Dalla terra alla luna. Elide Casali
print this pageL’arrivo del tour “Sapori in Biblioteca” a Forlì ha rappresentato un motivo di profonda soddisfazione per la cultura della città dove, presso la Biblioteca Comunale Aurelio Saffi, sono conservate le «Raccolte Piancastelli», l’Archivio storico della Romagna per eccellenza, una ricchezza di materiali – non solo cartacei – alla cui valorizzazione sono votati i «Quaderni Piancastelli» (Bologna, il Mulino), pubblicati a partire dal 2003. Mentre tra i molti tesori inestimabili conservati nei fondi antichi della Biblioteca Comunale spiccano i numerosi volumi, impreziositi da raffinate tavole illustrative, del frate naturalista forlivese Cesare Majoli (1746-1823), che figurano anche in Agricoltura e alimentazione, pubblicazione curata da Zita Zanardi.[1]
Il libro di Zita Zanardi è un’antologia di “antichi testi”, “classici” di “agricoltura e di alimentazione” dell’Emilia Romagna, che si possono definire “in negativo”: essi non appartengono, infatti, alla letteratura del canone, non trovano spazio nelle storie e nelle antologie della letteratura italiana. Essi rientrano nella tradizione di “testi non propriamente letterari”, secondo la definizione di Piero Camporesi.
La struttura del libro presenta una mappa complessa, le cui sezioni si configurano come sentieri segnati nell’intricato bosco di una produzione compresa in un ampio arco cronologico, dal Medioevo ai primi decenni del Novecento. Per citare un titolo di Umberto Eco, è ammirevole che Zita Zanardi abbia sfidato la “vertigine della lista” dei testi che deve aver consultato per questo volume. La curatrice ha compiuto un’impresa coraggiosa nel muoversi in una fitta foresta che sembra senza confini; nel compiere scelte mirate e oculate tra materiali ricchi e preziosi per quantità e qualità, relativi a un tema ampio e frastagliato come quello che dà il titolo al volume. Agricoltura e alimentazione è il risultato di una speciale alchimia, operata da chi possiede una straordinaria familiarità con i libri, tra i quali si muove con impeccabile competenza.
Il lettore viene guidato attraverso un percorso composto da specifici generi e diverse forme letterarie, che si apre con i «Manuali e trattati» di agronomia, ossia i libri rei rusticae: da Pier de’ Crescenzi (1233-1320, che visse parte della sua vita ai tempi di Dante e fu contemporaneo di Guido Bonatti, che a Bologna aveva studiato la scienza dei cieli) fino a Luigi Maccaferri di Massa Lombarda (1834-1903), autore de La migliore delle industrie agricole (Bologna 1884). Seguono i «Libri di sanità», relativi all’ars medendi, a partire dal De regimine sanitatis di Nicola Bertuccio (m. 1347), bolognese, allievo e successore del famoso anatomista Mondino de’Liuzzi a Bologna, fino all’Istoria botanica di Giacomo Zanoni (sec. XVII) e a Cesare Majoli. La terza sezione, dedicata alle «Dissertazioni», comprende testi tecnico-scientifici su prodotti e singoli generi alimentari, sulle forme della produzione e della lavorazione dei cibi di origine vegetale e animale. Pagine su caccia, valle, apicoltura, viticoltura e vinificazione, panificazione, conservazione dei frutti e dei prodotti della terra, produzione del sale (Cervia), norcineria, sono documentate da scritti che vanno dalle Lettere sulle insalate del medico naturalista Costanzo Felici (sec. XVI) alla Breve relazione … per la fabbricazione dei salumi suini di Medardo Bassi (1840-1905). Il cuore del volume è composto dai «Ricettari e “libri di casa”» compresi tra il XVI e l’inizio del XX secolo: dall’istruzione del gentiluomo trinciante Giovan Francesco Colle (sec. XVI) all’«arte di mangiar bene» di Pellegrino Artusi (1820-1911), fino a Salvatore Ghinelli (1873-1939, L’apprendista cuciniere, 1928) e ad Augusto Majani (1867-1959, Nei regni della gastronomia,1925). Nella sezione successiva, «Leggi regolamenti, inchieste», è antologizzato un interessante campionario di scritture ufficiali (tra cui bandi e notificazioni), relative al controllo della preparazione dei cibi e del bere, della pesca, della caccia, delle saline, della navigazione sul Po, del rifornimento delle derrate alimentari. La produzione letteraria di «Lunari e almanacchi», poi, viene esemplificata da testi a partire dal cinquecentesco Pronostico di Giacomo Pietramellara per il 1524 (con riferimento alla grande giunzione dei pianeti nel segno dei pesci) fino al «Luneri di Smembar» (1844-45), guide fondamentali per ogni forma di attività produttiva che in età preindustriale si credeva fosse regolata dagli influssi del mondo “lunare”, del luminare di notte e dei pianeti. Infine il tema «Agricoltura e alimentazione» appare illustrato attraverso documenti iconografici e letterari nella parte dedicata a «Arti e letteratura», con materiali figurativi di grande fascino, come quelli tratti dalle Opere manuali delle monache di Bologna (sec. XVII) e dalle incisioni L’arti per via di Giuseppe Maria Mitelli (1634-1718). Ad essi si aggiungono testi letterari di Sabadino degli Arienti (1445ca-1510) del cantastorie di San Giovanni in Persiceto, Giulio Cesare Croce (1650-1609), fino a La piada di Giovanni Pascoli (1855-1912) e all’Andreana di Marino Moretti (1885-1979).
I “classici” presentati appartengono a un ricchissimo archivio di “fonti” e di “documenti”, “strumenti” di studio e di ricerca. La «Bibliografia», posta a conclusione del volume, dimostra l’intenso dialogo intrattenuto in gran parte nel secolo scorso, da intellettuali e studiosi di diversa configurazione culturale con testi che s’inscrivono nella tipologia di quelli accolti e presentati nell’antologia. Sono serviti e servono, infatti, allo studio della storia dell’agronomia, delle tecniche agricole e del paesaggio agrario, dell’alimentazione, dei rapporti di produzione, alla storia sociale, alla storia della medicina, dell’arte profumatoria e degli odori.
Un particolare motivo di orgoglio per Forlì sta nel fatto che ebbero importanti legami con la città studiosi che nel secondo Novecento hanno saputo, in modo pionieristico, nuovo e originale, interrogare molti dei libri antologizzati da Zita Zanardi, e insieme a quelli molti altri dello stesso genere che per ovvie ragioni non hanno trovato spazio in Agricoltura e alimentazione. Lucio Gambi (1920-2006), geografo e storico di fama internazionale; Carlo Poni (1927) esperto di storia economica, autore del libro Fossi e cavedagne benedicon le campagne, studi di storia rurale (1982), un classico che ha fatto epoca. Piero Camporesi (1926-1997), italianista, che a un certo punto del suo percorso intellettuale, sfidando le leggi accademiche della ricerca storica e letteraria, esce dai binari disciplinari, costruendo mirabili affreschi di storia sociale, di letteratura “popolare” e di antropologia, che ha saputo porre all’attenzione in ambito sia accademico che divulgativo, in territorio nazionale e internazionale. Non a caso il titolo di questa conversazione forlivese si ispira all’opera camporesiana che, dall’edizione per i classici di Einaudi del 1970 della Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi, ai saggi raccolti nel volume Alimentazione folclore e società (1980, poi rivisto e ampliato in La terra e la luna, 1989); da Il pane selvaggio (1980) a Il sugo della vita (1984), costituisce un passaggio obbligato per qualsiasi studio sulla storia del “popolare”, l’antropologia e il folclore, la vita rurale e l’alimentazione, l’immaginario collettivo e la medicina.
Tra i titoli antologizzati in Agricoltura e alimentazione sono compresi molti dei “miei” “classici” se - come scrive Italo Calvino - «si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati», che «esercitano un’influenza particolare sia quando s’impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale».[2] In particolare, il “mio” classico per eccellenza è quello che compare al n. 4 della prima sezione, Il giovane ben creato di Bernardino Carroli da Ravenna (1583). Lo definisco “mio” perché, pur con l’inesperienza ma anche con l’intraprendenza di giovane studiosa, guidata da eccelsi maestri, nei primi anni Settata del secolo scorso ho avuto la ventura di disseppellirlo dal fondo delle “Raccolte Piancastelli”, dopo averlo individuato sul repertorio Memorie storico-critiche degli scrittori ravennati di Pietro Paolo Ginanni (Faenza 1769, ad vocem), mentre ero alla ricerca di testi di scienza e di tecnica nella tradizione di Romagna. L’ho poi studiato per sette anni e l’ho fatto conoscere nel 1982 con il mio primo libro Il villano dirozzato;[3] infine l’ho posto al sicuro dalla dimenticanza con un’edizione moderna, pubblicata nel 2004 tra i classici della letteratura italiana, «minori», ma pur sempre classici, nella collana dell’editore ravennate Alfio Longo.[4]
Gli altri classici che in qualche modo sento “miei”, sono raccolti in un’intera sezione dell’antologia, quella in cui figurano lunari e almanacchi, onde di un mare magnum dai fascinosi fondali, in cui mi sono immersa fin dai miei primi studi universitari e dai quali non sono ancora riemersa, continuando a scoprire meraviglie inattese.[5]
I libri rei rusticae mi sono stati familiari non solo per tutti gli anni in cui ho studiato Il giovane ben creato di Carroli, ma anche per lungo tempo ancora, quando sono tornata sul tema agronomico in rapporto alla cucina e all’alimentazione, all’astrologia e alla meteorologia.[6] Indelebili ricordi sono legati a pagine di molti di essi, come quelle che si riferiscono alle “stagioni” della luna (le fasi lunari) nei Ruralia commoda di Pier De Crescenzi; quelle de L’economia del cittadino in villa (1644) di Vincenzo Tanara, dedicate al sole e alla luna, al calendario stagionale degli alimenti; al testamento del porco, riportato anche nel volume curato da Zita Zanardi.[7]
Uno degli aspetti più interessanti dello studio della letteratura agronomica risiede nel fatto che essa contribuisce a ricomporre in modo più articolato le dinamiche delle società rurali d’Ancient Régime; a portare alla luce il conflitto tra cultura “popolare” e subalterna e cultura d’élite e ufficiale, declinato oltre che all’agronomia (res rustica), all’alimentazione (res coquinaria) e alla pronosticazione (res divinatoria).
Res rustica e res coquinaria
Se si esaminano, ad esempio, i testi riportati dalla curatrice in Agricoltura e alimentazione, ai numeri 4 e 5 della prima sezione, vale a dire Il giovane ben creato di Bernardino Carroli (1583) e Il giardino d’agricoltura di Marco Bussato (1592) (Fig. 1, Fig. 2), entrambi appartenenti alla cultura ravennate degli ultimi decenni del Cinquecento, appare evidente come essi siano complementari nell’offrire una visione mossa delle culture rurali del tempo. Da un lato il piccolo proprietario, Bernardino Carroli, testimonia le forme dell’agricoltura “necessaria” della vita “di” villa, propria ai residenti in campagna tutto l’anno e ai lavoratori della terra e dei poderi, insegnando al giovane mezzadro le tecniche per una proficua conduzione delle terre, comprese le pratiche più dure e faticose: zappare, vangare, arare, scavare fossi. Dall’altro lato il giardiniere innestino degli Estensi, Marco Bussato, presenta con il suo Giardino d’agricoltura uno dei lati più ameni dell’agricoltura “dilettevole” della vita “in” villa, propria a signori e a gentiluomini proprietari che si recavano nelle campagne per la villeggiatura, dedicandosi per diletto al “giardino” o frutteto e alla più nobile delle operazioni rustiche, l’innesto.[8]
Il giardino, infatti, costituisce lo spazio in cui viene esercitata la più nobile e lodevole tecnica agricola, e dove vengono eseguiti gli esperimenti più sofisticati e bizzarri. Le tecniche dell’innesto appaiono illustrate da Bussato con frequenti ed eleganti tavole di fattura didascalica, che rendono da un lato pregevole il libro e dall’altro lato ne facilitano la fruizione da parte dei gentiluomini, di coloro che ignoravano pratiche agronomiche e uso di attrezzi agricoli.
Nel Giardino d’agricoltura Bussato contempla la presenza di una selezionata varietà di frutti “buoni” e “gentili”, compresi gli agrumi (cedri, aranci e limoni), frutti esotici, ricercati e principeschi, riservati in età moderna a mense signorili e a palati delicati, frutti totalmente assenti dal “giardino” del podere mezzadrile prefigurato da Carroli ne Il giovane ben creato.
Se si passa a considerare nell’opera di Carroli la relazione tra i prodotti del campo e del “giardino” mezzadrile e il loro consumo a “tavola”,[9] appare evidente che il precettista interpreta il pensiero dei proprietari dei terreni, di cui è portavoce. Indugia sulla scelta, per esempio, dei frutti che vanno piantati nel “giardino” grande (frutteto) e nel giardino piccolo (orto); elenca le varietà e le rispettive proprietà di tali frutti, delle uve in particolare, insegnando dove e come vanno piantati. Le pagine de Il giovane ben creato dedicate all’”arte del giardino” vanno lette tra le righe: i frutti consigliati dal gentiluomo di campagna, infatti, sono quelli che il mezzadro dovrebbe piantare nel podere prima ancora che per sé e per la sua famiglia, per il padrone e il fattore. Dietro i precetti rivolti al dirozzamento del palato rustico, quindi, si cela la volontà di adeguare i prodotti del giardino al palato delicato dei proprietari gentiluomini. Erano frutti che per contratto andavano divisi in parti uguali tra il conduttore del podere e il padrone, e riempivano le generose cornucopie delle regalie. Il giardino e l’orto del podere mezzadrile sono progettati da Carroli non solo tenendo conto dell’esigenze di un’economia di sussistenza, ma anche dei piaceri della tavola del proprietario. A proposito delle pere, per esempio, pur precisando che si tratta di frutto «signorile di molte sorti e sapori», il gentiluomo di Santerno insegna di «metterne pochi», «uno d’ogni sorte de quelli buoni, perché questi sono frutti che poco si mantengono» da un anno all’altro e «basta», dunque, «averne sino che sta la sua staggione».[10] In questo precetto,
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«si sovrappongono e si confondono considerazioni di natura diversa: le pere si mantengono poco, dunque è meglio coltivare pochi peri, e ricavarne l’uso alla tavola del signore, dato che ai contadini i frutti deperibili non possono (non debbono) interessare. Che questi frutti “poco si mantengono” è vero fino a un certo punto: la pera […] è adatta alla conservazione e non c’è autore che manchi di sottolinearlo, distinguendo le specie che vogliono consumate fresche da quelle maggiormente serbevoli […]. Solo che, ‘declinate’ in questo modo, le pere cambiano identità: mantenerle a lungo, trasformarle in frutto durevole è un gesto tipico della cultura contadina. Perciò Carroli preferisce ignorarlo: la sua inesatta affermazione è funzionale all’immagine signorile che egli ha appena dato della pera».[11] |
Al di là dei consigli relativi alle varietà di frutti e di uve da mettere a dimora, nell’opera di Carroli non si rinvengono precetti specifici relativi all’alimentazione tradizionale della famiglia mezzadrile, ai cibi che comparivano sulla tavola del lavoratore della terra. Indirettamente, tuttavia, qualche elemento in tal senso emerge nella carrellata delle “malizie” contadine e dei relativi insegnamenti di creanza cristiana. Un passo molto significativo, in tal senso, è quello che restituisce la figura animalesca e grottesca, volutamente caricata del malcreato uomo dei campi, a fine di stigmatizzare la modalità di assunzione del cibo, piuttosto che sottolineare la tipologia del cibo che viene consumato.
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«Non sta ben ancor andar mangiando per le piazze, come molte volte ho veduto fare a certi [villani] c’hanno più presto del gatto salvatico che dell’uomo. […] tra molti di questi tali ne viddi uno sul mercato di Russio, castello di Romagna, il qual aveva comprato del pane: aveva costui un porro il più smisurato ch’io vedessi mai. Andava questo buffone per la piazza mangiando il pane et il porro e ciascuna volta che si poneva il porro alla bocca ne tagliava un boccone con i denti, assomigliandosi ad uno che sonar volesse di corno, per il che tutta la piazza si mosse a risa con vergogna e scorno del mangiatore». [12] |
Dalla pagina di “satira contro il villano” di Carroli, tuttavia, spicca una parola chiave, il porro, alimento caratterizzante il regimen alimentare contadino, che rinvia alla dicotomia tra cibi per palati rustici (dei villani) e cibi per palati delicati (dei gentiluomini), a dietetiche rigidamente governate secondo la natura dei corpi. A distanza di pochi anni dalla pubblicazione de Il giovane ben creato, nel Trattato della natura de’ cibi e del bere (1587) Baldassarre Pisanelli [13] descriveva il porro come «la peggiore vivanda e la più detestabile e viziosa», «cibo da persone rustiche», mentre sosteneva che fagiani e beccafichi rendessero tisici e asmatici i villani, e fossero riservati all’alimentazione di «persone nobili e delicate».
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«Fin dal penultimo decennio del Cinquecento – scrive Piero Camporesi – il medico bolognese Baldassarre Pisanelli aveva teorizzato un duplice regime nutritivo e dietetico (il conflictus fra cultura alta e cultura bassa si profila qui sub specie coquinaria) a seconda delle differenze sociali: cibi adatti alle persone rustiche e cibi per gentiluomini, vietati ai primi. Se questo codice alimentare fosse stato trascurato o spezzato, la trasgressione alimentare si sarebbe tradotta in malattia per il tracotante divoratore di cibi a lui dalla natura (e dalla “sua” natura) non destinati. Una specie di triste fato dietetico i cui ordinamenti non si potevano varcare senza pena e afflizione corporale. La medicina bolognese (o almeno, una sua parte) costruendo tabù alimentari si pone al servizio d’una ideologia di potere e di sopraffazione sociale».[14] |
L’ideologia del medico e astrologo bolognese, dunque, traduce in termini di salute e infermità la discriminazione sociale in fatto di alimentazione, che rappresenta un aspetto consolidato della storia sociale e dell’alimentazione dell’età preindustriale, medievale e d’Ancien Régime. Ne è la prova anche il proverbio “Non far sapere al contadino quanto è buono il formaggio con le pere”, studiato da Massimo Montanari, dietro al quale si celano «comportamenti e precetti alimentari» dettati da conflitti tra l’”alto” e il “basso”, tra culture diverse e ceti sociali contrapposti, che si ripercuote anche nella produzione e nel consumo dei prodotti della terra.[15]
Il conflitto sociale intrecciato al conflitto alimentare si maschera dietro la creanza cristiana della precettistica carroliana, dove il tema del cibo appare declinato alla catechesi e alla dottrina cattolica del vero e buon cristiano. Il messaggio che viene alla luce dalla lettura de Il giovane ben creato, è quello relativo al cibo “devoto”, quello che il mezzadro persegue nel rispetto delle disposizioni dei patti agrari, vincendo la tentazione del cibo proibito, peccaminoso, inferico, demonizzato perché frutto degli abusi contadini che inducono a sottrarre al proprietario del podere i prodotti dei campi, del cortile e della stalla prima della divisione pattuita.[16]
Res divinatoria
I due classici ravennati, Carroli e Bussato, si richiamano l’un l’altro anche per la presenza in entrambi di immagini topiche della terra e del cielo, che figurano da un lato sul frontespizio della prima edizione del trattato carroliano, l’Instrutione de il giovane ben creato (In Ravenna, Presso Girolamo Corelli, & Girolamo Venturi, 1581) (Fig. 3) e, dall’altro lato, in una delle tavole dell’opera del Giardino d’agricoltura di Bussato (Fig. 4, Fig. 5). Si tratta di elementi paesaggistici che rinviano al titolo di questo scritto, Dalla terra alla luna, binomio che allude all’antica rappresentazione aristotelico-tolemaica dell’universo, (Fig. 6) al rapporto tra mondo lunare finito e incorruttibile (delle sette sfere planetarie e dell’ottava sfera dello zodiaco) e mondo sublunare o elementare (terra acqua aria e fuoco), corruttibile, del regno vegetale, minerale, animale, e della fabbrica del corpo umano. Sottintende lo stretto legame tra macro e microcosmo, uno dei principi cardine di tutta la filosofia della natura rimodellata dai Padri della Chiesa e dai filosofi e teologi del Medioevo, che si protrae fino all’età della rivoluzione scientifica in saperi che trovano una loro precisa sistemazione e teorizzazione nella scienza dei cieli, e l’applicazione pratica alle attività umane. Si traducono in operazioni e gesti quotidiani che accompagnano l’esercizio dell’agricoltura, della medicina, della meteorologia, della navigazione, del governo di “casa” e della politica, guidati dal cielo secondo le regole dell’ars divinatioria dei signa e degli astra .
Divinatio vulgaris e astrologia “scientifica” rappresentano diverse forme di pronosticazione relative al raccolto e al tempo meteorologico, che sul mercato editoriale apparivano complementari – secondo la strategia produttiva del “pronostico”, del lunario e dell’almanacco per tutti e per tutte le tasche – ma che spesso tra gli addetti ai lavori venivano contrapposte. Nel “quotidiano” e nell’“immaginario” dell’uomo con il naso all’insù dell’età preindustriale, la conoscenza del cielo si diversificava in base allo stato sociale, ai livelli di cultura e di alfabetizzazione. Gli uomini dei campi e delle ville, immersi nella cultura folclorica e nell’oralità, erano gli interpreti più attenti dei segni del cielo, seguendo i dettami della divinatio vulgaris di lontanissima tradizione scritta e orale, che nei secoli è andata a fondersi nei saperi folclorici, a sedimentarsi nelle usanze popolari, a radicarsi nei proverbi e nelle sentenze. «Nasce da questa scienza degli astri (della luna in particolare) – scrive Piero Camporesi – tutta la serie dei proverbi meteorologici che formano la struttura portante del calendario agrario, legato concretamente alle vicende della terra e degli animali».[17]
Per un pubblico di fruitori analfabeti o semialfabetizzati, fin dalla seconda metà del XV secolo venivano compilati lunari e pronostici annuali e perpetui, in una veste tipografica semplificata nelle forme e nei contenuti: calendari in foglio con i simboli astronomici delle fasi lunari e le immagini zodiacali dei mesi, e pronostici perpetui calcolati astrologicamente dal pianeta dominatore dell’anno e dalle osservazioni dei signa naturali, dal sole e dalla luna, dalle stelle, dalla nuvole, dall’«arco celeste», dagli uccelli, come dettano alcune delle rubriche del Lunario perpetuo di Don Filippo Biserni da Premilcuore di Romagna, pubblicato a Forlì nel 1694.[18] (Fig. 6, Fig. 7, Fig. 8, Fig. 9)
La luna, in particolare, rappresentava la vera guida per le attività agricole e la vita dei campi. Non a caso nel “galateo cristiano” del contadino mezzadro di Carroli, il solo riferimento agli influssi astrali è quello relativo alle fasi lunari.
Diversamente per i gentiluomini, cui erano rivolti i trattati di agricoltura e di economica, del governo del podere e di reggimento della famiglia – da quello di De Crescenzi fino alla più fitta produzione del Cinque e Seicento –, i precetti astrologici appaiono molto circostanziati e precisi, basati sui calcoli astronomici e sui “giudizi” astrologici, ossia le previsioni tratte dalle disposizioni astrali nella figura dell’oroscopo.[19] Ne costituiscono un esempio Gli arcani delle stelle, il “Discorso astrologico” annuale calcolato per circa quarant’anni da Don Antonio Carnevali da Ravenna (1611-1678), che conobbe un’ampia diffusione non solo in Romagna, ma anche in tutta Italia. (Fig. 10, Fig. 11)
La letteratura pronosticante annuale in tutte le sue forme e varietà conobbe una larghissima diffusione, soprattutto a partire dall’introduzione della stampa, dal secondo Quattrocento in poi, disegnando un percorso storico screziato e complesso.[20] Che fossero redatti in foglio volante o in opuscolo, tuttavia, i pronostici annuali portavano innato il destino della loro vita effimera: con l’arrivo del nuovo anno diventavano inservibili, inutilizzabili. Risultavano, perciò, materiali cartacei di facile deterioramento, di cui spesso sono rimasti rarissimi (e spesso unici) esemplari, mentre altri titoli sembrano del tutto scomparsi. Potevano sopravvivere da un lato come materiale cartaceo di riuso nelle rilegature di codici, di manoscritti oppure di libri a stampa; dall’altro come memorie conservate negli archivi dei tipografi o come curiosità rare collezionate in biblioteche private.
Raccolte di pronostici lunari e almanacchi sono presenti in archivi, biblioteche pubbliche e private di tutta Italia, in parte catalogate, conosciute e studiate.[21] A Forlì, è nota quella di Carlo Piancastelli, descritta dallo stesso bibliofilo e bibliografo fusignanese nel volume Lunari ed almanacchi. Studio di bibliografia romagnola (1913).[22] Ma altri rari e rarissimi tesori si trovano “nascosti” nelle biblioteche pubbliche, là dove meno s’immagina possano essere e dove mai s’andrebbero a cercare, e che vengono allo scoperto spesso solo per caso. Durante le mie ricerche sulla tradizione pronosticante lunaristica e almanacchistica, non avrei mai pensato, per esempio, di prendere in mano gli oltre trenta volumi della «Raccolta di Notificazioni e Circolari» di Michele Placucci (1782-1840), impiegato presso l’amministrazione pubblica della città di Forlì, se l’amico Giancarlo Cerasoli il 29 dicembre 2014, insieme agli auguri per il nuovo anno, non mi avesse informato che alla fine dei «31 volumi della «Raccolta di Notificazioni e Circolari» (814-1839), «donata da Michele Placucci alla Biblioteca Comunale di Forlì […] sono conservati molti ‘calendari’ di quegli anni».[23]
Tranne che in pochi casi i volumi miscellanei della «Raccolta» scandita anno per anno, infatti, comprendono a inizio e/o in chiusura un calendario-lunario-pronostico in foglio da appendere (da attaccare, come si usava, alle porte o alle pareti), per un totale di venticinque esemplari compresi tra il 1817 e il 1838. Per alcune annate i lunari in foglio incollati alla fine dei volumi sono due (1822,1826, 1832, 1836, 1838). Si contano inoltre quattro almanacchi in opuscolo, uno a conclusione del volume del 1827, L’Astronomo Forlivese;[24] tre all’inizio del volume del 1932, usciti anonimi dalla Tipografia di Bordandini: Alla Virtù. Al sospiro de’ Forti. Alle Donne Veramente Italiane. Almanacco Per L’Anno Bisestile 1832. Italia, s.n.t.;[25] Il Ciabattino Astronomo e Politico. Almanacco Per L’Anno 1832. Italia, s.n.t.;[26] Istruzione Pel Popolo Italiano. Almanacco per l’Anno 1832. Italia, s.n.t.[27] (Figg. 12) Questi tre almanacchi sono presenti nella “Bibliografia romagnola” di Piancastelli, dove vengono elencati e descritti come accomunati dallo spirito patriottico che caratterizza ciascuno di essi.
«Ciabattino Astronomo e Politico. Almanacco Per L’Anno 1832» fu stampato a Forlì dal Bordandini, come si rileva dai tipi e dalla silografia del frontespizio, rappresentante strumenti astronomici e fisici, poi riproposta negli anni seguenti. Il Discorso astronomico-politico espone schiette idee liberali in fiera opposizione con quelle della Corte di Roma, e identica intonazione hanno le brevi osservazioni intercalate nei mesi. […] Alla Virtù. Al sospiro de’ Forti. Alle Donne Veramente Italiane Alla Virtù. Al sospiro de’ Forti. Alle Donne Veramente Italiane […] una incisione in rame con tre donne laureate in piedi, che si abbracciano e reggono tre bandiere in modo da formarne una sola coi tre colori verde, bianco e rosso,e coi tre motti forza, unione, libertà. Al calendario, della stessa composizione tipografica dell’Almanacco testè descritto, è premesso un discorso alle donne italiane, spirante il più appassionato amor di patria. […] Istruzione Pel Popolo Italiano […] Al dialogo a domanda e risposta, che precede il semplice calendario, bene sono dati per intestazione i seguenti versi che ne caratterizzano a perfezione il contenuto:
oh patria mia, se nel crudel esiglio
Non consente l’età, ch’adopri il brando,
Le parole userò con tal virtude,
che mille ne fian merti al gran concerto,
onde tu sorga alfine a nuova vita
da brutta schiavitù, che ti fa vile! [28]
Tra i lunari in foglio sono compresi due imolesi: il Lunario per il 1818 e Il famoso Pietro G. P. Casamia Veneziano[29] per il 1820, stampati dalla Tipografia del Seminario; un folignate, Il Famoso Astrini per 1819, pubblicato presso Francesco Fofi; due esemplari de Il Braghirone (1821, 1823) della Tipografia De’ Franceschi alla Colomba di Bologna, e l’anconitano Giornale per il 1822 della Stamperia Sartori. I restanti diciannove lunari sono esemplari usciti dalle due principali stamperie forlivesi: la Ditta Casali e la Ditta Bordandini.[30] Alla produzione del tipografo Matteo Casali appartengono L’Astronomo Forlivese (1817, 1822); Il Vecchio Astronomo Forlivese (1825, 1826, 1831); Il Luminare della notte (1832); Il Luminare Del Giorno (1833); Il Giornale Forlivese (1836); il Calendario Forlivese (1837), senza nota tipografica ma con caratteri e silografie inconfondibili (luna e strumenti astronomici). Mentre al tipografo Luigi Bordandini si devono Lo Spartaco Forlivese per il 1824 (Presso Moretti e Bordandini); L’Astronomo Forlivese (1826 1827 1828,); il Giornale Forlivese (1829); il Giornale di Gabinetto (1832), senza nota tipografica – come gli almanacchi patriottici citati pubblicati nello stesso anno – identificata dai caratteri tipografici e dalla silografia degli strumenti astronomici e fisici; Il Ciabattino Astronomo (1830, 1835, 1838). Stampati a Forlì sono anche i due esemplari dell’Orario. Calendario del Ginnasio della città per il 1836 e il 1838.
La “Collezione Placucci di Lunari e Almanacchi”,[31] disseminata tra i volumi della «Raccolta di Notificazioni e Circolari», si configura di grande interesse, poiché comprende esemplari e titoli rari, fogli volanti di calendari e di lunari, e libretti di almanacchi che non figurano nei cataloghi (cartaceo e on line) della Biblioteca Comunale “A. Saffi”, mentre solo alcuni titoli appaiono registrati nel repertorio piancastelliano.
I calendari forlivesi e romagnoli collezionati da Placucci, e in particolare quelli in foglio volante, rappresentano una campionatura di testate, unica nel suo genere, di pubblicazioni per il nuovo anno che, in parte, venivano riproposte dagli stessi stampatori nella versione almanacchistica in opuscolo tascabile (destinato a un pubblico di lettori alfabetizzati, di media e alta cultura). Nei primi decenni dell’Ottocento, dalla tipografia Casali, ad esempio, Il Vecchio Astronomo forlivese oltre che in foglio volante – come documentano le presenze di tale testata nella “Raccolta Placucci” per gli anni 1825, 1826, 1831–, usciva in opuscolo certamente per gli anni 1829 e 1831, presenti nella raccolta piancastelliana.[32] Negli stessi anni presso i Bordandini veniva stampato Il Ciabattino Astronomo, nelle due versioni in foglio volante e in opuscolo – come già annotava Piancastelli -,[33] documentate nella collezione Placucci: in foglio per gli anni 1830, 1835, 1838; in opuscolo per il 1832.
I lunari romagnoli in foglio conservati tra i volumi di Placucci,
costituiscono i più vicini antenati de Luneri di Smembar (che nasce nel 1845),[34] divenuto in oltre centovent’anni di vita il lunario romagnolo per eccellenza, un simbolo della cultura di Romagna e del suo dialetto. Riproducono la tipologia del lunario/pronostico in foglio volante coniugato al calendario ecclesiastico, secondo il modello che viene a codificarsi a partire dalla seconda metà del Seicento, e che si afferma in modo particolare nei due secoli seguenti. Il lunario/pronostico/calendario «da attaccarsi» (Piancastelli) viene introdotto da un breve “Discorso generale” circa le caratteristiche astronomico-astrologiche dell’anno (pianeta/pianeti dominatore/dominatori dell’anno, eclissi, anno bisestile), e circa le previsioni su tempo meteorologico, raccolto, malattie (ambiti di attinenza all’”astrologia naturale”), sui fatti del mondo (ambito proprio all’”astrologia giudiziaria”).[35]
La lunaristica forlivese s’inscrive, dunque, nella tradizione più antica della produzione calendaristica e pronosticante, anche grazie a una memoria tipografica che perdura attraverso i secoli. I segni più evidenti del passato si riscontrano oltre che nella struttura dei testi, in altri elementi del paratesto, nei titoli e nell’apparato iconografico. I titoli Il Luminare della notte e Il luminare del giorno – che appartengono al periodo in cui la Ditta Casali viene rinnovata dai figli di Matteo, Sigismondo e Giovanni[36] - rinviano ai più antichi pronostici in foglio del secondo Quattrocento e del primo Cinquecento, le Coniunctiones et oppositiones luminarium. Le figure del sole e della luna, dei segni zodiacali, degli strumenti astronomici e fisici; le immagini dell’astronomo/astrologo/filosofo appaiono rimodellate sulla topica iconografica propria alla letteratura pronosticante dell’età moderna.
Il valore e il significato dei lunari raccolti da Placucci sono strettamente legati alla natura dei documenti presenti nei volumi assemblati dall’impiegato forlivese, il quale nutriva evidenti interessi non solo verso gli atti dell’amministrazione locale, ma anche verso gli aspetti della tradizione folclorica di Romagna, dei costumi, delle usanze e delle credenze “popolari” che aveva raccolto nel volume Usi, e pregiudizj de’ contadini della Romagna (1818), un classico della Folclorica romagnola e italiana.[37] L’“anomala” raccolta dei calendari operata da Placucci, per molti aspetti, va posta in dialogo con i documenti cui è accompagnata alla luce dei rapporti tra le leggi governative sui generi alimentari e l’agricoltura, il “tempo dello stato” e il relativo calendario meteorologico e agrario, da un lato, e i lavori dei campi, il “tempo della villa” e il calendario rurale di tradizione orale, dall’altro lato.[38]
Le “Notificazioni e circolari” e i calendari e lunari raccolti da Michele Placucci, che appartengono al periodo post-napoleonico della Restaurazione e della prima età risorgimentale (1817-1838), si riferiscono in gran parte agli anni durante i quali Giacomo Leopardi scrisse Le operette morali, tra il 1821 e il 1832, compreso il Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere, composto nel 1832 e inserito nell’edizione fiorentina di Piatti del 1834. L’”operetta” leopardiana si conclude con l’espressione consolatoria rivolta al venditore d’almanacchi: «Dunque mostratemi l’almanacco più bello che avete», perché «Quella vita che è una cosa bella non è la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?» «Speriamo», risponde il Venditore. «Dunque – aggiunge il passeggere – mostratemi l’almanacco più bello che avete». Ricevuti i «trenta soldi» per l’almanacco richiesto, il venditore ringrazia, saluta con un «a rivederla», riprendendo il suo grido «Almanacchi, Almanacchi nuovi; lunari nuovi».[39]
La riflessione amara del poeta recanatese sul tempo dell’“eterno ritorno”, diverge dalla prospettiva della percezione del tempo propria alla cultura contadina. Non corrisponde all’idea del tempo rurale “di” villa, per la quale la ciclicità dell’anno e il ritorno delle stagioni davano senso alla ritualità e alla sacralità della vita contadina, delle “opere” e dei “giorni”, della quotidianità e delle scadenze calendariali dei lavori, perché
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[…] più che alla terra il contadino guarda il cielo, là dove è possibile scorgere gli indizi e i presagi del nuovo che, misteriosamente, sarà simile al vecchio, perché niente nel mondo sublunare si configura come assoluta novità. Alla circolarità dei movimenti in cielo fa riscontro una rotazione stagionale della terra, un avvicendarsi, a scadenze fisse, dei lavori agricoli. Così pure la vicenda di morte/rinascita della luna uccisa periodicamente dal sole col suo coltello dorato, aggancia il carnevale terrestre a quello celeste con una impressionante analogia. Ciò che sarà si può prevedere perché certamente è già stato. [40]
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Allegati
Elide Casali, bertinorese di nascita vive a Forlì. Già docente di Letteratura Italiana presso l'Alma Mater Studiorum-Università di Bologna, conduce ricerche di “frontiera” tra letteratura, storia, folclore e antropologia, in vari ambiti scientifici (Cultura e letteratura astrologica; Cultura e letteratura scientifica; Cultura e letteratura dell’età postridentina; Cultura e letteratura “popolare” e folclorica; L’opera di Piero Camporesi). Tra le sue pubblicazioni: Il villano dirozzato. Cultura società e potere nelle campagne romagnole della Controriforma (1982) e Il giovane ben creato di Bernardino Carroli per la collana dei "Classici italiani minori" (2004); Fiabe romagnole e emiliane, scelte da E. Casali e tradotte da S. Vassalli (1986); Le spie del cielo. Oroscopi, lunari e almanacchi nell'Italia moderna (2003); Almanacco Barbanera. Segreti d’eterna giovinezza (in Barbanera 1762, Foligno, Editoriale Campi, 2012).