La tavola sia apparecchiata nel più ricco modo ... Massimo Baucia e Elisabetta Rausa
print this pageRingraziamo il professor Stanca: gli avevamo chiesto delle impressioni di lettura, ma, come previsto e auspicato, ci ha dato molto, molto di più: ha messo a disposizione tutta la sua competenza anche per richiamare alla nostra attenzione le peculiarità e le caratteristiche di ciascuna opera citata nel volume, oltre a darci di esso una immagine esauriente e vivacissima. Non possiamo chiudere questo banchetto culturale, così come si concluse quello descrittoci da Tiberio Pandola ne Il famoso convito così delle giostre come del banchetto, che lo illustrissimo & eccel. S Duca di Piacenza, & di Parma ha fatto nella Mag. Città di Piacenza nello anno MDLXI (In Milano, dalla Stampa di Francesco Moscheni, 1561), allorquando, terminata la cena «date l’acque ninfate & muschiate alle mani furonno appresentati su le tauole per compartimento eguale ventiquattro Arboscelli di viva Mirtella, sui rami della quale a gran copia erano stecchi di legno di diversi intagli lavorati, & fauori di fiori similmente di diuerse sete & oro, & d’argento adornati, & arricchiti; de quali tutti que’ Signori, & quelle Signore, & le altre Gentildonne con tutti quelli & quelle altri che se ritrovarono alle mense, poi finalmente se ne accomodarono». L'intenzione sarebbe tuttavia quella di offrirvi qualche saggio di lettura da alcuni dei volumi che abbiamo esposto nel Salone monumentale. Da La nuova, vaga e dilettevole villa di Giuseppe Falcone, un autore piacentino che dedica la princeps di questa sua opera pubblicata a Pavia nel 1597 a Bernardino Mandelli conte di Caorso, trarremo parte del bagaglio di esperienze contadine che, dalla osservazione di circostanze quotidiane, inducono a previsioni circa il tempo o la resa del raccolto. Ascolteremo anche quanto accurate e informate siano le considerazioni che motivano a dotare la villa di certi animali piuttosto che di altri (particolarmente per quanto riguarda l’asino). Mi auguro possiate gradire pure un testo letterario giocoso, un capitolo sui tortelli piacentini di Gasparo Bandini, Telasco Orneate tra gli arcadi della Colonia di Trebbia. Si trova nel Manoscritto Pallastrelli 106, uno dei due manoscritti della nostra biblioteca che ci tramandano i resoconti delle adunanze degli Arcadi Piacentini. Per Piacenza, anche la Colonia trebbiense, dedotta nel 1715, rappresenta un motivo di orgoglio, come i tortelli, per quanto sia certo che i gourmet apprezzino assai di meno quest’altro vanto cittadino. Altre letture ci presenteranno descrizioni di tavole lautamente imbandite imbandite e di trionfi tratti dall’opera di Bartolomeo Stefani, L’arte di ben cucinare, et istruire i men periti in questa lodeuole professione. Dove anco s’insegna a far pasticci, sapori, salse, gelatine, torte, & altro. L’autore fu cuoco alla corte del duca di Mantova, come si qualifica sul frontespizio del libro. Sarà la collega Elisabetta Rausa a leggerci questi brani.
Un incentivo a posporre la cena vera, che ciascuno di noi consumerà nella propria casa, magari proprio pensando alle descrizioni delle tavole sontuosamente imbandite di cui ascolteremo le descrizioni, può forse venire dal fatto che nel corso delle letture sarà proposta, come frugale aperitivo, la degustazione di un bicchiere di buon vino, offerto dall'Azienda Agricola Zerioli di Ziano Piacentino, che ringrazio così come ringrazio tutte le colleghe che rendono possibile con la loro disponibilità, questa sperimentazione di una situazione logistica per noi inusuale che ci viene imposta dal tempo a nostra disposizione ormai quasi scaduto.
Mentre Elisabetta inizia con le letture, riceverete il bicchiere. A tutti: ‘prosit’!
Elisabetta Rausa
L’esperienza contadina in merito alle previsioni del tempo, basata sull’osservazione di piccoli fatti ambientali tende a coagularsi in una forma sentenziosa e quasi proverbiale, che ne facilita la memorizzazione e la citazione. Giuseppe Falcone raccoglie queste espressioni in un paragrafo della sua opera sotto il titolo di Pronostico naturale per la Villa. Ne ho selezionati alcuni. Si osserva il cielo, il suo colore, il percorso che in esso seguono le nuvole, la luna il comportamento degli animali, alcune manifestazioni del corpo umano. Ve ne propongo alcuni:
Il ciel sereno rosseggiante mostra venti, il sol pallido d'estate mostra tempesta, tramontana porta sereno ma – e qui è lasciato lo spazio per integrare il nome del vento appropriato all’ubicazione della villa – porta pioggia.
Nel levar del sole, correndo le nuvole a tramontana, mostra sereno, ma levando o tramontando con foschi colori notifica vento.
Luna pallida mostra pioggia rossa venti ma bianca sereno.
Luna nuova non apparendo dopo il quarto giorno mostra assai pioggia, ma se nel quarto giorno si vedrà bella sperasi sereno, e se nel voltar sarà bella s'aspetta belo tempo ma rossa venti e se nera pioggia.
E' segno di pioggia ancora quando l'uccelli acquatili guizzano per l'acque; quando le rondini volano sopra l'acqua la battono col petto e con l'ali; quando le mosche le zenzale e tavani e pulci pungono più del solito; quando le formiche trasportano le sue ova da una tana più bassa a una più alta e che le talpe più del solito forano la terra e che le capre e pecore pascono più avidamente del solito e che il gallo canta più e fuor d'ora e che si spolverizza con le galline e le rane gracchiano alla strangolata e che l'asino crolla il capo coll'orecchione e che le passere strillano tutte unite e che il cane si rivolge per terra cavandola e che il cesso puzza più del solito e che i piedi sudano molto e che i membri dell'uomo, massime de’ podagrosi franciosati e de’ vecchi, dolgono nelle giunture e che la gatta si lava il capo dalle orecchie in su e i fiori e le acque odorifere mandano più odore e che le nostre mani sono più ruvide del solito e che il suono delle campane è più acuto e che la corda del carro non si può ben distendere. Ognuno di questi segni di mutazione di buon tempo in pioggia o in nuvole e tutte queste cose le deve osservare il buon contadino pratico nella villa acciò facci le sue faccende più accomodatamente.
Elisabetta Rausa
Altrove, nella sezione dove si tratta degli animali utili in villa, si espongono con provata competenza le motivazioni che fanno dell’asino, uno tra gli animali più utili. Il titolo è esplicito nel subordinare ogni considerazione ai servizi che l’asino può rendere in villa.
Dell'asino per servizio della tua villa.
Dall'asino – dice l'adagio – non cercare lana perché è una bestiaccia molto materiale di poco senno, perciò è detto asinus id est senza senno, in greco è detto onos, cioè onus, in latino carico o soma; in volgare è bestia da soma, però ha orecchie larghe e lunghe notabile indizio di stolidità. Si che, porta il vino e beve l'acqua, porta il fieno e mangia stoppia, triboli e cicuta. E’ però l'asino molto benefico alla villa non da sprezzare in tutto perché oltre i molti benefici che da esso si cava è pure padre del mulo cosa sì importante. […] Sia ben personato perché sarà più atto alla fatica e al montare con belle fattezze e di pelo non di cenere, ma nero, rosso o morello. […] Serve il suo latte di medicinale, massime quello dell'asina nera. Sin la sua pelle per tamburi o crivelli. In villa costa poco: non si parla mai di far provvigione per l'asino, né di pascolo dell'asino, né di basto, né di sella, né di briglia, né di speroni, ma d’ogni trista mangia vive, come spini, sarmenti, barde ecc.. A schiena nuda, anco senza cavezza, serve sferrato, portando 18 rubi come un cavallo e va su saldo, sì che rende meraviglia a chi lo mira. Dico che porta più peso che non pesa lui proprio. La sera poi, levata la soma, vadesi da se alla busca o a bere se ha sete. Quivi non si riprendono i garzoni perché non l'han strigliato, ma dato di volta 10 volte per la polve ogni cosa sta bene per conto suo, e se gli vien dato a caso un pugno di crusca, più gode di quel corsiere con due provende d’orzo. Si che conchiudo, per queste ragioni, che ad ogni modo che tu abbia un asino o più in villa, essendo che non patiscono tanto infermità, né difetti come il cavallo. Non ti sarà mai chiesto in prestito da un gentiluomo per cavalcare, oltre che di prima compra costa poco. E, per la villa, sino il padrone, senza pregiudizio di suo padroneggio, può cavalcarlo come si usa in Spagna, Sardegna, Cicilia e a Firenze. […] Abbi bel stallone e bella, nera madre e avrai belli asinoni atti per le città, valdrappe e lettiche, et anco per venderli sino a 50 scudi l'uno. […] Stando dunque tutte queste qualitadi di Messer l’Asino, tienti a memoria quel detto notabile di quel Gentil’huomo d'Arcadia qual scrisse così in favor dell'asino: Omne rus desiderat asellum. Cioè, ogni villa desidera un asinello.
Elisabetta, in base alla sua sensibilità ed al suo gusto, ha selezionato parti di questo capitolo, ed ha concluso il brano con una citazione dal sapore quasi idilliaco. L’espressione latina viene dal De re rustica di Columella (Libro VII, cap. I) e l’Arcadia non è quella letteraria del Settecento, cui ci avvicineremo tra poco, ascoltando i versi sulla preparazione dei tortelli piacentini, ma la regione della Grecia, famosa per i suoi asini assai robusti dei quali tratta appunto Columella. Ma le parti lette di questo capitolo non devono trarre in inganno. Di seguito alla espressione latina e al diminutivo che ingentilisce si trovano un precipitevole abbassamento di tono ed il riaffermarsi del tornaconto nella realtà di una vita contadina che, a dispetto della veste letteraria che inevitabilmente la ammanta in questo tipo di trattatistica, è sperimentata da vicino e fatta anche di odori, di situazioni grosse e grasse. Di seguito si legge infatti: «Oltre, che lo sterco suo è letame ottimo fra tutti per l’orto». E ancora un ammonimento basato su di una comparazione, dalla quale non è l’asino a risultare sminuito: «Ma sovengati il detto di quel savio: che sì come il servo vuole pane, disciplina, & opera, così l’asino vuole pascolo, bastone e soma». Il Falcone ha altrove pagine sferzanti sul fittavolo, dipinto come sempre infido e ingannatore. Il prossimo testo che Elisabetta Rausa ci propone è la trasposizione in versi, da parte di Gasparo Bandini, un arcade della Colonia Trebbiense, delle accortezze che si devono mettere in campo per preparare i prelibati «tortelli con la coda» tipici di Piacenza. Come ho già accennato la colonia arcadica piacentina iniziò le sue adunanze poetiche il16 agosto 1715, ma questo testo fu letto invece in una adunanza del20 agosto 1736, quindi quasi in occasione del ventennale.
Elisabetta Rausa
Si metta una camicia di bucato, / e le maniche al gomito si stringa / con un bel cappio di color rosato, / uno bianco grembiul corto si cinga, / e corta abbia la gonna anch’essa bianca, / cui rosea striscia il lembo orni e dipinga; / poi la mia Musa disinvolta, e franca / mi faccia de’ tortelli ben polputi / finché dal lungo travagliar sia stanca. / Io non ne vuo’ di quei stretti, e minuti, / e sottili così, che paion fronde; / visibili li voglio, e pettoruti: / e la candida veste, che gli asconde, / sia dilicata, e soda, e trasparente, / come di fonte lucidissim’onde, / Sia il corpo verde assai, e l’innocente / molle bieta di se parca non sia / e si lasci tritar minutamente. / Fresca, e succosa in un con lei si stia / ricotta, a cui pingue di Lodi e giallo / caccio grattato faccia compagnia. / Limpide, e pure siccom’è cristallo / vi si rompan molt’ova, e il soffra in pace / la fertil moglie del crestoso gallo. / Sal quanto basta , pongavi e mordace / pepe, il qual dia garbo, e non offenda; / il troppo sempre nuoce, e sempre spiace. / Queste cose sossopra a mischiar prenda, / sicche di tante parti a compor giunga / quel dolce tutto, che il mio dir commenda. / Poi su la sottil, candida, e lunga / sfoglia divida quella massa eletta / in particelle di forma bislunga. / E ad ogni corpicciuol la camicetta / fagli d’intorno, e guardi attentamente, / che non si sdrucisca e che sia linda, e stretta. / Compiuta la grand’opra, immantinente / gli onorati tortelli entro un caldajo / a cuocersi andran d’acqua bollente;
La musa ispiratice dell’autore, indossati gli abiti adatti e di bucato, il grembiule, corto come la gonna, e rimboccatasi le maniche è pronta, con piglio sicuro e deciso che le deriva dall’esperienza, a preparare i tortelli «ben polputi» e «pettoruti», il cui ripieno è fatto con «molle bieta», «fresca e succosa ricotta» e «pingue di Lodi, e giallo cacio» (il formaggio grana), uova, pepe e sale quanto basta, il tutto mescolato insieme. Parti del composto, in quantità e forma opportuna, saranno disposte sulla sfoglia, che le racchiuderà come una piccola camicia né larga, né troppo aderente. Alla fine del lavoro, i tortelli sono pronti per esserre messi a bollire nell’acqua. Non mancano gli avvertimenti per condurre a buon fine l’operazione, cosicchè i tortelli non si rompano, né risultino mollicci o sfatti. Il testo del Bandini riferisce anche scherzosamente dell’impegno assunto dall’autore tempo addietro, che qui si adempie, di ritrovare l’«origine dei tortelli». Nel brano che Elisabetta ci leggerà, apprenderemo come sia falsa la testimonianza di una vecchia cronaca, che li vorrebbe inventati da una monaca (è parodistico il presupposto misogino che ne fa giustizia) e come l’origine dei tortelli si perda addiritura nel mito di Alfeo ed Aretusa rivisitato opportunamente allo scopo.
Elisabetta Rausa
Molti, e molt’anni sono ch’io presi impegno / di trovar lo suo Autore, ed una Cronaca / lessi corrosa dai carton di legno; //
che sul bel di Lui corpo, e sula Tonaca/ molte cose diceva, e l’Inventrice / volea, che fosse stata certa Monaca: //
ma lo scrisse una penna mentitrice, / che da cervel di Femina sì raro / frutto non puote aver seme, e radice: //
perché io so’ bene, e il so’ sicuro, e chiaro / come quando, e da chi fur lavorati, / e il luogo, ove i tortelli incominciaro. //
Dagli Arcadi Pastor tanto pregiati / in una certa lor Festa solenne / per comune piacer fur ritrovati //
e quando l’infelice caso avvenne / che d’Aretusa fuggitiva amante / miseramente il nostro Alfeo divenne; //
per fermar di colei l’umide piante, / correr co l’onde sue fe’di civili / tortei migliaja, non si sa’ poi quante. //
Ma indarno, che sembraro, abbietti e vili / a Colei d’uno scoglio alpestre figlia, / rozza, indegna di tai cose gentili. //
Sparser gran pianto allor d’Alfeo le ciglia, / che spregiato vedendo un don sì eletto / n’ebbe dolore insieme, e meraviglia. //
Meraviglia, e dolore a tale effetto / Arcadia n’ebbe, che credea doversI / a suoi tortelli un po’ più di rispetto: //
onde ad Apollo molte preci fersi, / e se gli offrir su l’Ara in un bel vaso / mille tortelli e bianchi, e freschi e tersi. //
Piacque l’offerta al buon dio di Parnaso / che ne mangiò gran parte, e de la loro / indicibil bontà fu persuaso //
Poscia quei, che restar de’ Numi al Coro / fe’ presentare, e piacquer tanto a Lui / che in Cigno si converse, e in pioggia d’oro, //
che tosto trasformò tortelli dui / in Astri, i quai nel Circolo celeste / entro l’Acquario miransi da nui; //
ma gli signori Astronomi, che queste / storie non sanno, Pesci li credero: / pajono infatti, ma non hanno teste.
Ecco dunque che, secondo questa fantasiosa ricostruzione, sarebbero stati i mitici pastori d’Arcadia ad inventare i tortelli. Offrendoli ad Aretusa, Alfeo avrebbe cercato di conquistarla senza riuscirvi. I pastori dispiaciuti per la ripulsa li avrebbero offerti ad Apollo, che dopo averli graditi assai, ne avrebbe offerto agli altri dei. Piacquero particolarmente a Giove che ne trasformò due in astri nella costellazione dell’Acquario. Il testo ha inoltre una conclusione, che Elisabetta non ci leggerà per ragioni di tempo, ma che riassumo brevemente: assodato che i mitici pastori dell’Arcadia sono gli inventori dei tortelli, l’autore è stupito, che nell’adunanza celebrativa della prima adunanza della colonia arcadica di Trebbia, non si faccia se non da parte sua, memoria di questi fatti e non si sia allestito un banchetto a base edi tortelli. Se così si fosse fatto, allora sì che tutti sodali della colonia vi avrebbero partecipato senza bisogno di ulteriori sollecitazioni, che, nella realtà, il diminuito interesse per le attività accademiche probabilmente rendeva necessarie.
La denominazione di quest’incontro, secondo della serie “Sapori in Biblioteca” e costruito attorno alle presentazione del volume Agricoltura e alimentazione in Emilia-Romagna: antologia di testi è, come sapete, Dai campi al convivio: una cultura antica. Con questo titolo si voleva sottolineare come, a partire dai manuali per l’organizzazione e la gestione della villa e le coltivazioni, i libri antologizzati includano anche testi che hanno avuto una importanza fondamentale per l’allestimento di quei sontuosi banchetti che hanno caratterizzato la vita sociale dal rinascimento ad almeno tutto il Settecento, ove con l’elenco delle vivande servite, difficilmente appetibili al gusto di oggi, non mancano indicazioni sulla presentazione dei piatti e sulla preparazione della tavola. Tra questi nel libro sono ricordati l’opera di Cristoforo Messisbugo (la biblioteca possiede l’edizione Libro novo nel qual s’insegna a far d’ogni sorte di vivanda secondo la diversità de i tempi, così di carne come di pesce, et il modo d’ordinare banchetti, apparecchiar tavole, fornir palazzi, et ornar camere per ogni gran principe …, In Venetia, 1571) e di Bartolomeo Stefani (la biblioteca possiede l’edizione L’arte di ben cucinare et instruire in men periti in questa lodevole professione …, In Bologna, per Gioseffo Longhi, 1687). Cristoforo Messisbugo propone la descrizione di banchetti realmente svoltisi e ce ne riporta la data, il luogo, l’opite e gli invitati principali. Bartolomeo Stefani, invece, indica genericamente i mesi in cui il banchetto può tenersi e il numero dei convitati ai quali si addice. Vi sono peraltro altre fonti da cui ricavare descrizioni di eventi simili. Queste precorrono, in qualche modo, la cronaca mondana. Un esempio che si deve ad un autore piacentino, il notaio Tiberio Pandola, è Il famoso convito così delle giostre come del banchetto, che lo Illustrissimo & Eccel. S. Duca di Piacenza, & di Parma, ha fatto nella Mag. Città di Piacenza nello anno MDLXI, In Milano, dalla stampa di Francesco Moscheni, 1561. Vi si descrivono i festeggiamenti per il Carnevale di quell’anno. L’arzigogolata sintassi e la quantità di minuti riferimenti ai cavalieri e alle dame presenti non ne favoriscono la lettura ad alta voce. Elisabetta ci proporrà quindi brani dell’opera di Bartolomeo Stefani che ci consentiranno soprattutto di notare come l’allestimento della tavola non si discosti punto dalla ricchezza delle architetture effimere con le quali si adornavano le città le sale e i templi in occasioni festive o funebri.
Elisabetta Rausa
Da Bartolomeo Stefani, L'arte di ben cucinare ed instruire i meno periti, Bologna 1687.
Banchetto che si potrà fare in giorno di magro per 25 dame, e 25 cavalieri per i mesi di Giugno, e Luglio.
La tavola sarà apparecchiata industriosamente, con un trionfo fatto di zuccaro, che sembri la fonte di Bologna con quel maraviglioso Nettuno, e vi saranno quattro archi fatti con le loro basi, e retti con dissegni di perfetta architettura, colonne e capitelli tutto di zuccaro, sotto le quali vi saranno le quattro stagioni dell'anno, e nella sommità degli archi vi saranno aquiloni di zuccaro, tramezzati con vasi pur di zuccaro, e dentro vi siano mazzi di fiori naturali (p. 154).
La presentazione delle vivande non manca, a tratti, di adeguarsi: così s’incontrano «pasticci fatti in modo di Sirena … e sopra l’orlo del piatto vi saranno quattro leoncini di zuccaro, che con le loro zampe sostentano un copertore di zuccaro toccato d’oro» (pp. 154-155), e «canestre di pasta traforate piene di vari frutti siropati, & intorno a dette canestre vi saranno molti puttini in piedi fatti pasta di marzapane, che con le loro mani piglino quei frutti» (p. 155). A volte la scena rappresentata evoca la produzione della vivanda come in questo caso: «cassetta di di pasta fatta in guisa di quelle ove si fabrica il caviale, dentro vi sia caviale di sturione con Mastro, fatto di marzapane, che lo fabrica; dall’altro capo della cassetta, un Scultore, che faccia una statua di detto caviale» (p. 156). Le istruzioni per la presentazione delle «bragiolette di sturione» recitano: «regalerai il piatto con calamari fritti … & intorno all’ala del piatto quattro delfini di pasta, che con le code sostentino un copertore di pasta traforata» (p. 158). Né manca «un pasticcio fatto in forma di nave, con li suoi marinari, fatti di pasta … & intorno alla nave la sua spuma di mare fatta con chiare d’ovo e smaltino» (p. 158) e «un delfino in un piatto in cui sia spuma marina, nel modo sopradetto, fatto di pasta, che porti sopra il dorso un pezzo di sturione arosto … e sopra l’ala [del piatto] un pescatore con la canna e l’amo fatto di pasta di marzapane» (p. 159).
I mutamenti apportati alla tavola ricordano i mutamenti di scena a teatro. Così poco prima della fine del banchetto, dopo la frutta e prima del dolce, la tavola viene rifatta:
Levati che saranno i frutti, da un capo della tavola si porrà un Ercole quando sbranò il leone nella selva Nemea, e dall'altro capo vi si metterà Sansone quando espugnò, e vinse i filistei con una mascella d'asino, e nel mezzo Argante, e Tancredi pugnando.
Su di essa vengono posti:
Bacili di confettura bianca, profumata con muschio, & ambra.
Bacili con vaseti di gelo di cotogno.
Bacili con conserve di vari frutti, e fior.
Bacili di pistachea.
Bacili di pasta di Genova.
Bacili di zuccata condita.
Bacili di pomi d’Adamo conditi.
Bacili di persicata.
Bacili di pistacchi.
Bacili di torrone.
I piatti, occasionalmente citati per le loro decorazioni, di questo banchetto – le cui portate sono ritenute adatte per i giorni di magro – non sono che una piccolissima parte di quelli serviti.
Quanto all’abbondanza e alla varietà, fatto salvo lo scrupolo di rispettare il magro, non è significativa la differenza con un altro convito che è presentato come
Rivolgo un sentito ringraziamento ad Elisabetta che ha prestato la sua voce per le letture, che mi auguro abbiate trovato interessanti e che ci hanno avvicinato a testi più o meno lontani nel tempo, dalla Nuova, vaga e dilettevole villa di Giuseppe Falcone (con i suoi pronostici meteorologici e le considerazioni sull’utilità dell’asino), al capitolo in terza rima dell’arcade piacentino Gaspare Bandini (sulla preparazione dei tortelli piacentini e la loro mitologica origine), a brani dell’opera di Bartolomeo Stefani, che ci ha avvicinato ai banchetti, ai loro sontuosi allestimenti e alle caloricissime – e ad occhio direi poco salubri portate – per quanto artisticamente presentate.
Prima di concludere, desidero ricordare un Festino fatto alli 14 di febraio 1548, che fu il giorno di Carnevale, per me Christophoro in casa mia, all’Illustrissimo & Eccellentissimo Signor Nostro, all’Illustrissimo Signor Principe, et ad altri signori, gentil’huomini, e gentildonne che furono al numero di vintisette alla prima tavola, dove si fecero sette piatti di vivanda come appresso sarà notato dal Libro novo (1571) di Cristoforo Messisbugo già richiamato sopra. Al di là delle osservazioni che suggerisce circa lo status dell’autore – nelle condizione di ospitare personaggi eminenti –, se ne ricava, come è ben noto ai letterati e ai musicologi che si occupano di Cinquecento, che «In prima fu recitata una commedia, dove era una bellissima scenetta, la quale era finta <in> Venetia. La comedia era intitolata La notte, opera di M. Girolamo Parabosco, da Bologna. La quale fu molto piacevole, ridicula, e bene recitata con le sue musiche, & intermezzi opportuni e necessari. La qual Comedia si cominciò a ore 24, e finì a ore 3 et mezza di notte, et finita la comedia fu apparecchiata una tavola con le sottoscritte robbe …». La testimonianza è importante soprattutto per l’accenno alle musiche e agli intermezzi che non figurano nella prima edizione della commedia, risalente 1546. Il Parabosco, che qui è detto da Bologna, è in realtà piacentino.
Non vi sarà sfuggita l’ora d’inizio della rappresentazione e la durata, e resta alla nostra immaginazione il protrarsi del convito. Cosa saranno mai al confronto le tre ore scarse che abbiamo trascorso insieme! Se l’aperitivo offerto è nulla rispetto al banchetto, anche la durata – che avete sopportato con pazienza – è stata, per fortuna, in proporzione.
Elisabetta Rausa si è laureata in Architettura presso il Politecnico di Milano, è bibliotecaria della Biblioteca Passerini-Landi con cui collabora principalmente occupandosi del Fondo Antico. Ha al suo attivo l’ideazione e l’organizzazione di numerose esposizioni finalizzate alla valorizzazione del materiale ad esso pertinente. Ha prestato la propria voce a diversi incontri di lettura e ad un documentario sul Salterio di Angilberga.