I banchetti rinascimentali alla corte Estense. Mirna Bonazza

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Cristoforo Messisbugo, Giovanni Francesco Colle, Giovanni Battista Rossetti

Buonasera a tutti, grazie di essere qui. Ringrazio della loro presenza Zita Zanardi, il professor Angelo Varni e altri colleghi, che vedo fra il pubblico, provenienti da Bologna. Mi fa molto piacere poter parlare questa sera di alcuni argomenti che mi sono molto cari, che mi sono stati cari in passato per gli studi che ho condotto. In questi ultimi anni mi sono occupata di banchetti e degli scalchi che, alla corte Estense, li hanno resi celebri. Nello specifico, in relazione alla didattica con l'Istituto Alberghiero Orio Vergani di Ferrara: abbiamo realizzato un percorso appositamente per due classi, di III e V, e abbiamo affrontato questi argomenti; ricette che poi abbiamo “tradotto” anche nella pratica e alla fine tutto si è concluso con un vero banchetto. Certo non un banchetto importante e luculliano come quelli che gli Estensi erano soliti fare. E’ stata comunque un'esperienza interessante anche sotto questo profilo. Oggi, la presentazione di questo bellissimo libro mi dà l'occasione di parlare di tre scalchi - Cristoforo Messisbugo, Giovanni Battista Rossetti e Giovanni Francesco Colle – e inoltre di esporre alcuni esemplari delle loro opere. Si tratta di opere che gli stessi scalchi hanno composto, esemplari di estrema rarità che sono descritti all'interno del volume Agricoltura e alimentazione in Emilia Romagna. Tutti e tre gli scalchi operarono all'interno della corte Estense nel corso del '500.

La figura di Messisbugo è stata inquadrata molto meglio in questi ultimiMessisbugo, Banchetti, 1549 anni da una collega dell'Archivio di Stato di Modena, Patrizia Cremonini. 1 Di lui non si sapeva tantissimo effettivamente: si conosceva la data di morte; morì nel 1548, un anno prima della pubblicazione della sua opera che, quindi, è postuma. Sappiamo che fu stretto collaboratore, uomo di fiducia, come diceva prima il professore Varni. Gli scalchi, infatti, non erano solamente dei cuochi, o coloro che approntavano i banchetti, erano dei veri e propri amministratori, degli uomini di corte, dei registi dei banchetti stessi. Messisbugo fu, tra l'altro, uomo di fiducia di Alfonso I, dal 1515, e del successore Ercole II; la Ippolito II d'Este, ritratto - Biblioteca Ariosteasua fama fu tale che a un certo punto l’imperatore Carlo V, giunto a Bologna, lo nominò Conte Palatino. Pertanto ebbe un ruolo particolare all'interno della Corte: sono molto celebri i suoi banchetti. Ecco il frontespizio della prima edizione dell'opera, Banchetti compositioni di vivande, et apparecchio generale, che fu pubblicata nel 1549, dicevo postuma, a Ferrara da Giovanni Buglhat e Antonio Hucher; di quest'opera esistono, al momento, 9 esemplari censiti in Italia. E’ un'opera davvero molto rara. Dedicata al cardinale Ippolito II d'Este - che vedete tra l'altro rappresentato nel quadro a lato - l’opera si apre con l'immagine dello stesso Messisbugo. Opera veramente completa, inizia descrivendo tutto ciò che occorreva per realizzare un banchetto; l'esperienza dei banchetti che vengono raccontati e le ricette, quindi offre un quadro esaustivo. Tra le tre opere esposte, probabilmente, è quella più esauriente. Le spetiarie che venivano utilizzate, per le portate, che gli speziali -  speziali non medicinali - fornivano (la Biblioteca conserva un codice degli speziali in cui sono elencati i nomi degli alimenti che si potevano vendere all'interno delle spezierie in determinati periodi). Leggendo la descrizione di queste spetiarie che dà Messisbugo si ritrovano i nominativi che si riscontrano nel codice.

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Poi le masseritie: quindi gli utensili che servivano per preparare le portate, per mangiare, per creare l'atmosfera del banchetto, tutto ciò che serviva al banchetto: i catini, i mastelli, le catinelle, i coltelli, chiaramente posate non ce n'erano, mangiavano con le mani, c'erano grandi forchette che venivano utilizzate per disporre nei piatti, per prendere le portate, ma in realtà, si nota anche dalle immagini, mangiavano prevalentemente con le mani. Spesso portavano acqua e salviette per potersi lavare le mani, le stesse tovaglie, i mantili, venivano disposte una sopra all'altra in modo che alla fine di una parte del banchetto venissero cambiate. Molto spesso erano 3, 4 mantili che servivano per apparecchiare. Poi gli offitiali cioè il personale di servizio; Messisbugo offre un lungo elenco di tutti coloro che partecipavano dal siniscalco, ai credenzieri, ai camerieri che dovevano presentarsi tutti in livrea durante i banchetti. Quindi tutto l'occorrente che serviva: lo scalco doveva pensare non solo per la corte ma anche quando la corte si spostava, quando andava in villa o altrove. Pertanto, lo stesso Messisbugo ci dà un elenco di tutto il necessario che serviva per il trasferimento in villa. All'interno del volume vedete una xilografia dedicata alle cucine: notate quest’uomo che fa la sfoglia (una sfoglina attuale, però è un uomo che tira la sfoglia), quest’altro che cuoce i polli; poi nell’altra xilografia, tutto l'apparecchiamento che si faceva per realizzare i banchetti, dove si vedono i signori che mangiano, vengono serviti, ed anche giocolieri, cantanti, musici. Spesso questi banchetti avevano una scenografia veramente molto articolata, duravano tante ore, a volte delle giornate intere e a volte più giornate.

Ad esempio Messisbugo ci parla di un banchetto del 24 gennaio del 1529: è una cena di carne e pesce voluta da lo Illustrissimo Signor, dice, Don Hercole da Este duca di Chartres (si tratta del futuro Ercole II che all’epoca non era ancora divenuto Duca di Ferrara), al Duca di Ferrara, suo padre, all'Illustrissima Madamma marchesa di Mantova (Isabella d’Este), a Madamma Renea (Renata, figlia del re di Francia Luigi XII, moglie di Ercole) e all'Arcivescovo di Milano, a tutti personaggi di alto rango. Messisbugo realizza il banchetto per 104 persone e sottolinea che la Duchessa di Chartres, la Marchesa di Mantova e il Duca (Alfonso I) mangiarono a parte, non insieme a tutti gli altri. Eppoi, cosa interessante proprio nell'anno di Ariosto, si dice che durante la cena venne rappresentata la Cassaria, commedia di Ludovico Ariosto. Altra tematica che attualmente a Ferrara è molto di moda è quella del carnevale rinascimentale; anche Messisbugo si cimentò in festini e cene per il carnevale. Qui si tratta della domenica di carnevale del 1540, una cena su commissione di Paolo Costabili (la famiglia Costabili era molto importante a Ferrara); Messisbugo si deve cimentare per il numero di 46 persone. Potete notare tutti questi lunghi elenchi di portate che vengono ammannite nel corso della cena: si va dai capponi, riso, lepri, pernici, ai dolci che vengono spesso mescolati. Dolce e salato nella cucina ferrarese è un connubio normale, ancora adesso; c'è un'alternanza fra alimenti dolci e alimenti salati che si susseguono, non c'è infatti un ordine come siamo abituati attualmente. Altro carnevale del 14 febbraio del 1548: Messisbugo (quasi al termine della vita) organizza un festino in casa sua. Significa che se il Duca si recava alla casa di Messisbugo doveva veramente avere acquisito un ruolo e un primato molto importanti; in questo caso si parla della rappresentazione di una commedia di Girolamo Parabosco da Bologna (in realtà il Parabosco era di Piacenza) intitolata la Notte. Quindi, nel corso di questi banchetti non si mangiava solamente: si cantava, si ascoltava musica, si assisteva a rappresentazioni.

Ecco poi la terza parte dell'opera che è rappresentata dalle ricette. Ho inserito, a questo proposito, alcune immagini di ricette tratte dal volume, soprattutto quelle che mi sembravano più significative, almeno per noi ferraresi, ad esempio le brazzatelle di latte e zuccharo, cioè le ciambelle, quelle che ancora adesso in dialetto chiamiamo brazzadell (sing. brazzadella), perché? Perché venivano imbracciate: durante i banchetti venivano infilate nel braccio e poi portate in tavola. Non è un piatto tipico di Messisbugo, delle brazzadelle si parla già nel XIII secolo, quindi ha una lunga tradizione.

Poi, ad esempio, la torta d'anguilla da quaresima e la torta d’erbe da quaresima. Si sapeva che durante la Quaresima si doveva osservare il digiuno, quindi certi piatti risultavano forse più adatti. In realtà l'anguilla non è neanche un piatto leggerissimo che tuttavia veniva consumato durante la Quaresima. L'anguilla è tipica delle nostre valli, ora come in passato, inoltre, come diceva prima il Professore (Angelo Varni), lo storione ossia le uova di storione, il caviale quindi, veniva preparato. Le polpette di sturione – dice Messisbugo - per piatti dieci, poi la frittada di caviaro, di caviale, offrono lo spunto (lo storione stesso) per parlare del negozio di via Mazzini della Nuta, Benvenuta Ascoli, ebrea che tenne la gastronomia di via Mazzini fino al 1938 quando, a causa delle leggi razziali, dovette andarsene, non si sa neppure che sorte ebbe. Il negozio passò ad altri proprietari che portarono avanti la tradizione del caviale e dello storione e rimase attivo fino agli anni '70; ad un certo punto la tradizione s’interruppe per poi riproporsi soprattutto negli ultimi anni.

Concludo con Messisbugo con il suo motto «omnia mea mecum porto»Il motto di Messisbugo, riportato in fine al testo cioè porto con me tutte le mie cose, riprendendo il motto latino ciceroniano; ritenendo di dovere la raggiunta fortuna alla sua intelligenza e alle sue doti.

Altro scalco importante è Giovanni Francesco Colle anche lui vissuto nel XVI secolo. Non conosciamo gli anni di nascita e di morte, sappiamo che era un gentiluomo napoletano al servizio di Alfonso I d'Este, probabilmente lo stesso Messisbugo ebbe come “maestro” Francesco Colle. Importante è il suo trattato sull'arte del trinciare, intitolato Refugio de povero gentiluomo, che vedete qui. Questo esemplare (Ferrara, Lorenzo Rossi, 9 giugno 1520) sembra essere l'unica copia censita; non so se qualche collezionista privato può averlo, risulta attualmente come unica copia. Non ci dà, a differenza di Messisbugo, testimonianze relative ai banchetti e nemmeno alle ricette, tuttavia è opera singolare. Dedicata ad Alfonso I - vedete il frontespizio – offre un elenco di come il trinciante, colui che taglia, debba tagliare ogni cibo. Il trinciante non è un semplice beccaio, un macellaio, è un artista, in pratica, il trinciante deve avere un ruolo, un portamento, deve osservare una condotta e anche un igiene personale, deve possedere una determinata cultura, chiaramente, per preparare e tagliare davanti al signore le portate che poi verranno consumate; questa tavola offre, quindi, l'elenco delle portate che verranno poi trinciate. Ecco, l'immagine che vedete riprodotta anche nella carta che ho aperto (esemplare esposto in Sala) dei coltelli che venivano utilizzati, strumenti che servivano per tagliare, poi, queste sono alcune carte che ci indirizzano su come venivano tagliati, trinciati certi animali, domestici e selvatici, ad esempio le tortore, i colombi oppure come ad esempio si dovevano tagliare i pomi ingranati. Colle passa da scene piuttosto truculente, descritte in maniera truculenta, tipo come tagliare il capretto, a quelle molto eleganti di come tagliare i pomi ingranati. Il trinciante era anche un uomo di cultura, si divertiva anche nel nell'esprimersi poeticamente; infatti Colle si diletta anche nella poesia, sempre parlando delle portate, e nel libro terzo ci parla della natura dei cibi e delle loro proprietà, ponendosi anche il problema di capire come certi cibi possano essere utilizzati, o se conviene che vengano utilizzati e da chi. Ad esempio, quando entra nel merito della questione del vino – dubio xxii e seguenti - dice “utrum il vino conviene alli puti come negli giovani; io dico che non si debbe donare alli puti”, quindi, ai bambini non si deve dare vino e discute su questa questione di chi possa consumare o meno certi cibi, se facciano bene o meno, e per avvalorare la sua tesi prende anche in esame i grandi del passato, gli scienziati e gli studiosi.

Altra figura, la terza, di cui volevo parlarvi è GiovanniZuccari, Lucrezia d'este Battista Rossetti: vediamo il volume qui aperto (esemplare esposto in Sala), pare che di questi esemplari ve ne siano una decina in Italia. Rossetti fu scalco della duchessa Lucrezia d'Este, duchessa d'Urbino, che aveva sposato il Duca d'Urbino, e di Alfonso II d'Este, fratello di Lucrezia. Anche il Rossetti si cimenta nei banchetti soprattutto nella sua opera intitolata Dello scalco pubblicata nel 1584, molto più tarda rispetto alle due che abbiamo visto - una del 1520 e l'altra del 1549 - ci dà indicazioni per ogni mese dell'anno dei banchetti che realizzò. L'opera, dedicata a Lucrezia d'Este d'Urbino, nella parte iniziale si dilunga a parlare del ruolo dello scalco e dei suoi officiali. Scalco, tra l'altro, è una parola longobarda, la cui etimologia è molto diversa rispetto al significato d’origine; scalco significa servo e cambia, si evolve, nel corso del tempo: Rossetti, Messisbugo non erano certo dei servi. Rossetti ci parla del ruolo dello scalco e degli officiali che menziona, spiegando praticamente il ruolo che ognuno di loro doveva avere: come lo spenditore che acquistava per il vivere e consegnava al dispensiero che “oltra il conto che terrà delle robe, che entraranno in dispensa” - quindi deve contare le cose che gli arrivano in dispensa, misurarle, constatare il loro peso, il costo, la quantità – doveva conteggiare quelle in uscita, chiaramente. A seguire altre figure di ufficiali fra cui si menzionano il panatiero, l’ufficiale preposto alle farine, il canovaro che annoterà l’entrata di tutti i vini, il credenziero, il bottigliero.

Nel secondo libro dell’opera Rossetti tratta dei conviti preparati per illustri ospiti. Uno per tutti: il banchetto per le nozze di Alfonso II d’Este e Barbara d’Austria del5 dicembre 1565 per il quale fu realizzata una scenografia prettamente marina, “un triompho di Nettuno”. L’opera si conclude con il libro terzo “Della varietà delle vivande”.

 

Mirna Bonazza, esperta nella catalogazione dei manoscritti, è responsabile dei Manoscritti e Rari della Biblioteca Comunale Ariostea e dell’Archivio Storico Comunale di Ferrara.
Si è laureata in Storia Antica presso l'Università degli Studi di Bologna e in Lettere Moderne presso l'Università degli Studi di Ferrara. Ha conseguito il Diploma di Archivistica, Paleografia e Diplomatica pressola Scuoladell’Archivio di Stato di Modena.
E’ autrice di diverse pubblicazioni; ha tenuto lezioni e conferenze inerenti agli argomenti di studio e corsi formativi sulla catalogazione dei manoscritti e del loro applicativo Manus. Ha partecipato, nel maggio del 2016, al 66° Congresso Nazionale di Storia della Farmacia tenutosi a Firenze con il contributo dal titolo "L’Ortus sanitatis di Johann von Cuba nell’edizione di Magonza del 23 giugno 1491,per i tipi di Jacob Meydenbach. Prezioso incunabolo acquarellato conservato presso la Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara". E’ curatrice di mostre bibliografico-documentarie allestite presso la Biblioteca Ariostea, la cui ultima in collaborazione con Arianna Chendi dedicata ai cinquecento anni dalla pubblicazione della editio princeps dell’Orlando furioso dal titolo: 1516-2016 Furioso da cinque secoli, ancora Orlando, per sempre Ariosto.
Fra le pubblicazioni più rilevanti si possono menzionare: ManuScripti. I codici della Biblioteca Comunale Ariostea, Ferrara, Litografia Tosi, 2002, con cui ha vinto, nel 2003, il I Premio nella Sezione Saggistica Autori Ferraresi dell’VIII Edizione del Premio Niccolini; ManuStatuta. I codici della Biblioteca Comunale Ariostea, Ferrara, Centro Stampa, 2008; Il Pampapato ferrarese. Leggende e storia di un dolce peccato di gola, Ferrara, Edisai, 2005.