentieri in prestito da quella del Senato, se mai l'avesse.»
(Baldini, lettera a Federzoni, Roma [2 febbraio] 1938, p. 482).

«Ho fatto ricerca alla Biblioteca Naz[ionale] di opere di Leandro Zancan; ma ho trovato una sola raccolta di ricerche di storia e di diritto romano, intit.ª Ager publicus».
(Baldini, lettera a Federzoni, Roma 22 settembre 1938, p. 537).

Baldini (1948)

«Non mi sono mai tanto doluto della mia timidità come per avermi fatto mancare l'occasione di fare, forse, un po' d'amicizia con Renato Serra: col quale ebbi appena uno scambio di parole l'estate del 1913 nel suo ufficio della Malatestiana, per il prestito che gli chiesi, e gentilmente mi concesse, dei volumi delle traduzioni da Luciano di Luigi Settembrini. (Mi occorreva confrontare l'episodio della balena nella Vera istoria con quello del quarto dei Cinque canti dell'Ariosto, sui quali canti venivo approntando uno studio per la mia tesi di laurea. Villeggiavo allora in quel di Santarcangelo, a mezz'ora di treno da Cesena). [...]
Amavamo gli stessi scrittori (io ero appena convalescente d'un accesso di pascolite acuta), avevamo comuni alcune amicizie di scrittori fiorentini e vociani, e con un pochetto di sfacciataggine avrei potuto, nel tempo che un impiegato mise a cercare il Luciano, far cadere nel discorso una parolina che lo mettesse fuori del binario bibliotecnico. [...] Ma i suoi ventotto anni, e l'opera sua già chiara e salda, misero soggezione ai miei ventitrè di letteratino [...], e così non seppi far altro che prendere il Luciano dalle sue mani di sensitivo, ringraziare e venirmene via da quella stanza chiara e silenziosa dove sempre lo rivedo tutte le volte che lo ripenso, e dove egli scrisse le luminose pagine del «Ringraziamento per una ballata di Paul Fort» una domenica mattina d'aprile dell'anno dopo.»

(Antonio Baldini, Un'amicizia mancata, in: Scritti in onore di Renato Serra, p. 27-29: 27-28).

Baldini (1960)

«Nelle vacanze dell'ultima classe del ginnasio la scoperta della poesia di Carducci mi abbacinò e per un buon tempo tutti gli altri scrittori italiani antichi e nuovi persero ai miei occhi ogni valore. In liceo m'ebbi un compagno, l'ottimo Beniamino De Ritis di Ortona a Mare, che mi invogliò a tener dietro ai fascicoli della «Critica», che avrei trovato nella sala dei periodici della Biblioteca nazionale di Roma, e poi a quelli del «Leonardo» di Papini, e infine alla «Voce» di Prezzolini, e poi mi segnalò gli articoli di critica che uscivano nella «Stampa» di Torino: di Borgese. Il dèmone della critica cominciò a mordermi a fondo. La mia innocenza di lettore fu irrimediabilmente compromessa da tutte quelle letture. Carducci e la sua poesia restarono in alto, bene in alto, ma i nuovi scrittori mi dettero la sottile coscienza di sentirmi «contemporaneo» di qualcuno. Per Papini e per Borgese mi sarei allora buttato nel fuoco.»

(Antonio Baldini, testimonianza per Ritratti su misura, p. 42)

Baldini (1961)

«Quando, mezzo secolo fa, essendo ancora studente liceale, fui ammesso, con la malleveria ottenutami da Luigi Serra mio insegnante di Storia dell'arte, a frequentare la Sala di studio della Vittorio Emanuele, ed essendo stato segnato al mio nome il «deposito» numero 32, dove ogni giorno avrei potuto trovare i libri da me richiesti la sera precedente, mi parve di avere in tasca veramente la chiave del Mondo. Ero salito in un fiat dalla sala di lettura a pianoterra dei poveri diavoli all'Empireo dei frequentatori della riservata Sala di Studio, e scrivo studio con la esse maiuscola. Da quel momento cominciai ad avere un certo concetto di me, sentendomi così cresciuto da studente a studioso. Il solo fatto di potere spingere con le mie stesse mani, sotto l'occhio indagatore di Annibale Tenneroni (il solo caposala dei tanti che ci passarono che mi ricordi), la scaletta con le rotelle lungo quelle pareti, per arrampicarmi a tirar fuori a tutte le altezze i libri che mi occorreva di consultare, mi rendeva beato. Ancora mi rivedo correre poi su e giù per l'altra scaletta di legno che portava scricchiolando al ballatoio della zona superiore dove potevo avere a mia disposizione, insieme alle collezioni complete dei Classici, le soccorritrici annate del Giornale storico della letteratura italiana. E dove metto la soddisfazione di potere, sentendomi dietro le spalle il deposito numero 32 pieno di libri vecchi e di libri nuovi, tutti in attesa che io mi degnassi di sfogliarli, la soddisfazione, dico di potere assidermi gomito a gomito con docenti universitari di chiara fama, venerati santoni nostrani e forastieri dell'alta cultura e mettici pure qualche bianco frate domenicano con tanto di barba? E dove metto anche la consolazione sopraffina di potere ottenere in prestito anche dalle più lontane Biblioteche di Italia opere rarissime e preziosi manoscritti che il direttore di sala avrebbe gelosamente conservato per me sotto chiave in un famoso armadio, pronto con la sua chiave ad aprirlo appena io arrivassi e pronto con la sua chiave quando io me ne andassi a colazione e di nuovo pronto con la sua chiave appena tornassi in Sala di Studio col boccone ancora in bocca?
Che frutto poi io ne ricavassi da tanto indefessa frequentazione di anni e anni e anni, oggi non voglio indagare. Anno per anno, e scorrendone tanti, piano piano lo «studioso» cesse il campo al «dilettante», retrogradandosi da «innamorato» a «libidinoso», da «innamorato» di sapere a «vagheggino» di novità. Neanche la guerra non era bastata ad estraniarmi dalla Sala di Studio: intendo la guerra Quindici-Diciotto; perché quando poi ci cascò addosso la Seconda Mondiale il gusto di andare in Biblioteca, come di tante altre belle e care cose, l'avevo perduto...
Fanno oramai dieci malinconici anni che non ho più salito tutte quelle scale, e non solo perché già da tempo il mio cardiologo me l'ha sconsigliato: tutte quelle scale, che una volta avevo salito con tanto felice disposizione di spirito, quasi volando, sempre sicuro di trovare lassù in cima una risposta ad ogni mia richiesta, fosse pure per aver conforto dal Vocabolario della Crusca che potessi legittimamente fare uso di una certa parola col significato che mi pensavo di darle io.»

(Antonio Baldini, Sala di studio, deposito n. 32, p. 191-192. Il testo fu ripubblicato, col titolo Baldini alla Sala di studio, in «Cronache d'altri tempi», 23 (1976), n. 3, p. [14]).

Baldini (1962)

«Oxford è soprattutto, nel suo intimo più riposto, la città ideale per quegli studenti vecchi, per quegli studenti eterni che sono i professori. Sotto questo aspetto, ho l'impressione che le differenze fra Oxford e Cambridge – anche nello stile – siano minime. Quando si varca la soglia della mirabile biblioteca Bodleiana, una delle più ricche e preziose del mondo, si prova lo stesso sentimento di reverenza e di tenerezza, verso la parola del passato, che si prova al momento di varcare la Wren Library, la levigata e chiara struttura del massimo architetto inglese, che racchiude i tesori bibliografici di Trinity College, Cambridge. E, in certo modo, anche ora che sono stati ultimati i lavori di restauro, per rendere più confortevoli, ma soprattutto più funzionali alcuni ambienti, quel che sa soprattutto intimorire e intenerire, è la dorata pàtina di vecchiezza che adorna entrambe le istituzioni. Chi ha studiato alla Bodleiana, e ha consultato quel suo vecchio catalogo tutto scritto a mano, con un inchiostro che va sempre più obliterandosi, e tutto incrostato di schedine appiccicate con la colla, chi si è seduto sulle sedie traballanti dietro le massicce quinte degli scaffali della Humphrey Library alla Bodleiana, ed ha poggiato i vecchi tomi, i vecchi manoscritti sbiaditi su quelle tavolette che sporgono di pochi centimetri, rose dalle maniche e dagli inchiostri di secoli di studii, s'è sentito come investito d'una deliziosa responsabilità, quella di inserirsi e continuare un discorso incominciato tanto tempo fa, un discorso essenziale, nel quale eran cadute alcune delle più terribili ma anche, spesso, rassicuranti battute che all'uomo sia stato dato d'udire. A seder su quelle sedione pericolanti s'aveva, a volte, l'impressione, di sentirci ancora attaccato il tepore dell'enorme deretano del Dottor Johnson, ed era lì, in quella sensazione, che si toccava il fondo più segreto e verace dello spirito di Oxford. Nella Bodleiana, come in tutte le biblioteche inglesi – del resto – si osserva un silenzio talmente alto e generatore di savie meditazioni, che quella sensazione poteva diventar quasi palpabile. A nessuno vien mai in mente d'alzar la voce oltre un sommesso bisbiglio, sotto le volte basse della Humphrey Library, e la nostra stessa voce, il nostro stesso silenzio ci danno un brivido di soddisfazione, come se a noi fosse commesso l'onore di cullare a quel modo tante venerate memorie.»

(Gabriele Baldini, Le patate di Oxford, «Il messaggero», 26 maggio 1962, p. 3. L'articolo, a quanto sembra, era già stato pubblicato nel fascicolo del 1° settembre 1959 della rivista «Il mondo»).

Banti (1922-1923)

«Io seguito al solito a grattare i libri dell'Hertziana e di altre biblioteche e mi vien fatto di trovare a volte delle cose che ardo subito di dirti. Ne ho ammassate così, nella tua assenza alcune che mi paiono singolari e non resisto al desiderio di sciorinartele qui subito, senza aspettare il tuo ritorno:
1ª Credo di aver trovata una scultura di Giovanni Serodine!
                                   Bum!
Senti come sta la cosa: Ho sfogliato alla Vaticana un Ms. anonimo intitolato: Opere di diversi architetti pittori scultori et altri Bellingegni... (1660). Lo conosci tu? Ora alla fine della descrizione della chiesa di S. Maria Nuova (S. Francesca Romana) vi è detto: La statua della Madonna di travertina sopra il frontispiszio di dª facciata è sculpita da Gio. Serodine.
[...] Sempre alla Vaticana ho trovato nel cod. vat. lat. 7927 una curiosa e strampalata raccolta di iscrizioni sui pittori che contiene certe interessanti iscrizioni sul Caravaggio che non so se tu conosca. Esse avvalorerebbero la notizia che tu trovasti sull'anno della morte di C.».
(Lucia Lopresti, lettera a Roberto Longhi, [s.d. ma primi mesi del 1922], p. 79-80)

«Mio amico dolce, dove sei dunque ora? Ad Anversa? Quante migliaia di quadri hai già visti? [...]
Sono stata poi chiamata per insegnare storia dell'arte al Mamiani – e ho accettato per ora, aspettando che tu mi risponda qualche cosa in proposito. Ho già cominciato e ho dodici ore di lezione alla settimana, due ore al giorno, cioè. Certo la lontananza grande della nuova sede del Mamiani mi riesce di grave incomodo – (pensa, tre quarti d'ora di tram!). Se tu sapessi poi come i presidi e il ministero intendono e favoriscono l'introduzione al nuovo corso! Ne parleremo a voce.
A casa tua la costruzione del salone è quasi terminata: sono state messe perfino le carte da parato e sono quasi ultimate anche le rifiniture. Io sto mettendo in ordine e ripulendo sistematicamente la biblioteca: un po' per giorno però, perché con tutta quella polvere è un lavoro che mi stanca molto. […]
Alla Vaticana, dove non ho potuto andare che una mattina soltanto, ho trovato fra le altre cose interessanti una nota dettagliata e differente da quello che dicono le guide, sulle pitture settecentesche di S. Clemente. Mi pare che le attribuzioni che ci sono registrate siano molto più convincenti.».
(Idem, [s.d. ma autunno del 1922] p. 78-79)

«Dunque non vai più a Londra? Oh salutami ma proprio di cuore Parigi, Robi – mi pare di esserci già, con te!
[...] Cosa faccio io? Ho fatto i cuscini – e vedessi come stanno bene! Ho riordinate, te l'ho già detto, le tue carte – uno di questi giorni faccio la pulizia generale della biblioteca: così quando ritornerai la troverai perfettamente a posto. Poi seguito a fare lo spoglio dei tuoi appunti sulle schedine – e vado all'Herziana [sic] dove sto ripassando gli indici dei Manoscritti vaticani che debbono ancora essere ricchissimi di novità. Farò poi una spedizione alla Vaticana.
All'Herziana ho trovato l'ultimo numero dell’“Arte” con un articolo di Venturi su Preti di stile solito e un altro di Ortolani di grandi pretese filosofiche. A proposito di Ortolani: ho cercato nel “Concilio” l'articolo su Caravaggio o sui Caravaggeschi che m'avevi indicato – ma non l'ho trovato: di Ortolani sul Concilio c'è soltanto... un romanzo a puntate, lunghissimo intitolato “Rufino protomartire”. E bbbbravo!
Amico mio, dove sei? A Lille o già a Bruxelles? Stringimi la mano forte, caro. Ti bacio. Sono la tua Lucia»
(Idem, [s.d. ma autunno del 1923], p. 77)

Prive di data, le lettere di Lucia Lopresti a Roberto Longhi sono conservate presso la Fondazione di studi di storia dell'arte Roberto Longhi, e si riferiscono al periodo in cui Longhi accompagnò il collezionista Alessandro Contini attraverso l'Europa, durante la primavera-autunno 1921; tuttavia, le lettere qui riportate sono databili agli anni 1922-1923, quando Longhi intraprese altri viaggi all'estero. Un altro nucleo di lettere di Lucia a Longhi per gli anni 1915-1917 sono invece conservate nel Fondo manoscritti dell'Università di Pavia.

Banti (1941)

«Meglio seguire le mura del Collegio, ma proprio docilmente, salendo gli scalini davanti alle porte, ridiscendendoli con quel po' di fastidio che dà rilievo a un gran desiderio di sedersi in una pausa da mendicante: una dimostrazione finalmente, un'affermazione scritta a gran lettere, immediata, e libera dall'inchiostro simpatico della memoria. Ma non si siede, Maria, essa ha espulso, escluso le dimostrazioni; e se ne va come un cane senza diritti, per la strada solita, fino al portone della biblioteca nazionale. Su, dunque, per le scale: solitarie anch'esse, a quell'ora, e come pronte al riposo estivo con le finestre spalancate, il cortile coperto di rampicanti, il riflesso violaceo, sul muro giallo, di un cielo invisibile. Luce lunga, inutili lampade verdi, svagamenti di vecchie inerzie velenose, rincalzi all'inadempienza di oggi, esatta come un calcolo e ancora in azione. Ora è la volta dell'istinto che conduce a destra, verso il catalogo generale, mentre la memoria, con oleosa certezza, avverte che è inutile avviarcisi perché la distribuzione è cessata; e il quaderno della bibliografia rimasto a casa. Segue, lamentevole, la viltà di far qualche passo, di afferrare uno schedario, aprirlo, chiuderlo. “Carlesi, Carlessi, Carletti” han còlto gli occhi socchiusi: non c'è nessuno, e si può bene accentuare questa smorfia di disgusto e il colpo secco con cui il volume vien respinto nello scaffale. C'è ancora qualche libro nella casella del deposito, può reggere la giustificazione di scendere in sala. Troppi e troppo incisivi sapori, troppe abitudini in così giovane età: impegni presi a una prima avida occhiata e parsi traditi a una prima lentezza. Stasera è così grave scendere la breve scala che porta alla sala di studio e gli sguardi oziosi che la battono paiono così pungenti. Sala colma, tutti han lavorato fuorché Maria: e il suo cantuccio abituale è preso. Da quando in qua i suoi tacchi han questo suono chioccio?».
(Anna Banti, Sette lune, p. 38-40).

«Tra il settembre e l'ottobre il tempo fila serico gli ultimi scirocchi, appaiono le castagne, il cielo si depura: ottobre pieno, un'attesa di giornate, immobili nell'azzurro, come farfalle sul velluto. Anche il tempo si ferma, l'anno non accusa il declino, le ore pendono dal cielo come monete d'oro tutte gemelle, fino al tramonto precoce. Pomeriggi, in biblioteca, lunghi e agiati, lusso di ricerche supplementari, di letture a fondo che l'imminenza di una data sospende in un clima imparziale, di saggezza e sapidità conformi. Rumor di passi, lo sguardo appena si leva, neppure una parola è perduta mentre le seggiola scricchiola e il nuovo lettore si accomoda. Silenzio, quarti d'ora accidentali còlti dall'orecchio distratto: non importa che sia già notte, che le lampade s'accendano; nessuno ci aspetta e nessuno noi aspettiamo. Nessuno?»
(ivi, p. 283-284)

«Ma sul ripiano di Palazzo Carpegna, all'imboccatura delle scale, si sentì paurosamengte vuota e instabile e fu per tornare indietro. Scendeva, tuttavia, quei gradini comodi, bassi, troppo facili, come quelli di Palazzo Tordi: la scala era deserta, già notturna e se le lagrime scorrevano infine sulle guance nessuno poteva vederle. Fu sul primo ripiano, notò una striscia di luce viva filtrar sotto l'uscio della biblioteca di Facoltà, e risentì il sapore di certe serate, quando all'avidità adolescente di una informazione tumuoltosa e rapida pareva già troppa la distanza di quel po' di strada fino alla Biblioteca Nazionale».
(ivi, p. 291)

(Nel romanzo, ambientato a Roma, sono narrati sette mesi della storia di due ragazze di diversa inclinazione e condizione sociale: Maria Alessi è impegnata nella stesura della tesi e frequenta la Biblioteca nazionale, fino alla laurea).

Banti (1971)

«All'inizio scrivevo racconti, cosine autobiografiche. Intanto studiavo all'Università, e nei momenti liberi andavo al Collegio Romano o [!] alla Biblioteca Nazionale, dove leggevo quello che via via m'interessava di conoscere. Mi sistemavo nelle sale di studio al piano superiore dove c'erano certe cellette, fra gli scaffali, che davano un gran senso di pace. Una pace conventuale. Praticamente ho passato in biblioteca tutta la mia giovinezza.

Fu in biblioteca che si sviluppò il suo interesse per la storia? In particolare per i periodi di crisi e di decadenza?

Sì fu lì.»

(Intervista di Grazia Livi, Tutto si è guastato).

Banti (1981a)

«Ha frequentato i seminari, ha preso i suoi trenta e lode, ma alla laurea solo un centodieci senza lode. Però le sue ore migliori le ha passate in biblioteca, al Collegio Romano, nella sala di studio dove i libri erano alla portata di tutti. Ore felici, sospira Agnese guardando sconsolatamente le vetrine polverose, alle sue spalle, coi vaselli di vetro torbido, le statuine cretesi. Non poteva negarlo: la sua, cominciata con tanto ardore, era una povera storia. Una laurea tranquilla, senza parenti né amici, del tutto feriale. In autunno Delga l'aveva accettata come assistente volontaria sebbene lei non glielo avesse chiesto: ma era distratto, pareva quasi che non se ne ricordasse e le assegnava incarichi poco brillanti. Lei scuoteva le spalle: finché c'erano la Biblioteca, la Patrologia del Migne, il Teatro di Tartarin... «E adesso cosa farai?» le chiese Carlotta, diventata archeologa. «Ti presenti al Concorso della Soprintendenza?» Agnese rispose: «Non so», ma lo sapeva benissimo; era scoraggiata, non sperava più niente».

(Anna Banti, Un grido lacerante, p. 21. Nel suo ultimo romanzo, l'autrice nasconde “sotto un tenue velo fantastico” la propria storia (Agnese Lanzi) e il connubio artistico con Roberto Longhi (il Maestro Delga)).

Banti (1981b)

«Leggevo libri di storia, frequentavo biblioteche: alla Marciana ad esempio, o all'Archivio di Stato scovavo documenti. Ebbi una scalmana per Manzoni, che però leggevo come uno storico travestito. È uno storico quando scrive della peste ma ancora di più quando racconta la guerra e i passaggi delle bande lanzichenecche. Il ritmo di quel racconto mi rapiva, come può rapire una cadenza musicale. Da ragazza, insisto, mi formai proprio su letture storiche. Lessi intera la Patrologia del Migne: diventai una specialista dei secoli bui del Medioevo. Ho fatto tesoro di quelle conoscenze.»

(Intervista di Enzo Siciliano, Strappare il velo che oscura la verità, pubblicata in occasione dell'uscita di Un grido lacerante).