Dalla terra alla tavola. Orlando Piraccini

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Divagazioni su artisti e opere di Palazzo Romagnoli e dintorni

Mi auguro che queste mie “divagazioni” non portino troppo lontano dalle questioni che verranno trattate con la giusta competenza da chi parlerà dopo di me.

Per questa comunicazione ho preso spunti dal luogo in cui ci troviamo, dal palazzo nel quale l’arte novecentesca di Forlì ha finalmente trovato casa; e dove pure io, consentitemi questa nota personale, di casa un po’ mi sento dopo il lavoro fatto assieme ai colleghi-amici di qui, per la nascita del museo. Come vedete scritto alle mie spalle ho fatto pure un po’ il monello, modificando per la mia parte il titolo dell’incontro di oggi. Esso sta ad indicare che anziché in viaggio dalla terra verso la luna, come indica il titolo di giornata, io vi farò fare due tre giretti qui nei dintorni, se avrete voglia di seguirmi.

1/ Dalla terra alla tavola. Quadri dalla “Collezione Verzocchi”

Vi invito subito a vedere assieme a me alcune opere della rinomatissima Collezione Verzocchi che qui al Romagnoli si conserva, e sulla quale non mi soffermo troppo; perché immagino vi sia ben nota questa raccolta d’arte del Novecento, unica in Italia.

Come ben sapete, la collezione è intitolata al “Lavoro”, per volontà del suo proprietario, Giuseppe Verzocchi, imprenditore e industriale del mattone. E a questo proposito vorrei evidenziare assieme a voi un punto, che forse è un po’ sfuggito finora anche ai più attenti osservatori e studiosi. Mi riferisco alle scelte operate per la rappresentazione del lavoro dai singoli artisti “ingaggiati” da Verzocchi - voi sapete -  con precise modalità, addirittura i dipinti che dovevano avere le stesse misure e tecniche, il mattoncino come logo in un qualche angolo del quadro, e anche altri requisiti. Essendo Verzocchi un industriale, e formandosi la sua collezione in piena età di ricostruzione postbellica, noi oggi potremmo supporre una presenza prevalente di opere ispirate ai lavori officinali, quelli della fabbrica, dell’edilizia, ai mestieri legati alle nuove tecnologie, insomma ai nuovi processi di industrializzazione e d’espansione urbanistica. E invece così non è: ho fatto la conta, i grandi maestri del ‘900 italiano hanno dipinto per Verzocchi solo otto volte rappresentando nei modi più diversi il lavoro in fabbrica o in officina, meno di dieci sono i cantieri edili, pochi anche gli artigiani nelle loro botteghe. E chi non s’è affidato a meri simboli, soluzioni iconiche del lavoro - come invece hanno fatto tanti, Severini o lo stesso Sironi - ha scelto le più diverse realtà, come la dimensione domestica, oppure addirittura quella delle scuole e degli studi d’arte. Memorabile, in questo senso, il “pittore nello studio” di Filippo de Pisis. Tra i vari altri mestieri, ci sono pure la fiorista di Oppo e perfino l’impiegato, in verità un archivista vecchio stampo, di Amerigo Bartoli Nantiguerra; ci sono lavori legati al mare, ma ecco la sorpresa: cioè, la presenza larga di quadri sui mestieri legati alla terra, sulla campagna, sulla vita contadina e sui cicli del lavoro contadino. E questi dipinti io oggi vi mostro, così per puro piacere, dato che ci manca il tempo per una riflessione, che pure a mio avviso sarà da farsi, sulle ragioni di questa dominante “campagnolità” della raccolta Verzocchi, e manca anche il tempo per inquadrare queste opere nel tempo dell’arte al quale appartengono. In rapida successione dunque vi mostro alcuni dipinti terragni, cominciando da quelli che appartengono alla tradizione figurativa novecentesca, tra realismo lirico e realismo fantastico, con le frequenti fusioni dei due filoni.

Inizio con Luigi Bartolini con le sue “mietitrici” rappresentate – sono parole dell’autore – «come agresti deità viventi». E proseguo con il “Raccolto dell’orzo” di Fiorenzo Tomea, soggetto agreste abituale al pittore, il quale confessa peraltro allo stesso Verzocchi di sentirsi attratto «dalle umili fatiche dei suoi montanari piuttosto che dal lavoro delle città».

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Luigi Bartolini
(Cupramontana 1892 - Roma 1963)
Le mietitrici
Fiorenzo Tomea
(Zoppe di Cadore 1910 – Milano 1960)
Il raccolto dell’orzo

Certi arcaismi arcadici compaiono nel dipinto con le “Massaie al lavoro” di Raffaele De Grada, secondo il quale la realtà contadina insegna che «ogni lavoro è buono, ogni fatica è nobile, solo se da essa si traggono condizioni di vita per tutti umane e tollerabili».

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Raffaele De Grada
(Milano 1885 – 1957)
Massaie al lavoro

Mentre con questa sua scenetta contadina il bresciano Cesare Monti dichiara con velata nostalgia di aver voluto rappresentare «il tranquillo e giocondo spettacolo creato dai nostri padri che del lavoro facevano il poema della vita».  Addirittura il ravennate Alberto Salietti sulla sua “Vendemmia” scrive al Verzocchi: «ho simboleggiato il lavoro in una sua espressione di virgiliana pace e di fecondità».

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Cesare Monti
(Brescia 1891 – Bellano 1959)
Ai campi
Alberto Salietti
(Ravenna 1892 – Chiavari 1961)
La vendemmia

Ad un paesaggio agrario incontaminato guarda pure Francesco De Rocchi, il quale a proposito della sua “Semina di primavera” fa sapere al committente che «è stato di grande soddisfazione per me esaltare queste scene georgiche».

Mentre addirittura Arturo Tosi, dipingendo queste sue “Terre Arate” - dipinto che ben si inserisce nell’ampia produzione paesaggistica del pittore lombardo - si è posto alla ricerca di «un senso di religioso della natura».

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Francesco De Rocchi
(Saronno 1902 – Milano 1978)
Semina di primavera
Arturo Tosi
(Busto Arsizio 1871 – Milano 1956)
Terre arate

Aligi Sassu, a sua volta, ha voluto esprimere l’ «eterna malinconia della sua fatica giornaliera» tratteggiando il contadino che si intravvede nel suo “campo arato”.

E’ invece una mondina quella rappresentata da Bruno Saetti nel suo dipinto per Verzocchi: «è la madre - precisa l’autore - che ha abbandonato per un momento il lavoro», evidentemente per accudire il proprio bambino.

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Aligi Sassu
(Milano 1912 – Majorca 2000)
Il campo arato
Bruno Saetti
(Bologna 1902 – 1984)
La mondina

E veniamo al caposcuola del realismo sociale, a Renato Guttuso il quale si affida al soggetto a lui più caro in quegli anni, il “Bracciante”; teorizzando - nella lettera a Verzocchi - su «un’idea della realtà che è la ragione stessa del fatto che io sono un pittore». A questa stessa visione della realtà risponde il “Contadino che zappa” dell’altro grande siciliano Giuseppe Migneco, il quale candidamente confessa invece di sperare di essere sfuggito «in ogni caso dal pericolo della retorica».

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Renato Guttuso
(Bagheria 1912 - Roma 1987)
Bracciante siciliano
Giuseppe Migneco
(Messina 1908 – Milano 1997)
Contadino che zappa

Di seguito vi mostro i “Vangatori” di Ugo Bernasconi: artigiani o contadini, forse due anime insieme s’interroga l’artista commentando il proprio quadro. Vangatori sono anche i personaggi di Fausto Pirandello che prova a dipingere la «fatica. La bruta e bestiale fatica sotto il cielo delle stagioni», scrive l’autore al suo committente. Mentre Ardengo Soffici dipingendo questa “Vangatura”, vede nel lavoro della terra «una cosa augusta, anzi sacra», e per questo «nobilmente popolare e monumentale».

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Ugo Bernasconi
(Buenos Aires 1874 - Cantù 1960)
Vangatori
Fausto Pirandello
(Roma 1899 - 1975)
I vangatori
Ardengo Soffici
(Rignano 1879 - Forte dei Marmi 1964)
La vangatura

Chiudo non a caso con questa opera di Pompeo Borra, lui che è stato un grande ammiratore di Piero della Francesca, degno dunque come tale di figurare nella mostra al San Domenico. Ciò dimostra anche questo dipinto della Verzocchi, giocato sulla compattezza irreale della luce, tale da incidere sulle forme idealizzate di questi “compagni di lavoro”, l’uomo e il suo cavallo.

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Pompeo Borra
(Milano 1898 - 1973)
Compagni di lavoro

Ecco dunque quanta campagna, quanta agricoltura c’è nella Verzocchi. Un dato sul quale io credo si potrà riflettere, partendo proprio dal tema che lega fra loro i dipinti di questa collezione unica in Italia.


2/ Giulio Ruffini, pittorici «monumenti» sulla scomparsa della Romagna contadina   

 E ora passerei di corsa ad una seconda divagazione che prende spunto questa volta da un dipinto che è presente qui a Palazzo Romagnoli all’interno della sezione espositiva che abbiamo chiamato “Grande Romagna”. L’autore è uno dei grandi maestri del Novecento italiano di origine romagnola e ravennate d’adozione, Giulio Ruffini, nato a Villanova di Bagnacavallo nel 1901 e scomparso cinque anni or sono; e il dipinto è questo che vedete: il titolo dell’opera, di grande formato, è “Monumento alla Madre”, la data di esecuzione 1972. Ve lo mostro non solo per il suo pregio artistico, che è a tutti voi evidente. Chi conosce Ruffini sa bene del suo valore d’artista: che incredibilmente, dalla sua specola romagnola, ha avvertito gli umori e l’alternarsi delle mode e dei gusti tra metà e fine secolo scorso, e questo dipinto vale come una tessera di sintesi del grande mosaico figurativo prodotto dalla mutevole creatività ruffiniana.

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Tavolo con pane e monumento alla madre
1972

Ma a me è sembrato giusto mostrarvelo questo dipinto in quanto appartenente ad uno dei cicli tematici più straordinari a mio modo di vedere, tra quelli dipinti nel corso del secondo ‘900. Il ciclo è intitolato “La scomparsa della Romagna”, ma in realtà il pittore ha rappresentato il tramonto di quella che per un certo tempo si è definita, anche sul fronte museale, civiltà contadina. Qualche forlivese ricorderà una mostra che allestimmo proprio qui a Forlì, a Palazzo Albertini, assieme a Rosanna Ricci e li esponemmo dal vero alcuni dei dipinti che io adesso vi mostrerò in rapida sequenza, opere che si trovano in collezioni pubbliche e nella stessa casa studio del pittore da poco scomparso; opere che  appartengono appunto a questa serie dove, lo vedrete, del paesaggio agrario, dei contadini, delle case, dei fienili, delle piantate non restano che macerie, ruderi, relitti, simboli di un mondo che si è perso, che non c’è più. Fantasia d’artista, pura immaginazione, nostalgia fondatrice per dirla con le parole del caro Dario Trento?  Personalmente ritengo che questi siano tra i quadri di denuncia sociale sulle tematiche ambientali, più forti mai dipinti a partire proprio dagli anni della ricostruzione postbellica, con i tanti fenomeni devastanti legati alla speculazione edilizia, della crescita alienante delle periferie urbane e dell’abbandono forzato delle campagne.

Sono quadri da vedere, ovviamente, con tutto il peso dell’esperienza personale dell’autore, che della madre fa addirittura il “monumento” in ricordo dello scomparso mondo contadino. Lo sfacelo, la fine di tutto è riassunto in questo enorme pannello che risale al1983, metri e metri di pittura, nel quale si intravvedono frammenti di oggetti simbolo di quella vita contadina che è finita distrutta, come sotto l’effetto di una bomba nucleare.

L’immagine della madre, dicevo, è il simbolo dello sfacelo, eccola qui tra le cose della vita domestica infranta.

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Scomparsa della Romagna 1983


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Monumento notturno alla madre 1970
Le rovine domestiche 1979

Della fine della cosiddetta civiltà contadina restano tracce sparse, ammassi di mattoni delle case distrutte, le cose domestiche sparse intorno, addirittura il volto sfinge della madre, e strumenti del lavoro agricolo quali reperti archeologici come recita il titolo di questo splendido dipinto del 1984.

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Casa contadina distrutta 1970
Archeologia agreste 1984

 

Anche il contadino ha il suo monumento, e questo è un vero e proprio totem alla figura del falciatore, con il più tipico e distintivo simbolo del vestiario campagnolo romagnolo, il fazzoletto rosso con i suoi minuti ornati biancastri. 

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Monumento postumo al vecchio mietitore
1976

E chiudo con questa opera dipinta già negli anni ’60, nella quale appare la mano scheletrita della “grande seminatrice”, in uno spazio surreale, ormai senza più terra da coltivare. 

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La grande seminatrice 1968-1969


3/ Mangiari Dipinti. Quadri della Grande Romagna

 Se mi è concesso qualche minuto ancora, vorrei concludere con un ultimo fuori tema provando magari a farvi tornare un po’ il sorriso dopo tanto sfacelo e farvi magari venire un po’ d’appetito con qualche buon “piatto vegetariano”, ma non solo, diciamo tipicamente contadino, che si trova qui in Palazzo Romagnoli e nei suoi dintorni.

Vi mostro “a volo d’uccello” una selezione “minima” di nature morte di artisti forlivesi del primo ‘900 nelle quali figurano prodotti della nostra terra. Sono pittori ben noti che non hanno bisogno di presentazione. Per prima, questa deliziosa composizione con frutta di Edgardo Zauli Sajani, che ben si direbbe d’origine divisionista controllata. 

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Edgardo Zauli Sajani
(Forlì 1874 - Roma 1944)

 

A seguire, “delizie” di Maceo Casadei e del suo bravo allievo e amico Gino Mandolesi.

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Maceo Casadei
(Forlì 1899 - 1992)

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Gino Mandolesi (Forlì 1915 - 1955)

Ma a mio avviso, tra i pittori forlivesi di primo ‘900, il vero “naturamortista”, bravo come Licinio Barzanti o Cesare Camporesi che voi conoscete specialmente come pittori di composizioni floreali, è stato Carlo Stanghellini, talentuoso autore tra l’altro di un quadro divenuto celebre per quel volto così particolare di “Medusa”, che sta appeso qui accanto.

Scomparso giovane, poco più che cinquantenne nel 1956, il pittore ha lasciato un buon numero di “nature morte”, nelle quali risaltano fritti e verdure delle nostra terra, come in queste tele che si conservano qui a Palazzo Romagnoli. 

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 Carlo Stanghellini
(Forlì 1901 - 1956)

 

E’ specialmente in questa natura morta che l’ordine compositivo, evidentemente ripreso dalla tradizione pittorica seicentesca, tende ad esaltare il senso del bello e del buono che la campagna può offrire.

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 Carlo Stanghellini
(Forlì 1901 - 1956)

 

A questa natura morta stanghelliniana con i suoi echi naturalistici, io vorrei accostare quelle di un pittore cesenate coevo di Stanghellini, di cui non si hanno opere qui a Palazzo Romagnoli, ma che speriamo possa prossimamente inserirsi tramite qualche donazione nella sezione espositiva della “Grande Romagna”.

Mi riferisco al cesenate Fortunato Teodorani, pittore di straordinario merito - anche se incredibilmente dimenticato nella recente rassegna imolese sul Novecento romagnolo - che può essere considerato tra gli ultimi frescanti in chiese e palazzi, dalla Romagna a Roma, ma che è stato anche sensibile paesaggista “dal vero”. Nella “nature morte”, poi, Teodorani profuma d’antico e d’antico fa profumare le cose che dipinge.

Osservate la magnificenza di queste opere che appartengono alla serie delle “Tavole Romagnole”, dipinte dal Teodorani a partire dagli anni ’30.

Non credo di dover aggiungere parole su tali dipinti che certo rappresentano l’ultima frontiera della “buona pittura”, ma che ritengo sature di informazioni utili anche sul fronte della conoscenza di usi e tradizioni e dei mangiari romagnoli.  

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Fortunato Teodorani
(Cesena 1888 - 1960)

E chiudo, per una sorta di contrappunto, proponendovi  una breve sequenza di opere di un artista, tra i contemporanei, che nelle raccolte novecentesche di Palazzo Romagnoli è ben presente. Lo possiamo considerare l’ultimo vero praticante di quel genere pittorico che continuiamo a definire per comodo “Natura Morta”. Molti di voi lo conoscono e lo apprezzano per questo insistente impegno. Si chiama Ugo Pasini, contadino d’origine e pittore di successo. Un successo che deve alla frutta, più che a quella che coltiva, a quella che dipinge con rara maestria e perizia. E’ stato scritto che il modo di intendere e fare pittura di Pasini, può essere considerato all’interno di quel fenomeno diffuso oggi in Italia, che viene normalmente definito, appunto, “ritorno alla pittura”. Ma certo, l’effetto che le sue opere producono è ben altro rispetto a quello appena percepito davanti ad un’opera teodoraniana.

Là, frutti e verdure sono ci sono apparsi attraenti come cose “vere” e per l’impianto scenografico delle composizioni, qui i prodotti della terra risultano tanto belli da apparire perfino finti. Come certi frutti e le verdure, che noi vediamo sui banchi dei supermercati. E tutt’attorno uno spazio vuoto, neutro, una sorta di stato metafisico della natura. Ma i suoi frutti Pasini li dipinge così non perché puliti e lavati si vendano meglio, ma vale una certa esaltazione del bello che per il nostro contadino-pittore di San Mauro in Valle si concentra, ancora, in una semplice mela del suo campo, in un caco, in una susina, in un ortaggio della sua terra.

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Ugo Pasini 
(San Mauro in Valle 1942)

Con questo ho terminato, ringrazio per il paziente ascolto. Ma prima vorrei rivolgere assieme a voi un piccolo omaggio ad un bravissimo artista che da poco ci ha lasciato, lasciando però di sé cose davvero belle qui a Forlì nelle raccolte di Palazzo Romagnoli.

Come questa finestra aperta sul più attraente scenario naturale nel quale realtà e fiaba sembrano non avere confini. A Enzo Bellini il nostro saluto. Grazie.

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Enzo Bellini
(Santa Sofia 1932 - 2015)


Orlando Piraccini è nato a Cesena nel 1948. Studioso d’arte, giornalista pubblicista, ha operato all’Istituto regionale per i beni culturali nel settore dell’arte moderna e contemporanea. Ha all’attivo centinaia di mostre e pubblicazioni varie. Nella città natale ha curato l’ordinamento del Museo della Civiltà Contadina nella Rocca Malatestiana (1975) e della nuova Pinacoteca Comunale nell’ex monastero di S. Biagio (1984).
Tra gli impegni più recenti si ricordano le diverse iniziative espositive ed editoriali su Tono Zancanaro disegnatore e litografo, su Cesare Zavattini pittore, sulla storia del Premio Campigna di Santa Sofia, sulla collezione dello scrittore Gino Montesanto, sull’archivio di Francesco Balilla Pratella e il cenacolo futurista lughese, su Federico Moroni e altri artisti d’area romagnola. Nel 2013 ha fatto parte del gruppo di lavoro per la nascita del museo di Palazzo Romagnoli a Forlì e fino al 2015 ha curato la programmazione espositiva del Palazzo del Capitano di Bagno di Romagna.