Sfogliando libri di cucina. Giancarlo Gonizzi
print this pageLa figura del cuoco nei secoli
Ringrazio Zita Zanardi per avermi invitato questa sera e la Biblioteca Palatina che ci ospita con grande disponibilità. La Biblioteca gastronomica di Academia Barilla, che qui rappresento, sorta nel 2005 e oggi costituita di oltre 13.000 volumi, ha collaborato con l’Autrice fornendo documentazione e materiali per la redazione di questa ricca antologia di testi i cui contenuti sono in buona parte legati alla gastronomia.
Ci concentreremo sulla figura del cuoco e su come questa sia stata descritta nelle pagine della letteratura gastronomica, e osserveremo in che modo, nel corso dei secoli, la percezione di questa figura si sia trasformata in base alla situazione sociale e allo status che gli veniva attribuito.
Nel Medioevo si distinguevano tre tipologie di cucina che corrispondevano alla divisione in classi sociali dell’epoca. Da una parte c’era la cucina della nobiltà e del potere, a base di cacciagione e cibi esotici, preparati da cuochi che si accreditavano da una Corte all’altra, contribuendo così alla diffusione di una cultura gastronomica omogenea e contaminata da gusti internazionali, comune a tutti i paesi d’Europa.
Nel mezzo la cucina monastica, legata ai tempi dell’anno liturgico, aveva caratteristiche sue proprie, con minima presenza di carne, e ampia frequenza di vegetali e di pesce, di pane e di vino.
Dall’altra c’era la cucina della popolazione comune, che non aveva ampie disponibilità economiche e che utilizzava prodotti facilmente reperibili sul territorio. Sarà proprio l'insieme delle ricette nate in questo contesto, spesso anche di povertà, e determinate dalle disponibilità quotidiane, che progressivamente daranno vita a quelle che oggi conosciamo come “cucine regionali”, legate alle tipicità, al clima, alle tradizioni agricole e produttive, alle diverse storie e culture.
Il Medioevo fu anche l’epoca delle spezie: già ampiamente diffuse nell’antichità, furono un vero e proprio status symbol fino a tutto il Rinascimento. Tra queste assunse un ruolo di primissimo piano il pepe. Era una spezia esotica, leggera da trasportare ma costosissima: giungeva dall’India percorrendo migliaia di miglia attraverso due mari e il deserto in un lungo ed estenuante viaggio. Era indiscutibilmente redditizia se si pensa alla Venezia dei mercanti che dovette la sua fortuna e la bellezza delle sue architetture proprio al commercio di spezie con l’Oriente. È quindi facilmente comprensibile come pepe e spezie divenissero simbolo di ricchezza e di potere e per questo esibite nella cucina dei ricchi anche nel Rinascimento, quando la tavola si arricchì di una ulteriore componente spettacolare e dimostrativa. La bontà di una portata, il suo “gusto”, non era più un elemento di interesse primario, perché si prediligeva la componente “teatrale”, l’immagine e la capacità dimostrativa di un banchetto. A differenza del Medioevo, quando le portate del banchetto si susseguivano l’una dopo l’altra, nel Rinascimento prevalse l’uso di presentarle contemporaneamente in tavola - oggi diremmo con termine francese a buffet - in modo da creare un colpo d'occhio mirabolante che dimostrasse il potere dell'ospite ai suoi commensali.
I protagonisti della letteratura gastronomica del XV secolo sono due: un cuoco e un umanista.
Il primo è Martino de Rubeis (XV sec.), autore del libro De arte Coquinaria (1450 ca.), originario di Torre nella Valle ticinese di Blenio (in provincia di Como, e per questo noto come Mastro Martino da Como) e attivo a Roma al servizio del Patriarca di Aquileia Ludovico Trevisan.
Poco si sa della sua storia, per molti secoli dimenticata e a lungo rimasta sconosciuta, tanto che alcune notizie su di lui ci arrivano dall’America nella prima metà del ‘900, quando fu rinvenuto un codice manoscritto di cucina titolato Libro de Arte Coquinaria - attualmente conservato pressola Library of Congress di Washington - dedicato al cardinale Ludovico Scarampi Mezzarota, che portava la firma di Maestro Martino.
In Italia bisogna attendere la seconda metà degli anni ’70 perché l’interesse si concentri sulla figura di Maestro Martino, grazie al ritrovamento di altre due copie del Libro de Arte Coquinaria – la prima conservata presso la Biblioteca Vaticana, la seconda presso la Biblioteca civica di Riva del Garda. È proprio questa seconda copia, che porta la dedica a Gian Giacomo Trivulzio, a rendere più chiare le vicende di Maestro Martino.
L'umanista rinascimentale Bartolomeo Sacchi, nel suo De honesta voluptate et valetudine, lo definisce "Principe dei cuochi ai nostri tempi, dal quale ho imparato a cucinare ogni pietanza".
Il secondo è Bartolomeo Sacchi (1421-1481), detto il Platina in quanto nativo di Piadena (in provincia di Cremona), anch’esso attivo a Roma, dove svolse attività di bibliotecario del Pontefice. Egli scrisse nel 1474 un trattato di cucina in latino, importante non solo perché fu il primo testo sul tema pubblicato a stampa in Italia, ma anche perché contestualizzò le ricette di Martino da Como, che riprese e aggiornò, nel quadro di una visione filosofica in cui si esaltava il “piacere onesto”, l’equilibrio tra i godimenti della vita, ivi compreso quello della cucina. Descrisse la figura del patrizio equilibrato, che sapeva trarre piacere da tutto ciò che il Creatore metteva a disposizione, con parsimonia, misura e grande equilibrio. L’importanza di quest’opera è dimostrata dalle sue numerose riedizioni e dalle coeve traduzioni in francese, tedesco e inglese, che ne permettevano la diffusione in tutte le Corti d’Europa.
In questi due capisaldi dell’editoria gastronomica, la figura del cuoco viene esaltata, perché questi, oltre ad avere il compito di elaborare e trasformare i cibi, risulta figura di rilievo, a contatto diretto con il principe in quanto la sua opera doveva essere funzionale all’esaltazione del potere.
Lo status del cuoco cambiò nel corso del Cinquecento: non era più protagonista assoluto nelle questioni del “gusto” della vita di Corte; gli subentrarono tre nuove figure in grado di eclissarne l’egemonia: lo scalco, il trinciante e il bottigliere.
Lo scalco gestiva la complessità della cucina, della mensa e del convito; aveva assunto su di sé tutta la responsabilità della riuscita del banchetto, relegando il cuoco ad un ruolo marginale, non più di primo piano e sicuramente non più accolto al cospetto del Principe.
Il trinciante - ruolo del tutto nuovo - era un abile funambolo che riusciva a trinciare la carne e la cacciagione in aria facendole cadere con maestria teatrale, in forma di bocconi, nei vari piatti che venivano poi distribuiti agli ospiti con particolare effetto scenico.
Il bottigliere era invece l'addetto alla cantina a cui spettava la scelta dei vini e il loro abbinamento con le varie pietanze del banchetto.
Del mutato ruolo sociale del cuoco è testimone La Piazza Universale di Tommaso Garzoni da Bagnacavallo (1549-1589), che cataloga e descrive tutti i mestieri noti nel Cinquecento, riportandone con dotta erudizione tutte le funzioni, gli strumenti, e le attività. Tra questi figura anche il cuoco, che Garzoni descrive, con numerose iperboli, come personaggio strepitoso, straordinario, pulitissimo, ordinatissimo. Ma la sua ironia adombra una verità cruda: il cuoco stava lentamente scivolando, agli occhi dei potenti, in un ruolo sempre più modesto e defilato, nel buio e nel fumo delle cucine, lontano dagli splendori del banchetto.
Il XVII secolo segnò il declino della cucina italiana a favore di quella francese, che per alcuni secoli sarà il riferimento e la guida a livello mondiale. Arrivano così anche in Italia i libri che facevano riferimento proprio alla cultura gastronomica d’Oltralpe: il primo uscì nel 1682 a Bologna con il titolo Il cuoco francese, opera in cui veniva descritta la maniera di condire ogni sorta di vivanda. Il testo viene riconosciuto come traduzione dell'opera di François Pierre de La Varenne (1618-1678), grande cuoco francese, innovatore soprattutto dei principi della cottura e della preparazione dei cibi, che abbandonò la “scenografia” per concentrare l’attenzione sul gusto e sui sapori. L’opera mette quindi in evidenza come sul finire del secolo il testimone del primato gastronomico sia definitivamente passato alla cucina francese e ai suoi cuochi, mentre in Italia questa professione iniziava a vivere un periodo di oscurità e declino.
Ci fu solo un’eccezione, un cuoco realmente grande, il romano Francesco Leonardi (1730 ca.-1816 post), che, tra gli altri incarichi, lavorò in Russia per l’imperatrice Caterina II. Dopo aver lavorato in cucina fra il 1740 e il 1800, una volta ritiratosi a vita privata, scrisse l’Apicio moderno, un'opera monumentale in sei tomi nella prima edizione del 1790, (otto nella seconda del 1807-8). In questi volumi, per la prima volta, troviamo una storia della gastronomia italiana ad introduzione di una raccolta di ricette. Ciò dimostra come Leonardi avesse coscienza, come cuoco, di essere parte di un percorso storico in evoluzione. L’autore possiede anche un altro primato, ovvero quello di aver delineato, un secolo prima dell’opera di Artusi, un corpus delle diverse cucine regionali italiane (legate in maniera determinante, nelle loro formulazioni, al clima, all'altitudine, alla vicinanza ai monti o al mare).
Dopo la pubblicazione dell’opera di Leonardi “esplode” l'editoria legata alle culture gastronomiche territoriali: Il cuoco piemontese, 22 edizioni fino a metà dell'Ottocento, Il cuoco maceratese di Antonio Nebbia, (in realtà copia di un libro francese), e poi ancora il ciclo pitagorico ed erbaceo stampato a Napoli da Vincenzo Corrado (1738-1836), Giovanni Felice Luraschi (XVIII-XIX sec.) con il suo Cuoco milanese, il Nuovo cuoco ticinese di Luigi Franconi (XIX sec.) - ticinese era anche Martino da Como - e la Cucinera genovese di Giovanni Battista Ratto (XIX sec.). Ogni regione pubblicò un testo in cui si esaltava in qualche modo la propria tradizione regionale.
NotaSi può consultare qui il testo completo dell’opera di Francesco Leonardi, Gianina ossia La cuciniera delle Alpi, Roma 1817 (riproduzione digitale: Library of Congress, Washington)Alla fine del Settecento anche la storia della cucina e della sua cultura fu travolta dagli eventi della rivoluzione francese, che portò con sé un vento di cambiamento e sconvolgimento che colpì ogni ambito della vita. La decapitazione della nobiltà lasciò molti cuochi senza un lavoro e quindi senza una fonte di reddito sicura, così molti di questi scelsero di aprire un ristorante pubblico. La società vide l’ascesa di una nuova classe, la borghesia, per la quale il cibo non era più esibizione di lusso, ma veniva accompagnato dal concetto di economia, risparmio con il fine di mangiar bene con poco. I cuochi si riciclarono come autori di testi di cucina e trovarono un nuovo ruolo proprio come scrittori che si rivolgevano non più ai cuochi, ma ad un pubblico inesperto e “borghese”.
È in questo contesto che cambiò il registro dell’editoria gastronomica e con esso il suo destinatario ultimo. Il cuoco da ora cominciò a rivolgersi alle donne di casa, alle persone che in famiglia avevano il compito di gestire la cucina. È interessante notare come, nonostante la rivoluzione francese avesse tagliato molte teste coronate, venissero scelti titoli che esaltassero la “nobiltà” dei cuochi, portandoci, pagina dopo pagina, agli inizi del XIX secolo: il Re dei cuochi di Giovanni Nelli (XIX sec.), il Re dei cuochi uscito a Firenze, il Vero re dei cucinieri di G. Belloni (XIX sec.), pubblicato a Milano, il Principe dei cuochi del napoletano Francesco Palma (XIX sec.), l'Imperatore dei cuochi di Vitaliano Bossi (XIX sec.).
In questo scenario fatto di cucine regionali e borghesi apparve un personaggio - che cuoco non era - che riuscì a tracciare una linea di unità nella cucina italiana: Pellegrino Artusi (1820-1911). Commerciante di tessuti dalla buona disponibilità economica, visse delle sue rendite facendo per diletto il gastronomo fino alla pubblicazione, a sue spese, di un libro che nessun editore aveva voluto sostenere: La scienza in cucina. Di quel libro sarebbero poi state tirate 200.000 copie e ancora oggi continua a essere ristampato. Artusi, per la prima volta nella storia dell’editoria gastronomica, riportava delle conversazioni intorno al tema della cucina. Non era un cuoco che dava suggerimenti agli addetti ai lavori o a chi non era del mestiere; era invece un borghese benestante, attento al portafoglio e al gusto, che con una buona capacità di comunicazione creava racconti e storie intorno alle ricette, riportandole ad un ambiente caldo e domestico. Il suo stile così familiare e intimo coinvolse tutti gli italiani in uno scambio di esperienze senza confini regionali. La corrispondenza da lui ricevuta fu talmente ricca e variegata da creare una sorta di rete - oggi la definiremmo social - dove ciascuno inviava la propria ricetta e si confrontava col “vate“ della cucina italiana. Tutto questo materiale fu raccolto, edizione dopo edizione, fino all’undicesima che contò più di settecento ricette: un’opera dal successo e dal valore straordinari che crebbe senza il contributo dei professionisti della cucina.
I cuochi sono allora scomparsi definitivamente? Se guardiamo all’età contemporanea possiamo dire che così non è: oggi i cuochi sono i protagonisti della televisione, sono gli autori di libri di successo che hanno trasformato la cucina in spettacolo, forse riportandoci, almeno idealmente, allo spirito del Rinascimento fatto di ricercatezza ed effetti teatrali.
Una ciclicità che ci ricorda come chi cucina, non cucina mai solo. In cucina anche il cuoco più solitario è circondato da generazioni di cuochi del passato, dai consigli e dai menù dei cuochi del presente, dalla saggezza di chi scrive libri di cucina. E noi, alla fine, abbiamo parlato di libri di cucina…
Giancarlo Gonizzi è nato a Parma nel 1960. Dopo gli studi in Biblioteconomia presso l’Università di Parma si è dedicato alla libera professione nel campo della valorizzazione dei Beni Culturali, della storia locale, della storia d’impresa con particolare attenzione all’industria alimentare e alla cultura gastronomica.Consulente di aziende, Fondazioni ed enti pubblici, ha curato numerose mostre, allestimenti di musei, siti internet, eventi e pubblicazioni in ambito locale e nazionale, con un assiduo riferimento alla valorizzazione della storia dell’imprenditoria e del lavoro.Ha curato l’ordinamento di diversi archivi di impresa: l’Archivio Storico Barilla, che ha contribuito a fondare nel 1987 e a valorizzare, l'Archivio Storico delle Fiere di Parma, della TEP (Azienda trasporti pubblici di Parma), del Gruppo SAME di Treviglio (BG), ed è Vice Presidente di Museimpresa, l’Associazione di ambito confindustriale che riunisce le istituzioni culturali delle imprese italiane.Ha coordinato tutte le iniziative del Comitato nazionale per il IX centenario della Cattedrale di Parma (2006-2008). Attualmente è curatore della Biblioteca gastronomica di Academia Barilla, coordinatore dei Musei del Cibo della provincia di Parma.