A pranzo con gli sposi. Daniela Poggiali

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Una lettura “gastronomica” del dipinto Le Nozze di Cana di Luca Longhi attraverso gli antichi ricettari e i libri di sanità cinquecenteschi

Poggiali Fig. 01

Il grande dipinto raffigurante Le nozze di Cana, collocato nell'antico refettorio dell'abbazia di Classe, a Ravenna, fu commissionato a Luca Longhi1 e a suo figlio Francesco nel 1579, dall'abate camaldolese Pietro Bagnoli da Bagnacavallo, «primo fautore di una grandezza ad un tempo politica e culturale del cenobio classense»:2 familiare dell'arcivescovo Giulio Feltrio Della Rovere, che fu in carica a Ravenna dal 1566 al 1578, Pietro, uomo colto, intellettuale e filosofo, fu alla guida di Classe per diversi “mandati” e, in occasione della costruzione del nuovo refettorio del monastero, scelse i pittori ravennati più in voga del momento, i Longhi, per realizzarne la decorazione.3

Nel contratto tra i pittori e l'abbazia di Classe, stilato nel 1579, si specifica che doveva trattarsi di una «pittura a olio co' colori finissimi oltramarini ed altre sorta, nella quale vi si contenga e dimostri le nozze di Cana Galilea»4 e che la realizzazione doveva essere compiuta nell'arco di tempo di otto mesi: nel 1580, anno di morte di Luca Longhi, l'opera era terminata, l'unica di così grandi dimensioni giunta a noi tra quelle eseguite dall'artista ravennate e quasi suo ultimo “testamento figurativo”.

Il tema delle Nozze di Cana, di cui ricorrono esempi già nell'arte tardo-antica5 e medievale, diviene soggetto diffuso a partire dal Quattrocento, adatto soprattutto a decorare le pareti dei refettori, insieme a quello dell'Ultima cena.

Al XVI secolo risalgono gli esempi più noti: quello realizzato nel 1561 da Tintoretto per il refettorio del convento dei Crociferi a Venezia, ora nella chiesa di Santa Maria della Salute, e quello dipinto da Paolo Veronese, tra il 1562 e il 1563, per il refettorio del complesso benedettino di San Giorgio Maggiore, sempre a Venezia, ora conservato al Louvre. Quest'ultima opera ebbe particolare successo tanto che, a Ravenna, nel 1601, i Benedettini commissionarono al pittore Giambattista Bissone6 un dipinto con Le Nozze di Cana ispirato a quello del Veronese, per il refettorio del monastero di San Vitale.

Il dipinto di Luca Longhi ebbe una lusinghiera fortuna critica e fu da subito ritenuto opera fondamentale nella carriera del pittore e nel panorama artistico ravennate, per l'organizzazione della scena, tutta giocata su corrispondenze interne di gruppi di figure e di gestualità esibite, e per la varietà degli atteggiamenti dei personaggi; al conte Alessandro Cappi, autore di una monografia dedicata a Luca Longhi, si deve una prima, accurata descrizione del dipinto classense.7

Il soggetto si ispira ad un passo del Vangelo di Giovanni,8 quello dal contenuto più marcatamente simbolico ed escatologico, in cui si descrive il primo miracolo di Cristo: la trasformazione dell’acqua in vino, episodio non presente negli altri tre Vangeli.

Il testo figurativo di Longhi [fig. 01] può essere analizzato in modo “letterale”, individuando il soggetto del dipinto e i personaggi che vi sono raffigurati: al centro della composizione è presente Cristo; di seguito, a sinistra, sono rappresentati Maria e i due sposi protagonisti dell'evento; a destra gli apostoli Pietro, Andrea, Filippo, Bartolomeo, Giacomo e, rivolta verso gli spettatori, la madre dello sposo.9

Il dipinto diviene, però, un vero e proprio documento, una testimonianza del tempo in cui è stato prodotto, se si considerano l'ambientazione generale, le vesti dei personaggi, i servizi da tavola e ancora di più se si presta fede alla tradizione che vuole raffigurati, nelle vesti di alcuni personaggi, esponenti di spicco del mondo politico, culturale e artistico della Ravenna di fine Cinquecento; a conferma di questa ipotesi, ormai accreditata dagli studiosi che se ne sono occupati, vi è l'abilità ritrattistica di Longhi, per la quale era famoso, e la stessa evidente caratterizzazione fisionomica dei protagonisti: nell'opera sarebbero rappresentati il committente, colto intellettuale e abate del monastero classense, Pietro da Bagnacavallo, nei panni dell'apostolo Andrea;10 il medico e storico Girolamo Rossi, nel gruppo in piedi a destra, con gorgiera bianca e veste nera; lo storiografo Vincenzo Carrari, nel gruppo di personaggi in piedi a sinistra, panneggiato in un mantello giallo;11 il cavalier Pomponio Spreti, in veste dell'apostolo Bartolomeo; lo stesso Luca Longhi, nei panni del pellegrino con il cappello rosaceo, seduto di spalle a tavola; i figli Barbara e Francesco, rappresentati come la madre dello sposo e l'apostolo Filippo.

È possibile, inoltre, tentare una lettura “gastronomica” del dipinto, che identifichi gli alimenti presenti sulla bella tavola imbandita, preparata con una candida tovaglia, di cui, ad uno sguardo ravvicinato, si intravvede la trama: alcuni cibi sono riconoscibili e presenti anche oggi sulle nostre tavole; di altri è possibile solo un riconoscimento ipotetico, grazie al confronto con testi specifici sulle usanze alimentari dell'epoca, ricettari e libri di sanità cinquecenteschi.12

Al di là delle possibili identificazioni, è certo che, in quest'opera, cibi e bevande, dipinti, evocati, anche solo suggeriti, sono posti in una posizione assolutamente centrale sulla quale sovrintende direttamente Cristo e assumono una rilevanza straordinaria.

Il vino è il vero protagonista dell'evento: di colore rosso, viene offerto dal maestro di cerimonie allo sposo in una coppa di cristallo [fig. 02]. Dalla parte opposta della tavola, a destra, un servitore moro versa nel bicchiere di Giacomo l'acqua che istantaneamente si muta in vino, registrando il miracolo, per così dire, “in diretta” [fig. 03].

Nella sua opera enciclopedica dedicata ai vini d'Italia [fig. 04], edita nel 1596, il medico e filosofo Andrea Bacci dedica un breve paragrafo al vino di Ravenna, sostenendo che, mentre nell'antichità a Ravenna non era possibile una soddisfacente coltivazione del vino, data la natura paludosa del luogo, negli anni a lui contemporanei, grazie alle bonifiche compiute, «vina condunt laudabilia, & in quoque genere copiosa»13[fig. 05].

Il pane, alimento tradizionalmente in coppia con il vino, compare, sbocconcellato, nel piatto della madre dello sposo, in forma di piccolo panino dall'interno bianco [fig. 06]: «base della nutrizione e della sopravvivenza»,14 nel Cinquecento, il pane per le tavole ricche è di farina bianca, a differenza di quello scuro per le mense dei poveri.15

Sul piatto dello sposo è posta della carne arrostita tagliata con cura [fig. 07]: sempre presente nei conviti dell'epoca, era oggetto di grande attenzione sia nel taglio che nella cottura.16

Sulla tavola i piatti da portata, disposti a fiore, sono raggruppati in tre insiemi di sette alimenti diversi [fig. 08]: sul gruppo centrale sovrintende direttamente Cristo che protende la propria mano destra benedicente sul cibo.

Tra le vivande raffigurate, si riconoscono le olive [fig. 09]: prodotto non legato all'economia locale, le olive possono rappresentare un cibo pregiato, destinato ad una tavola importante.

Il medico bolognese Baldassarre Pisanelli, allievo del celebre Ulisse Aldrovandi, pubblicò nel 1587 il Trattato della natura de' cibi e del bere [fig. 10], dedicato a Guglielmo Gonzaga, duca di Mantova e del Monferrato, che riporta le caratteristiche dei cibi e delle bevande in uso alla sua epoca, delineandone pregi e difetti: le olive devono essere «ben condite e nate in luoghi aprichi, grosse, come le Bolognesi, che per esser inutili à far oglio si acconciano in salamuoia, e diventano più saporite. Tagliano la flemma nello stomaco e fanno venire appetito, e la loro salamuoia, lavandosi la bocca, strigne le gingive, e ferma i denti smossi».17 Anche il ravennate Tommaso Tomai concorda sulle virtù delle olive: «L'olive mangiate avanti pasto corrodono la flemma, & reprimono i vapori del vino, che non ascendono al capo».18

Sopra uno dei piatti è disposta l'uva [fig. 11], bianca, in forma di grappolo con piccoli acini, di cui ancora Pisanelli riferisce le eccellenti proprietà curative: «Matura, bianca, dolce, e che sia di scorza sottile […] Nutrisce ottimamente, fa ingrassare presto, rinfresca il fegato infiammato [...] mangiandoci appresso alcuna cosa salata, e granati, ò aranci, ò altri cibi acetosi, overo che siano con l'aceto conditi […] Quella che non ha granelli, è migliore dell'altre, & è ottima per il petto, e per la tosse».19

Anche le pere [fig. 12, fig. 13] sono facilmente distinguibili per forma e colore. Il ravennate Bernardino Carroli, autore di un «singolare trattato di educazione rurale»20 [fig. 14] così descrive questo frutto: «è signorile, di molte sorti e sapori»,21 sarà sufficiente «metterne pochi, basta uno d'ogni sorte de quelli buoni, perché questi sono frutti che poco si mantengono».22

Pisanelli così ne riferisce: «Sono grate al gusto, risvegliano lo appetito, danno forza agli stomaci deboli […] Mangiandole dopo tutti gli altri cibi, ò ben mature, ò cotte con molto zuccaro sopra e bevendogli appresso un buon vino odorifero».23

E poiché, come dice Massimo Montanari nel suo celebre scritto, Il formaggio con le pere, «un prodotto alimentare non è mai un semplice oggetto nutrizionale, o dietetico, ma tende a configurarsi come un soggetto dotato di una sua personalità, di un suo preciso statuto sociale»,24 si trova qui una precisa indicazione: «i frutti delicati e deperibili – come appunto le pere – apparivano prodotti di lusso, in un mondo in cui l'alimentazione delle classi subalterne, sempre esposte al rischio della fame, doveva necessariamente puntare sui cibi conservati o conservabili, che garantissero sicurezza nei momenti difficili»;25 «la pera è il simbolo dell'effimero, di gusti e piaceri non necessari e dunque dedicato solo ai signori».26

Prima di analizzare le restanti vivande, la cui identificazione è soltanto ipotetica, è bene ricordare che i cibi finora presi in analisi, nel contesto di un monastero camaldolese come quello classense, avevano certamente un valore simbolico legato alla spiritualità cristiana che ora siamo in grado di percepire solo debolmente. Il Cinquecento, d'altronde, che si sviluppa tra Maniera e Controriforma, è uno dei secoli più eminentemente simbolici, intriso com'è di cultura non solo religiosa ma anche alchemica, mitologica e filosofica: un periodo storico in cui il banchetto, spesso sfarzoso, è «una forma culturale di riconosciuto valore sociale e antropologico, oltre che spettacolare […] l'evento di maggiore risonanza attraverso il quale l'individuo si pone in uno stato di recita sociale assoluta, rappresentando se stesso come proiezione di una alterità non quotidiana».27

Gli alimenti presi in considerazione hanno un corrispettivo simbolico allusivo a Cristo e all'Eucarestia, alla quale, in particolare, il vino rosso e il pane fanno esplicito riferimento. Sulla sacralità di questi alimenti “base”, lo storico Felipe Fernàndez-Armesto ricorda che «da essi dipende la sopravvivenza dei popoli: hanno un potere divino e il fatto che, a loro volta, questi generi alimentari dipendano dall'uomo che li coltiva non sembra comprometterne la dignità. Perché la coltivazione è culto: la forma di adorazione più totale, in cui, giorno per giorno, si servono le colture nei campi, curvando la schiena per dissodare, seminare, sarchiare, raccogliere. Quando questi dei si immolano in bocca agli uomini, è nella certezza dell'imminente resurrezione: mangiare un dio non è mancanza di rispetto, è come custodirlo in un reliquiario».28

Le olive, “ritratte” con picciolo e fogliette, rimandano a brani biblici (il diluvio universale) ed evangelici (la preghiera nell'orto degli ulivi): simbolo di pace e sapienza29 e sinonimo di salvezza dell'anima30 l'olivo rappresentava nella religione, come nella mitologia, un elemento naturale di forza e di purificazione. L'uva bianca è associata alla resurrezione, legata alla missione salvifica di Cristo, a sua volta prefigurata nello stesso episodio delle nozze di Cana.31

Sulla tavola sono presenti altre vivande, la cui identificazione è particolarmente ardua e proposta qui solo in via dubitativa.

Il riconoscimento delle verdure, ad esempio, composte in coppie [fig. 15], è assai difficoltoso: potrebbe trattarsi di erbe selvatiche, agretti o cardi selvatici; questi ultimi vengono ricordati da Pisanelli come alimenti da consumare a chiusura del pasto: «I cardi si hanno da mangiar con pepe e sale nel fine delle mense, cotti crudi».32

Sembrerebbero presenti anche due diversi tipi di minestre [fig. 16], non chiaramente individuabili in una ricetta precisa, che potrebbero essere zuppe di legumi o di cereali, piatti entrambi largamente presenti nella cucina cinquecentesca, nella quale è attestata una grande varietà di ricette preparate con questi ingredienti.

Uno dei più famosi ricettari dell'epoca, risultato di una “vita ai fornelli” del “cuoco segreto di papa Pio V”, Bartolomeo Scappi33 [fig. 17], ricorda svariate minestre di fave, fagioli, riso, farro, orzo, minestre cui potevano talvolta essere aggiunte anche le castagne.

In particolare, si può ricordare che i legumi, che prevedevano una preparazione lunga, dovuta alla loro essicazione, che li riportava dallo stato “secco” a quello commestibile, erano alimento fondamentale nella cucina monastica e, anche in virtù della loro preparazione, considerati simbolo di rinascita.34

L'ultima vivanda, che occupa il posto centrale in tutti i tre raggruppamenti di piatti, è quella cui viene dato visivamente maggior risalto ma anche la più “misteriosa” [fig. 18]: composta con rametti di rosmarino e contenuta in stampi dal bordo piuttosto alto, potrebbe essere un dolce, forse ottenuto con il mosto di uve rosse, o in alternativa con la farina di castagne, particolare che giustificherebbe il colore, sia esterno che interno, e la consistenza densa.

Nonostante la difficoltà di interpretazione, è proprio questo piatto che, grazie alla disposizione del rosmarino a forma di croce, alla posizione centrale, al colore rossastro, forse ancora allusivo al mistero eucaristico, acquista il più alto valore simbolico.

I cibi disposti sulla tavola non sono gli unici presenti nella raffigurazione poiché in sala, frenetici serventi si affannano a portare anche altre vivande, spesso poco distinguibili perché raffigurate solo in secondo piano o tratteggiate con meno precisione: uno dei servitori che sale sulla scala di destra reca sul piatto un pollastro [fig. 19], appena riconoscibile, mentre è più incerta l'identificazione del piatto recato dal garzone che si rivolge a Filippo [fig. 20]. Poichè la consistenza sembrerebbe simile a quella di un budino, potrebbe trattarsi del “biancomangiare”, un dolce di cui Scappi ricorda diverse varianti, con una base comune di latticini, zucchero, acqua di rose. Il biancomangiare poteva essere servito caldo o freddo, spolverato di zucchero, oppure lasciato più liquido, quasi come una salsa, versato sopra a piatti di carne.

Oltre alle vivande, è necessario almeno menzionare gli arredi e i servizi da tavola: i tovaglioli e le posate [fig. 21, fig. 22, fig. 23], il cui uso individuale si diffonde proprio nel Cinquecento.

Tra le masserizie necessarie all'apparecchiatura della tavola, Cristoforo da Messisbugo,35 celeberrimo scalco e provveditore ducale alla corte estense di Ferrara, ricorda le «salviette», portate in tavola alla fine del pasto, insieme a coltelli appositi per frutta zuccherata, confetture o dolci,36 e «gli stecchi per nettar i denti»;37 le prime immagini delle forchette appaiono, invece, pubblicate nel testo già citato di Bartolomeo Scappi,38 insieme a svariate tipologie di coltelli [fig. 24].

«Forcine» e coltelli vengono ricordati anche dal maestro trinciante Vincenzo Cervio39 nell'opera che riassume le conoscenze tratte dalla sua esperienza professionale: devono essere di tre taglie, grande, mezzana e picciola,40 a seconda delle pietanze da «trinciare».

Anche la piattaia con i piatti, i vassoi, i bicchieri raffigurati nel dipinto [fig. 25], così come il coro di musici [fig. 26] che suonano strumenti a fiato, trovano corrispondenti citazioni letterarie nei testi indicati: è ancora Messisbugo, ad esempio, che rimarca la funzione indispensabile dei musici, cui è affidato il compito di suonare brani diversi a seconda delle differenti portate.41

Per concludere questa lettura, a parte la considerazione che un testo figurativo sempre si lega ai testi letterari e documentari coevi, credo che il significato ultimo che si possa cogliere in questo dipinto sia legato al committente, l'abate Bagnoli [fig. 27], e alla funzione dell'ambiente per cui il dipinto è stato realizzato: si tratta della messa in scena di un grandioso spettacolo [fig. 28], che vede protagonisti alcuni degli esponenti culturali e politici di spicco della Ravenna tardo-cinquecentesca, naturalmente con un contenuto religioso palese, ma che, probabilmente, riferisce anche dei pranzi che si sarebbero tenuti nel refettorio con gli ospiti importanti, pranzi che, se nella descrizione di Longhi sono lontani dai banchetti pantagruelici descritti da Scappi o da Messisbugo, viene sottilmente suggerito siano composti da cibi pregiati, ad alto valore simbolico, disposti con cura e raffinatezza, in un'ambientazione decisamente elegante che rivela anche il potere economico, il valore culturale, la preminenza sociale del monastero classense.

*Le note al testo sono leggibili - e stampabili - anche negli allegati in fondo alla pagina.

 


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Daniela Poggiali, storica dell’arte, lavora presso la Biblioteca Classense di Ravenna, dove cura le collezioni museali, d’arte e di grafica.
In precedenza ha collaborato con alcune istituzioni culturali romagnole, tra le quali il Sistema Museale della Provincia di Ravenna e il MAR di Ravenna, occupandosi di didattica museale e di catalogazione di opere d'arte. Ha pubblicato saggi e contributi di interesse storico-artistico e fa parte del comitato di redazione della rivista Museo In•forma.

Dopo il diploma di perito industriale, Gabriele Pezzi ha conseguito l’attestato di qualifica professionale di fotografo grafico e per sussidi audiovisivi e l’attestato di fotografo d’arte e di architettura. Lavora dal 1980 in qualità di fotografo presso la Biblioteca comunale Classense, dove esegue la riproduzione (foto, microfilm, digitalizzazioni) di libri e altri documenti anche per mostre, cataloghi e pubblicazioni.