Oralità e scrittura del cibo: qualche assaggio in Emilia Romagna. Antonella Campanini

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Marie-Antoine Careme, Parigi 1823Quella della cucina è un’arte effimera. Grandi cuochi si sono avvicendati nel corso dei secoli, hanno creato i piatti più succulenti e belli da vedere, oltre che straordinari da gustare ma, alla fine dei banchetti, delle loro creazioni non resta traccia. Mangiate, digerite, gli avanzi distribuiti alla servitù o dati in pasto ai cani… Eppure, a secoli di distanza noi ancora ne parliamo e, in certi casi, tentiamo persino di riprodurle. L’operazione è possibile essenzialmente grazie a due tipi di fonti: le narrazioni e descrizioni di banchetti da una parte e i libri di ricette dall’altra. Dopo un rapido excursus attraverso gli uni e le altre, mi soffermerò su tre autori emiliano-romagnoli di ricettari, differenti per secolo di appartenenza, mestiere, scopi, ma accomunati dalla volontà di scrivere di cucina: Cristoforo Messisbugo da Ferrara, Bartolomeo Stefani da Bologna, Pellegrino Artusi da Forlimpopoli. Nelle opere di costoro sarà messo in luce quanto riguarda la loro regione d’origine.

La scrittura delle ricette, peraltro, non è per nulla scontata, almeno sino all’invenzione della stampa. Il sapere culinario ad alto livello si tramanda soprattutto in forma orale (effimera anch’essa), di maestro in allievo. A livello più basso anche: nelle case più modeste saranno le madri a istruire le figlie o, in situazioni più agiate, la servitù. Inoltre, quel sapere non è ritenuto probabilmente abbastanza “elevato” per tramandarlo attraverso un procedimento complesso e costoso quale la scrittura, e infine è poco probabile che gli addetti alla preparazione del cibo fossero alfabetizzati.

La scrittura culinaria non attraversa neppure l’intero Medioevo. Esiste infatti una lacuna attualmente incolmabile – e con ogni probabilità destinata a restare tale – che separa il manuale di Apicio (redatto intorno al IV secolo e copiato sino all’VIII) dai primi ricettari medievali, attestati all’inizio del XIV secolo. In quel lungo intervallo la cucina è completamente cambiata, a livello di metodi e anche – in gran parte – di ingredienti: scompare per esempio il garum, quella salsa a base di pesci marinati che si affermava con forza nelle preparazioni apiciane, per lasciare il posto a nuove spezie. Il salto cronologico non è soltanto italiano, ma caratterizza l’intera Europa. Nulla di strano, in fondo: la cucina è in perenne evoluzione e movimento, normale dunque che, in tempi nei quali la scrittura non è particolarmente diffusa, non si senta l’esigenza di scrivere di cucina; altrettanto normale che l’evoluzione non si arresti e che la sua diffusione sia legata in grandissima parte all’oralità. 1

Perché, allora e proprio allora, si riprende a scrivere di cucina? Bruno Laurioux, uno degli storici che maggiormente si sono occupati delle ricette e della loro scrittura, 2 formula qualche ipotesi per identificarne le concause. È nel XIV secolo, sostiene, che si crea un clima intellettuale più favorevole alle cosiddette “arti meccaniche”. La professione dei cuochi e del personale di cucina solo allora è di fatto assimilata alle arti, abbandonando le prerogative della condizione servile e conquistando una propria dignità. Senza di quella, sarebbe stato impensabile metterne per iscritto le regole. 3 Si deve poi aggiungere l’interesse dei medici per le preparazioni culinarie. 4 Se la professione medica portava da secoli con sé l’idea della trasmissione per iscritto di un sapere riconosciuto come accademico, in qualche modo anche la cucina, per questa sua prossimità alla scienza dietetica, potrebbe avere conquistato la forma scritta per una sorta di contagio virtuoso.

È ambiguo il destinatario diretto di questa prima produzione. La mancanza d’indicazioni relative ai tempi di cottura e la discrezionalità nell’utilizzo e nella sostituzione degli ingredienti farebbero propendere per un professionista ma, come si diceva, il sapere culinario si tramanda normalmente in forma orale. Tuttavia l’idea di una scrittura di cuochi per cuochi non è da escludere. Altro destinatario possibile sarebbero gli scalchi o in generale gli organizzatori dei banchetti all’interno dei palazzi, che avrebbero avuto necessità di conoscere le operazioni culinarie, o quantomeno di farsene un’idea, per svolgere il compito di vegliare su tutte le operazioni che concorrevano alla buona riuscita dell’evento. 5

Per cuochi o per maestri di casa che siano, i primi libri di ricette sono quasi tutti anonimi. Anche qui il fenomeno è europeo, non soltanto italiano. Il loro utilizzo è quasi sempre legato al territorio di produzione: la lingua volgare nella quale quasi tutti sono redatti, innanzitutto, tende a inibirne l’“esportazione”. Non si tratta però soltanto di quello: nonostante la circolazione di saperi culinari – che va al di là della loro forma scritta – fosse notevole, leggendo le ricette al di là del titolo si può notare quasi sempre una loro “declinazione nazionale” che le caratterizza, accanto ad alcuni fattori comuni, il più evidente dei quali è l’utilizzo sistematico delle spezie. 6

Non vi sono libri di ricette medievali aventi origine in Emilia-Romagna,Libro di cucina del sec. XIV, ms. 158 - Biblioteca Universitaria, Bologna però la Biblioteca Universitaria di Bologna conserva un manoscritto comprendente un ricettario intero e il frammento di un altro: entrambi sono stati editi per la prima volta proprio a Bologna, il primo da Francesco Zambrini nel 1863 e il secondo da Olindo Guerrini nel 1887. 7 In quel periodo la filologia pone l’accento sulla ricerca linguistica, in una fase storica delicata quale quella immediatamente postunitaria. Volendo riscoprire l’italiano di tutti i giorni, quello dunque legato all’oralità e non alle grandi opere letterarie, i libri di ricette costituiscono una fonte privilegiata. Si ritiene infatti che la lingua che utilizzano, con la sua voluta ripetitività e la scarsità di strutture sintattiche, sia particolarmente vicina al parlato. Una curiosità: tanto per non smentire l’idea che la cucina, in una coppia, sia appannaggio della donna di casa, l’edizione curata da Guerrini costituisce il dotto omaggio nuziale destinato a Laura, figlia dell’amico Giosue Carducci.

Una traccia emiliano-romagnola che è possibile seguire anche nei primi libri di ricette è costituita da quelli che Alberto Capatti ha felicemente denominato “gastrotoponimi”: in sostanza, quei nomi di luogo che, affiancati al nome di un prodotto o al titolo di una ricetta, danno un’indicazione – talvolta fuorviante, purtroppo – sulla sua provenienza. Già nel Liber de coquina, il primo dei ricettari attestati in Italia e prodotto in ambito meridionale tra la fine del XIII secolo e l’inizio del successivo, compare la ricetta di una torta parmesana o parmigiana, la cui denominazione parrebbe essere senza difficoltà riconducibile alla città di Parma. In realtà le cose non sono così semplici e, se lo storico Giovanni Rebora ritiene il gastrotoponimo non problematico – anzi, lo lega a un avvenimento preciso: la vittoria dei parmensi sull’esercito di Federico II, nel 1248 –, Anna Martellotti, curatrice dell’edizione critica del Liber de coquina, non è dello stesso parere e asserisce che il nome della torta derivi dal latino parma, scudo, data la struttura a contrafforte che quella torta assume. 8 Quella ricetta è una delle più complesse dell’intero Liber. Eccola:

Togli pulli smembrati e tagliati e friggili con le cipolle ben trite con lardo in bona quantità e cotti i polli a bastança mettivi su spetie e sale a bastança. Poi togli erbe odorifere mettivi su çaffarano in bona quantità e trita forte e excoriatam in bona quantità e poni la medolla sopra ’l grasso di quello e batti col coltello fortemente e spessa e mesta colle dicte erbe con alquanto di cascio gratato. Poi togli di queste un’altra quantità e fanne ravioli e togli anche cascio frescho e fanne ravioli bianchi. Togli anche petrosello e altre erbe odorifere e cascio frescho e fanne ravioli verdi e tutte cose sopradicte distempera con ova. Togli anche amandole monde pestale forte e dividile in due parti nell’una mettivi de le spetie in bona quantità nell’altra mettivi çuccaro e de l’una e de l’altra quantità fane ravioli spartitamente, poi togli ova e falli pieni. Togli anche budelli di porco bene grassi et lavati et empili di bone erbe e cascio e lessali bene. Togli anche presciuto crudo e taglialo sottile e similmente salsuccie, poi togli ova debattute e mesta con li detti polli in uno vaso e pollo su la bragia e mescola [mescola] con la mescola fine che sia spesso poi levalo dal fuocho e assaporalo de sale, poi togli farina bene monda e fanne pasta salda et forma al modo de la tegghia o la padella. Poi collo cocchiaio togli del brodo dei detti polli e ungi la dicta pasta, poi nella dicta pasta fa un solaio de carne d’essi polli nel secondo solaio poni ravioli bianchi col savore di sopre nel tertio solaio poni presciuto e salsuccie tagliate come ditto è. Nel quarto solaio poni de la dicta carne. Nel quinto poni dei cervelati cioè budelli pieni di sopradetti. Nel sexto de ravioli d’amandole e in ciascuno solaio vi si ponano dei dattari e anche metti sopra la ditta carne il savore e in ciascu[cu]no solaio poni spetie a bastança poi metti spetie di sopra che basti. E abbi la bragia e poni il testo sopra e di sopra e di sotto sia la bragia. Scopri spesso la dicta torta e ungila col lardo. E s’ella si rompesse togli la pasta sottile e sottilemente menata e bagnala coll’acqua e poni su la rottura e metti il testo caldo di sopra. 9

Alla torta parmigiana avrebbe fatto seguito nel più conosciuto ricettario di Maestro Martino 10 la meno ambigua Torta bolognese, il cui gastrotoponimo non dà adito ad alcun dubbio. Eccone la ricetta:

(P)iglierai altrettanto caso come e detto nel capitolo di sopra della torta biancha e grattalo. Et nota che quanto e piu grasso el caso tanto e meglio poi habbi delle bietole petrosillo e maiorana e nettate e lavate che larai battile molto bene con uno coltello e metterale insieme con questo caso menandole e mescolandole con le mani tanto che siano bene incorporate agiungendovi quattro ova e del pepe quanto basti e uno pocho di zafrano. Item di buono strutto ho vero butiro fresco mescolando e incorporando tutte queste cose molto bene insieme come ho detto. Et questo pieno metterai in una padella con una crosta di sotto e una di sopra dandoli el fuoco temperatamente e quando ti pare che sia meza cotta perche paia piu bella con uno rosso di ovo battuto con uno pocho di zafrano la farai gialla e a cognoscere quando e cotta ponerai mente quando la crosta di sopra si levera e alzera in suso che allora stara bene e poterai levarla da fuoco. 11

Siamo alla fine del XV secolo: la cucina sta conoscendo allora un periodo di splendore e si organizzano, principalmente a scopo ostentatorio, banchetti magnifici e indimenticabili. Uno di essi ha avuto luogo a Bologna nel 1487, in occasione delle nozze tra Annibale Bentivoglio e Lucrezia d’Este. L’avvenimento è stato celebrato da diversi cronisti, in prosa latina e volgare e anche in versi. 12 Accontentiamoci di un piccolo assaggio da uno scrittore del secolo successivo, Cherubino Ghirardacci, che lo ricostruisce grazie alle fonti a sua disposizione.

Fu cominciato il convito a hore 20 et durò fino alle 3 hore di notte. Hora data l’acqua artificiata alle mani et con sottilissimi drappi assignati posti a tavola, che erano 14 tavole, si cominciarono a portare le vivande. Vero è che prima che fossero presentati avanti, erano portate con grandissimo onore intorno la piazza del palazzo per istendere con ordine li servi et anche per farne mostra al popolo, accioché egli vedesse tanta magnificenza.

L’immagine del popolo che assiste alla sfilata delle vivande come a un vero e proprio spettacolo che si svolge in quel luogo aperto che è la piazza crea già, nel lettore della cronaca, l’aspettativa di qualcosa di grandioso, che non resterà delusa.

Furono in mensa prima presentati li pignocati indorati, cialdoni et malvasia dolce et garba et moscatelli in vasi d’argento. Poi piccioni arrosti, fegatelli, tordi, pernici, con ulive confette et uva in 125 piatti d’argento ponendo fra due et due un sol vaso, et siccome di queste cose anche degl’altri cibi. Presentorno poi una cesta dorata con il pane distribuendolo a ciascuno delle mense.

Entrando nel palazzo, i colori che prevalgono sono l’oro e l’argento del vasellame e delle vivande stesse. Poi iniziano le illusioni.

Poi fu portato un castello di zuccaro con li merli e torri molto artificiosamente composto pieno di uccelli vivi; il quale come fu posto nel mezzo della sala, uscirono fuore volando tutti gl’uccelli con gran piacere et diletto de’ convitati.

Con il castello di zucchero ci troviamo di fronte alla prima portata che non si mangia, pur essendo commestibile.

Venne poi nella sala un capriolo et uno struzzo, dietro alli quali vennero li pasteletti coperti, teste di vitello con il collo in piatti d’argento dorati, capponi alessi, petti et lonze di vitelli, capretti, salciccioni, piccioni, minestra et sapori, pure ne’ vasi d’argento dorati. Poi appresentorono pavoni vestiti con le loro penne a guisa che facessero la ruota, e a ciascuno de’ signori ne fu presentato uno, havendo uno scudo al collo con l’arme sua. Poi mortadelle, lepri vestiti con la lor pelle, che stavano in piedi, come vivi, con caprioli parimente con la lor pelle. Erano cotti in guazzetto questi animali e tutti gl’animali et uccelli che furono portati in tavola cotti, erano tanto artificiosamente fatti et addobbati con le loro penne et pelli che si mostravano vivi. Dietro a questo vennero le tortore, fagiani, che dal becco loro ne uscivano fiamme di fuoco, accompagnati con pomi di Adamo et di naranze et sapori.

Sono questi i piatti forti: animali cucinati ma che paiono vivi, uccelli che in aggiunta sputano fuoco dal becco, pavoni cotti in guazzetto che arrivano in tavola facendo la ruota. Poi si continua.

Vennero poi le torte di zuccaro con amandole, giuncate insieme con biscotti; addussero poi teste di capretti, tortore, pernici arrosto et poi un castello pieno di conigli, il quale posato nella sala, uscirono fuore correndo chi qua et là con risa et piacere de’ convitati. Seguitarono poi dietro il castello pasteletti di conigli per cotal modo composti, che non parevano differenti puntino da quelli che dal detto castello erano usciti; poi portorono capponi pure vestiti.

Il nuovo servizio di carni è accompagnato da un secondo castello, al quale segue senza soluzione di continuità il terzo e ultimo.

Poscia fu portato un artificioso castello ove era un grosso porco, et posto nel mezzo della sala, non potendo uscir fuori del castello, gridando drizzavasi in piedi, guardando per li merli hora uno et hora l’altro ruggendo, et così affaticandosi et gridando per fuggirsi, apparvero li scalchi con li servi con porchette cotte intiere dorate che in bocca tenevano un pomo, poi vennero arrosti di più sorti, anatre salvatiche et simili.

Ciascuno degli “artificiosi castelli” è abitato da uno o più animali: il porco, i conigli, gli uccelli all’inizio del banchetto. Il castello non si mangia, l’abitante neppure, ma arrivano in tavola immediatamente dopo i corrispettivi cucinati, a sostituire quello vivo e a creare, con la loro pelliccia o le loro penne, un’ulteriore illusione.

Alla fine presentarono coppi di latte et gelatina, pere, paste guaste, zuccherini, marzapani et altre simili gentilezze. Et data l’acqua odorifera alle mani in vasi d’oro et di argento, furono presentate confettioni di varie sorti con preciosissimi vini. Fu finito il convito a hore tre di notte. 13

Tutte queste illusioni non devono essere state molto distanti da quelle avrebbe scritto Cristoforo Messisbugo mezzo secolo circa più tardi, nella premessa alla sua opera. «Il banchetto ch’io facevo era tutto ombra, sogno, chimera, finzione, metafora e allegoria», si legge nella lettera dedicatoria indirizzata al cardinale Ippolito d’Este che precede il suo trattato, pubblicato postumo nel 1549. Allude a un banchetto particolare, che aveva organizzato per burlarsi di un non menzionato debitore che aveva mandato in fumo il suo denaro.vrebbe scritto Cristoforo Messisbugo mezzo secolo circa più tardi, nella premessa alla sua opera. «Il banchetto ch’io facevo era tutto ombra, sogno, chimera, finzione, metafora e allegoria», si legge nella lettera dedicatoria indirizzata al cardinale Ippolito d’Este che precede il suo trattato, 

Cristoforo Messisbugo, Banchetti, Ferrara 1549,  ritratto - Biblioteca Ariostea, Ferrara

Cristoforo Messisbugo è il primo degli autori emiliano-romagnoli che desidero trattare. Non mi soffermo sui dati biografici, rimandando al lavoro di Patrizia Cremonini, 14 che sta indagando la sua vita grazie a documentazione d’archivio e integrando in tal modo le scarse conoscenze di cui disponevamo sino a qualche anno fa. Quasi certamente figlio non riconosciuto di un capitano di ventura, Cristoforo Messisbugo – o meglio Cristoforo Messi detto Sbugo – ha trascorso praticamente tutta la sua vita lavorativa a Ferrara presso la corte degli Este, dove una brillante carriera l’ha portato ad ascendere da umile servitore di cucina a conte palatino nominato dall’imperatore Carlo V. La sua scrittura culinaria, rappresentata dal volume dal titolo Banchetti composizioni di vivande e apparecchio generale, uscito postumo nel 1549 (la sua morte avviene nel 1548), nasce però soprattutto dalle sue competenze di scalco, dunque organizzatore dei grandi banchetti e oculato amministratore della ricca dispensa. Competenze che si rispecchiano nella suddivisione in tre parti del suo volume: nella prima descrive tutto ciò che deve essere a disposizione delle cucine (prodotti alimentari, ma anche attrezzi), nella seconda fornisce il menu di quattordici banchetti da lui stesso organizzati per la casata Estense. Si tratta della lista di tutte le portate ma anche degli intrattenimenti musicali e in prosa che scandiscono il tempo tra una portata e l’altra. La terza e ultima parte è costituita dal ricettario, che dovrebbe servire per realizzare quanto presente nei menu. Il condizionale è d’obbligo: non tutti hanno a disposizione le risorse economiche di una corte e la cucina proposta da Messisbugo, e in generale quella del Medioevo, poi del Rinascimento (italiano, innanzitutto), è ricca d’ingredienti molto, troppo costosi per i più. I principali sono le spezie, perlopiù provenienti dall’Oriente, che comprendono anche lo zucchero. Esse concorrono a realizzare quella “cucina di sintesi” che crea nel piatto un insieme, una sintesi appunto, in cui i singoli ingredienti si fondono e perdono la propria identità. Il passaggio alla cucina analitica, dove ciascun componente è discernibile e valorizzato, dove «la zuppa di cavolo deve sapere di cavolo, il porro di porro, la rapa di rapa», secondo l’espressione di Nicolas de Bonnefons, 15 è un’evoluzione che parte dalla Francia intorno al XVII secolo, di medievale non ha nulla. Le spezie sono il principale strumento per realizzare la sintesi.

Cristoforo Messisbugo, Banchetti, Ferrara 1549, capitolo intitolato Memoriale per fare uno apparecchio generale per la venuta di ogni gran prencipe-minNel XVI secolo il loro prezzo, destinato a crollare in seguito, è ancora molto elevato e nella cucina di corte le spezie continuano il loro trionfo. Cristoforo Messisbugo è il primo a porsi il problema della spesa che rende quella cucina inaccessibile a classi magari elevate, ma non quanto quella ristrettissima élite. Esiste una soluzione: «se fosse alcuno Gentiluomo mezzano che facesse il convito», propone Messisbugo nella premessa al suo ricettario, «potrebbe egli fare col terzo meno di zuccari e spiziarie, ed ancora colla metà di dette robe». Continua poco oltre:

Laonde se fosse eziandio alcuno, a cui gravasse la spesa del zuccaro nelle composizioni nelle quali è bisognevole, deve sapere che si potria fare anco con miele; salvo se non fossero o mangiari bianchi, o risi turcheschi, o torte bianche, o sapori bianchi o cose altre simili, che dal miele nel proprio colore sariano macchiate. Li altri tutti senza il zuccaro in ogni momento si potranno fare. 16

Soluzioni ad hoc si trovano anche all’interno delle singole ricette: indicazioni quali «E potriasi fare anche senza spezie» 17 o «Questi si ponno anche fare senza il zuccaro dentro» 18 sono all’ordine del giorno. Sarebbe azzardato fare del nostro autore un paladino della classe media, l’uomo venuto dal nulla che non dimentica le origini e cerca di adattare la propria cucina per renderla abbordabile ai più; al tempo stesso, però, non si può negare che la sua operazione di “ridimensionamento” degli ingredienti aumenti potenzialmente il pubblico del suo ricettario, che a quel punto potrebbe divenire un’opera utilizzabile a scopi pratici e non soltanto uno strumento per sognare ciò che non è possibile avere.

Dalla riduzione delle spezie che Messisbugo propone si sarebbe passati abbastanza rapidamente, in prosieguo di tempo, all’affrancazione totale: l’infittirsi dei traffici commerciali, reso possibile dall’apertura di nuove vie di comunicazione, e l’arrivo di ulteriori spezie dalle Americhe provocano un forte aumento di prodotto sul mercato, che ne accresce la disponibilità e ne abbassa il prezzo. A quel punto, addio prodotto elitario: le spezie divengono più popolari e, nella cucina di élite, cedono il passo ad altre mode. Restano un po’ “roba da Medioevo”.

Cristoforo Messisbugo è considerato rappresentante di una cucina di area padana, ma l’unica ricetta che porti nel nome una provenienza legata all’attuale Emilia-Romagna è quella della Torta d’erbe alla ferrarese o romagnuola, che può richiamare in parte quella di Maestro Martino ma, a metà cottura, viene ricoperta di zucchero:

Piglia una brancata di bieta, ben lavata e trita molto bene, e ponila in un vaso con povine quattro fresche, e quattro bicchieri di latte, e uova otto, e libbre 2 di formaggio grasso, e libbra una di butiro fresco, e un quarto di pevere pisto; e incorpora bene ogni cosa insieme. E onta la patella con oncie 3 di butiro fresco, le porrai la prima spoglia, e poi sopra la composizione sopradetta; e distendila bene sopra la spoglia. Poi avrai libbra mezza di formaggio tomino ben grasso, fatto in fettine quanto si può sottili, e distenderai sopra detta composizione. E le porrai poi sopra l’altra spoglia, facendole l’ordello intorno; poi le porrai sopra libbra mezza di butiro fresco disfatto e la porrai a cuocere. E quando serà quasi cotta, le porrai sopra oncie 4 di zuccaro, poi finirai di cuocere. 19

Bartolomeo Stefani

Bartolomeo Stefani, il secondo personaggio di cui ci occupiamo, comincia a ridurre drasticamente la quantità di zucchero non più per ragioni economiche ma per moda: infatti vive e opera in un’epoca di profondi cambiamenti culinari. Capocuoco, da ultimo, alla corte mantovana dei Gonzaga, si definisce con malcelato orgoglio “cuoco bolognese” e nel 1662 dà alle stampe L’arte di ben cucinare et instruire i men periti in questa lodevole professione. Si tratta di un ricettario che recepisce le nuove tendenze culinarie provenienti dalla Francia: comincia per esempio a proporre salse a base grassa in luogo di quelle agrodolci di stampo medievale. Un esempio tra i tanti, la salsa di burro:

Pigliarai una libra di butiro fresco, disfatto che sia in padella, v’aggiungerai meza noce moscata in polvere, un poco di polvere di garofani, oncie quattro di zuccaro fino, rossi d’ova sei, stemperati con tre oncie di succo di limone, se gli vorrai dare odore di muschio, o d’ambra, sarà a tuo piacere; questa servirà per stuffati, che non siano ben cotti, come sparagi, carcioffi, bragiolette, et altre diverse cose. 20

Stefani fa un uso scarsissimo di gastrotoponimi nelle ricette e della sua regione ricorda soltanto una Torta bianca alla Bolognese:

Pigliarai quattro libbre di ricotta grassa pesta nel mortaro spruzzata con acqua rosa muschiata, aggiongendovi dodici ova fresche, ott’oncie di zuccaro, mez’oncia di canella, pestandola sin tanto che diverrà gonfia, et a portione cresciuta, ontarai un tegame con butiro senza foglio, vi porrai la compositione, ma che sia ben onta, e la cucinarai nel forno a fuoco lento, e la servirai calda con zuccaro sopra, et havendo bianco mangiare ve ne potrai aggiongere, che sarà buono. 21

In compenso, però, è colma di toponimi una parte breve ma fondamentale, che Stefani pone al termine del suo libro. Si tratta degli Avvertimenti alli signori lettori circa alcune cose appartenenti alli banchetti descritti in questo presente libro.

Perché in questi miei discorsi a certe occasioni ordino alcune cose, come per essempio sparagi, carchioffi, roviglia, o piselli, che vogliam dire ne’ mesi di genaro, e febraro, e cose simili, che a prima faccia paiono contro stagione, massime a chi non ha passato il fiume della patria, nominato bene spesso sotto nome di mare, et a chi troppo piace il pane della città natìa. Per tanto sappino costoro, che chi ha valorosi destrieri, e buona borsa, in ogni stagione trovarà tutte quelle cose, che io loro propongo, e ne’ medesimi tempi, che ne parlo. E per maggior notitia s’averta, che Napoli, e la Sicilianelle loro riviere alla fredda stagione producono cedri, limoni, aranci, carchioffi, sparagi, cavoli fiori, fave fresche, lattuche ordinarie, e vaghi fiori, delle quali cose a tutto il Regno ne fa parte. E la riviera di Gaeta negli stessi tempi serve de medesimi frutti Roma. Genova con tutta la sua riviera abbonda delle medesime cose, e benché produca i cavoli fiori più piccioli di quelli, che si praticano a Roma, et a Fiorenza, supera però Napoli, Sicilia, et altri luoghi, e di tutte queste cose provede Milano, Fiorenza, Bologna, Turino, Piacenza, e le città a quelle vicine, con buona parte della Lombardia. 22

E via dicendo. I problemi legati alla stagionalità sono per Stefani soltanto un ricordo. Inoltre, in una cucina rinnovata in cui il singolo prodotto è maggiormente valorizzato rispetto all’insieme, l’importanza di conoscere i migliori luoghi di produzione e di commercio appare evidente. L’Emilia-Romagna, la sua regione, non può vantare molte produzioni che altrove risultino fuori stagione, ciononostante Stefani vuole valorizzare quanto vi trova.

Bologna mia patria produce anch’ella nell’inverno finocchi cardati in tutta candidezza, e bontà, e cardi, che pesano trenta in quaranta libre l’uno; e l’uve colà si conservano per tutti i tempi freddi. In oltre abbonda d’olive di grossezza, e perfettione al pari di quelle di Spagna, e di queste cose ne comparte a tutta la Lombardia, Romagna, Fiorenza, e provincie vicine, per fino a Roma. Di più fabrica mortadelle d’esquisita bontà, che sono famose per tutta l’Italia. […] Per la precedenza nella bontà de’ formaggi, fra loro contendono Piacenza, e Lodi, quanto a me, non saprei contro quale di queste città decidere la causa, senza farle un torto manifesto, perché il formaggio di Lodi non si può nominar, che non si lodi; né quello di Piacenza si può gustare, che non piaccia. Modena provede anch’ella le cucine delle sue delicate salsicce, esquisite per far suppe, et ornar vivande. Parrebbe Ferrara sola rimaner povera fra tante città, se non che co’ suoi delicati pesci (non parlo di quelli delle Valli) sommerge l’honore delle altre città in un mare di delicatezze, oltre che con i suoi cinghiali, di quali è feracissima, loro dà non poche cingiate, come anco porta il vanto per il caviale perfettissimo di sturione. 23

Bartolomeo Stefani è l’unico cuoco del passato a essere citato dal terzo e ultimo personaggio di questa breve carrellata: Pellegrino Artusi. Una ricetta inserita nella Scienza in cucina a partire dal 1906 (decima edizione) s’intitola proprio Zuppa alla Stefani ed esordisce con un’interessante premessa:

L’illustre poeta dott. Olindo Guerrini, essendo bibliote­cario dell’Università di Bologna, ha modo di prendersi il gu­sto istruttivo, a quanto pare, di andare scavando le ossa dei Paladini dell’arte culinaria antica per trarne forse delle illa­zioni strabilianti a far ridere i cuochi moderni. Si è compia­ciuto perciò di favorirmi la seguente ricetta tolta da un li­briccino a stampa, intitolato: L’arte di ben cucinare, del si­gnor Bartolomeo Stefani bolognese, cuoco del Serenissimo Duca di Mantova alla metà del 1600, epoca nella quale si fa­ceva in cucina grande uso ed abuso di tutti gli odori e sapori, e lo zucchero e la cannella si mettevano nel brodo, nel lesso e nell’arrosto. Derogando per questa zuppa dai suoi precet­ti io mi limiterò, in quanto a odori, a un poco di prezzemolo e di basilico; e se l’antico cuoco bolognese, incontrandomi all’altro mondo, me ne facesse rimprovero, mi difenderò col dirgli che i gusti sono cangiati in meglio; ma che, come av­viene in tutte le cose, si passa da un estremo all’altro e si co­mincia anche in questa ad esagerare fino al punto di volere escludere gli aromi e gli odori anche dove sarebbero più op­portuni e necessari. E gli dirò altresì che delle signore alla mia tavola, per un poco di odore di noce moscata, facevano boccacce da spaventare. 24

Oltre a costituire un trait-d’union efficace con il resto del discorso, queste poche righe fanno emergere forte e chiara la personalità di Pellegrino Artusi; alludono inoltre alla metodologia di realizzazione del suo celebre ricettario.

Artusi


Artusi nasce a Forlimpopoli, in Romagna, nel 1820, ma trascorre a Firenze la maggior parte della sua vita lavorativa e la totalità dell’esistenza da pensionato. Figlio di commerciante e commerciante a sua volta, viaggia molto attraverso gran parte dell’Italia, con l’esclusione importante di quella a sud di Napoli. 25 Lo fa per lavoro, ma ne approfitta per raccogliere ricette, appassionato com’è di cucina e di specialità locali. Così, giunto all’età di 71 anni, mette insieme quanto raccolto e predispone un libro, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, appunto, stampandolo dapprincipio a proprie spese. Il successo è enorme, complice anche la rivoluzione dei mezzi di trasporto apportata dalla ferrovia, che permette di raggiungere città anche lontane in tempi ragionevoli. E, sul treno, viaggiano non soltanto le persone ma anche i libri e le lettere, che Artusi stesso sollecita a lettrici e lettori per arricchire la sua opera. In questo modo, edizione dopo edizione, si aggiungono nuove ricette e vengono corrette quelle esistenti. Quella della Zuppa alla Stefani arriva a Pellegrino Artusi per posta, mittente l’amico Guerrini, ma molte altre saranno inviate da casalinghe a lui sconosciute, semplici lettrici che implementano il numero delle ricette.

Toscano d’adozione e, spesso, di cultura, come si può evincere per esempio dalla nota introduttiva alla sezione dei Principii («Principii o antipasto sono propriamente quelle cosette appetitose che s’imbandiscono per mangiarle o dopo la minestra, come si usa in Toscana, cosa che mi sembra più ragionevole, o prima, come si pratica in altre parti d’Italia» 26), Artusi non trascura la sua regione di nascita e lascia parecchie ricette o menzioni dell’Emilia-Romagna. Dividendo le ricette per gastrotoponimi, Bologna ne conta ben tredici: Tortellini alla bolognese27 Strichetti alla bolognese28 Maccheroni alla bolognese29 Fritto composto alla bolognese30 Coratella d’agnello alla bolognese31 Fritto d’agnello alla bolognese32 Cotolette di vitella di latte o di agnello, coi tartufi alla bolognese, 33 Scaloppine alla bolognese34 Tartufi alla bolognese, crudi, ecc.35 Tonno sott’olio in salsa alla bolognese36 Baccalà alla bolognese37 Arrosto morto di pollo alla bolognese38 Pane bolognese. 39 Bologna è seguita dalla Romagna con sette attestazioni: Cappelletti all’uso di Romagna40 Tagliatelle all’uso di Romagna41 Ravioli all’uso di Romagna, 42 Agnello coi piselli all’uso di Romagna, 43 Cavolfiore all’uso di Romagna, 44 Spinaci di magro all’uso di Romagna, 45 Migliaccio di Romagna. 46 Un’attestazione ciascuna per Parma (Anolini alla parmigiana), 47 Ferrara (Salami dal sugo di Ferrara), 48 Comacchio (Anguilla in umido all’uso di Comacchio). 49

Più che una carrellata delle ricette emiliano-romagnole, presenta interesse un tragitto un po’ meno gastronomico e più culturale in senso lato, nelle attestazioni del rapporto che lega Artusi all’Emilia-Romagna e alle sue città. Non esaustivo, si tratta soltanto di spigolature. Bologna, innanzitutto, è ricordata con affetto per essere città dall’eccellente gastronomia:

Quando sentite parlare della cucina bolognese fate una riverenza, ché se la merita. È un modo di cucinare un po’ grave, se vogliamo, perché il clima così richiede; ma succu­lento, di buon gusto e salubre, tanto è vero che colà le lon­gevità di ottanta e novant’anni sono più comuni che altrove. 50

E più avanti, nella medesima ricetta (si tratta dei Tortellini alla bolognese):

Bologna è un gran castellazzo dove si fanno continue ma­gnazze, diceva un tale che a quando a quando colà si recava a banchettare cogli amici. Nell’iperbole di questa sentenza c’è un fondo di vero, del quale, un filantropo che vagheg­giasse di legare il suo nome a un’opera di beneficenza nuova in Italia, potrebbe giovarsi. Parlo di un Istituto culinario, ossia scuola di cucina a cui Bologna si presterebbe più di qualunque altra città pel suo grande consumo, per l’eccel­lenza dei cibi e pel modo di cucinarli. 51

Altrove si menzionano le famose tagliatelle (Tagliatelle all’uso di Romagna):

Conti corti e tagliatelle lunghe, dicono i Bolognesi, e di­cono bene, perché i conti lunghi spaventano i poveri mariti e le tagliatelle corte attestano l’imperizia di chi le fece e, ser­vite in tal modo, sembrano un avanzo di cucina; perciò non approvo l’uso invalso, per uniformarsi al gusto degli stra­nieri, di triturare minutissimi nel brodo i capellini, i taglie­rini, e minestre consimili le quali, per essere speciali all’Ita­lia, debbono serbare il carattere della nazione. 52

Questa faccenda doveva infastidirlo particolarmente, dato che ricorre anche in un altro passo, raccontando un’esperienza diretta:

La cucina italiana, che può rivaleggiare con la francese, e in qualche punto la supera, per la grande affluenza oggigiorno di forestieri in Italia che, si vuole, vi lascino da tre­cento milioni all’anno e, secondo calcoli approssimativi, con un crescendo eccezionale di altri duecento milioni in oro nell’anno santo 1900, va a perdere, a poco a poco, in questo miscuglio turbinoso di popoli viaggianti, il suo carattere particolare e questa modificazione nel vitto già è cominciata a manifestarsi più specialmente nelle grandi città e nei luo­ghi più battuti dai forestieri. Ebbi a persuadermene di re­cente a Pompei, ove, entrato con un mio compagno di viaggio in un ristoratore in cui ci aveva preceduto una comitiva di tedeschi, uomini e donne, ci fu servito il medesimo trat­tamento di loro. Venuto poi il padrone a chiederci gentil­mente se noi eravamo rimasti contenti, io mi permisi di far­gli qualche osservazione sullo sbrodolìo nauseoso dei condi­menti ed ei mi rispose: «Bisogna bene che la nostra cucina appaghi il gusto di questi signori forestieri, essendo quelli che ci danno il guadagno». Forse per la stessa ragione, sen­to dire che la cucina bolognese ha subìto delle variazioni e non è più quella famosa di una volta. 53

A parte questa degenerazione culinaria, Bologna gli è rimasta nel cuore. Quando deve dare la ricetta della Crescente, più che dare la ricetta si sofferma sulle doti del popolo presso il quale la si fa.

Che linguaggio strano si parla nella dotta Bologna! I tappeti (da terra) li chiamano i panni; i fiaschi, i fiaschetti (di vino), zucche, zucchette; le animelle, i latti. Dicono zigàre per piangere, e ad una donna malsana, brutta ed uggiosa, che si direbbe una calìa o una scamonea, danno il nome di sagoma. Nelle trattorie poi trovate la trifola, la co­stata alla fiorentina ed altre sìffatte cose da spiritare i cani. Fu là, io credo, che s’inventarono le batterie per significare le corse di gara a baroccino o a sediolo e dove si era trovato il vocabolo zona per indicare una corsa in tranvai. Quando sentii la prima volta nominare la crescente, credei si parlas­se della luna; si trattava invece della schiacciata, o focaccia, o pasta fritta comune che tutti conoscono e tutti sanno fare, con la sola differenza che i Bolognesi, per renderla più tene­ra e digeribile, nell’intridere la farina coll’acqua diaccia e il sale, aggiungono un poco di lardo. Pare che la stiacciata gonfi meglio se la gettate in padella coll’unto a bollore, fuori del fuoco.Sono per altro i Bolognesi gente attiva, industriosa, affa­bile e cordiale e però, tanto con gli uomini che con le donne, si parla volentieri, perché piace la loro franca conversazio­ne. Codesta, se io avessi a giudicare, è la vera educazione e civiltà di un popolo, non quella di certe città i cui abitanti son di un carattere del tutto diverso.Il Boccaccio in una delle sue novelle, parlando delle don­ne bolognesi, esclama: «O singolar dolcezza del sangue bolognese! quanto se’ tu sempre stata da commendare in così fatti casi! (casi d’amo­re) mai di lagrime né di sospir fosti vaga; e continuamente a’ prieghi pieghevole e agli amorosi desiderii arrendevol fosti; se io avesse degne lodi da commendarti, mai sazia non se ne vedrebbe la voce mia». 54

In fondo, Bologna è la “capitale” della sua gioventù, alla quale ripensa con sguardo divertito e nostalgico. Parlando di Maccheroni col pangrattato, per esempio, vi ritorna per narrarne una vicenda:

Mi trovavo nella trattoria dei Tre Re a Bologna, sarà la bellezza di quasi sessant’anni, in compagnia di diversi stu­denti e di Felice Orsini amico d’uno di loro. Erano tempi nei quali in Romagna si discorreva sempre di politica e di cospirazioni; e l’Orsini, che pareva proprio nato per queste, ne parlava da entusiasta e con calore si affannava a dimo­strarci come fosse prossima una sommossa, alla testa della quale, egli e qualche altro capo che nominava, avrebbero corsa Bologna armata mano. Io nel sentir trattare con sì po­ca prudenza e in un luogo pubblico di un argomento tanto compromettente e di un’impresa che mi pareva da pazzi, rimasi freddo a’ suoi discorsi e tranquillamente badavo a mangiare un piatto di maccheroni che avevo davanti. Que­sto contegno fu una puntura all’amor proprio dell’Orsini, il quale, rimasto mortificato, ogni volta che poi si ricordava di me, dimandava agli amici: «Come sta Mangia macche­roni?». Mi par di vederlo ora quel giovane simpatico, di statura mezzana, snello della persona, viso pallido rotondo, linea­menti delicati, occhi nerissimi, capelli crespi, un po’ bleso nella pronunzia. Un’altra volta, molti anni dopo, lo combi­nai in un caffè a Meldola nel momento che fremente d’ira contro un tale che, abusando della sua fiducia, l’aveva offe­so nell’onore, invitava un giovane a seguirlo a Firenze, per aiutarlo, diceva egli, a compiere una vendetta esemplare. Una sequela di fatti e di vicende, una più strana dell’altra, lo trassero dopo a quella tragica fine che tutti conoscono e tutti deplorano, ma che fu forse una spinta a Napoleone III per calare in Italia. 55 

Rispetto a Bologna, l’area romagnola – e soprattutto la gente che la abita – è rappresentata come meno dotta e più “ruspante”. Uno degli esempi più vivaci di questa inclinazione si trova in conclusione alla ricetta dei Cappelletti all’uso di Romagna, narrata come «un fatterello, se vogliamo di poca importanza, ma che può dare argomento a riflettere»:

Avete dunque a sapere che di lambiccarsi il cervello su’ libri, i signori di Romagna non ne vogliono saper buccicata, forse perché fino dall’infanzia i figli si avvezzano a vedere i genitori a tutt’altro intenti che a sfogliar libri e fors’anche perché, essendo paese ove si può far vita gaudente con po­co, non si crede necessaria tanta istruzione; quindi il novanta per cento, a dir poco, dei giovanetti, quando hanno fatto le ginnasiali, si buttano sull’imbraca, e avete un bel ti­rare per la cavezza che non si muovono. Fino a questo punto arrivarono col figlio Carlino, marito e moglie, in un villag­gio della bassa Romagna; ma il padre che la pretendeva a progressista, benché potesse lasciare il figliuolo a sufficienza provvisto avrebbe pur desiderato di farne un avvocato e, chi sa, fors’anche un deputato, perché da quello a questo è breve il passo. Dopo molti discorsi, consigli e contrasti in famiglia fu deciso il gran distacco per mandar Carlino a proseguire gli studi in una grande città, e siccome Ferrara era la più vicina per questo fu preferita. Il padre ve lo condus­se, ma col cuore gonfio di duolo avendolo dovuto strappare dal seno della tenera mamma che lo bagnava di pianto. Non era anco scorsa intera la settimana quando i genito­ri si erano messi a tavola sopra una minestra di cappelletti, e dopo un lungo silenzio e qualche sospiro la buona madre proruppe:«Oh se ci fosse stato il nostro Carlino cui i cappelletti piacevano tanto!». Erano appena proferite queste parole che si sente picchiare all’uscio di strada, e dopo un momen­to, ecco Carlino slanciarsi tutto festevole in mezzo alla sala.«Oh! cavallo di ritorno,» esclama il babbo «cos’è stato?». «È stato» risponde Carlino «che il marcire sui libri non è affare per me e che mi farò tagliare a pezzi piuttosto che ritornare in quella galera». La buona mamma gongolante di gioia corse ad abbracciare il figliuolo e rivolta al marito: «Lascialo fare,» disse «meglio un asino vivo che un dottore morto; avrà abbastanza di che occuparsi co’ suoi interessi». Infatti, d’allora in poi gl’interessi di Carlino furono un fu­cile e un cane da caccia, un focoso cavallo attaccato a un bel baroccino e continui assalti alle giovani contadine. 56

Terra schietta, la Romagna, dove la stessa aria ha effetti benefici sul cibo e sulle persone. L’aneddoto che segue è tratto dalle Tagliatelle all’uso di Romagna:

Mi ricordo che viaggiai una volta con certi Fiorentini (un vecchietto sdentato, un uomo di mezza età e un giovine av­vocato) che andavano a prender possesso di una eredità a Modigliana. Smontammo a una locanda che si può immagi­nare qual fosse, in quel luogo, quaranta e più anni sono. L’oste non ci dava per minestra che tagliatelle, e per principio della coppa di maiale, la quale, benché dura assai ed ingrata, bisognava vedere come il vecchietto si affaticava per roderla. Era però tale l’appetito di lui e degli altri che quella e tutto il resto pareva molto buono, anzi eccellente; e li sen­tii più volte esclamare: «Oh se potessimo portarci con noi di quest’aria a Firenze!». 57

Alberto Capatti osserva che in questo passo Pellegrino Artusi accoglie le teorie di Paolo Mantegazza sulla connessione tra cibo e ambiente: «se la cucina è piacere, l’atmosfera, la compagnia e il prezzo contribuiscono a renderla migliore, ma solo il clima la rende digeribile e nutriente». 58 D’altra parte, se il clima favorisce la buona digestione, i Romagnoli paiono disinteressarsi ai cibi più leggeri, quali le verdure cotte, delle quali non hanno (o non avrebbero, secondo Artusi) alcuna necessità. Nei Ravioli all’uso di Romagna esclude bietole e spinaci dal ripieno e osserva:

I Romagnoli, per ragione del clima che richiede un vitto di molta sostanza e un poco fors’anche per lunga consuetudine a cibi gravi, hanno generalmente gli ortaggi cotti in quella grazia che si avrebbe il fumo negli occhi, talché spesse volte ho udito nelle trattorie: «Cameriere, una porzione di lesso; ma bada, senza spinaci». Oppure: «Di questi (indicando gli spinaci) ti puoi fare un impiastro sul sedere». 59


IBC Collana ERBA 79Si tratta soltanto di spigolature, nella Scienza in cucina si potrebbe trovare molto altro. Sono tuttavia sufficienti per mostrare che Artusi non ha scritto “soltanto” un libro di cucina, che pure non sarebbe poco, ma un’opera molto più ampia che gli permette di rientrare a pieno titolo nelle glorie italiane a cui l’Emilia-Romagna ha dato i natali. La scrittura della cucina, della quale è considerato tuttora, per l’Italia, il maestro indiscusso, lo lascia tuttavia quantomeno perplesso. «Il miglior maestro è la pratica sotto un’esercente capace», scrive nel suo Prefazio, e poco prima aveva messo in guardia i lettori dalla cucina scritta: «Diffidate dei libri che trattano di quest’arte: sono la maggior parte fallaci o incomprensibili». Eppure, «con una scorta simile a questa mia, mettendovi con molto impegno al lavoro, potrete, io spero, annaspar qualche cosa». 60 La cucina orale vince comunque ma, finalmente, anche quella messa per iscritto, e non solo per le corti ma per un pubblico vasto, ha acquisito espressamente autonomia e dignità.

* Le note al testo sono leggibili - e stampabili - anche negli allegati qui sotto.


Allegati

Note 1  Note 2

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Antonella Campanini è ricercatore in Storia medievale e professore aggregato di Storia della cucina e di Storia delle culture alimentari e dei prodotti tipici presso l’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche. Si occupa in particolare di storia culturale dell’alimentazione tra il Basso Medioevo e la prima Età moderna. Tra i suoi lavori più recenti, le monografie Il cibo e la storia: il Medioevo europeo (Roma, Carocci, 2016) e Dalla tavola alla cucina. Scrittori e cibo nel Medioevo italiano (Roma, Carocci, 2012), il volume collettivo Manger en Europe. Patrimoines, échanges, identités, curato insieme a Peter Scholliers e Jean-Pierre Williot (Bruxelles-Bern-Berlin-Frankfurt am Main-New York-Oxford-Wien, P.I.E. Peter Lang, 2011) e la traduzione e cura di Ildegarda di Bingen, Libro delle creature. Differenze sottili delle nature diverse (Roma, Carocci, 2011).