Il pampapato di Ferrara. Mirna Bonazza

print this page

La città, grande come Tours, è in perfetta pianura; numerosi i palazzi, larghe e diritte la maggior parte delle vie, scarsa la popolazione … Qui servono la frutta sui piatti. Le strade sono tutte pavimentate di mattoni …

Michel Eyquem de Montaigne, Viaggio in Italia

Il libro ripercorre la storia, il folclore, le usanze, che ruotano attorno aFerrara, Corpus Domini, disegno, sec. XVIII - Biblioteca d'Arte e di Storia S. Giorgio in Poggiale, Bologna quello che è ritenuto il dolce per eccellenza della cucina ferrarese: il pampapato. Dalla uso etimologico della parola alla voce pampapat, indagata nei dizionari dialettali ottocenteschi, ad un percorso attraverso i secoli che, dalla ricostruzione storica del dolce più rinomato e amato della tradizione gastronomica ferrarese, mostra sullo sfondo anche alcune delle immagini più creative e ricche di significato di Ferrara e dei personaggi che l’hanno resa celebre. Il primo capitolo, realizzato con l’ausilio di fonti scritte documentate ma anche orali, più in relazione alla leggenda che alla storia, è stato dedicato alle monache del monastero del Corpus Domini, ritenute le artefici della specialità dolciaria in questione che diventano pretesto per parlare delle sue fondatrici come Bernardina Sedazzari, della nobildonna Taddea Pio, entrata successivamente, e soprattutto della mistica santa Caterina Vegri (1413-1463). 

Il secondo capitolo riservato ai fasti conviviali nel Rinascimento alla Corte ferrarese degli Estensi ha offerto lo spunto per trattare degli scalchi più celebri dell’epoca: Cristoforo Messisbugo, al servizio di Alfonso I e di Ercole II, con i suoi i Banchetti trionfali e l’apparato scenografico, che nel Compendio inviava “pampapati de zucaro” alla regina di Polonia e “pampapato di mele”, di miele, alle monache del Corpus Domini per la vigilia di Natale; Giovanni Battista Rossetti, scalco al servizio di Alfonso II e di Lucrezia d’Este duchessa d’Urbino che in occasione del banchetto fatto a Scandiano per le nozze di Giulio Tieni e di Leonora San Vitali menziona anche i “pan papati di susamelli” e “pan papati di zuccaro”; a completamento, Giacomo Grana, scalco del cardinale Luigi d’Este artefice di quello che avrebbe dovuto essere uno straordinario e sontuoso banchetto da allestirsi nella Gran Sala del Palazzo dei Diamanti per gli sponsali del duca Alfonso II d’Este con Barbara d’Austria, figlia dell’imperatore Federico I, celebrati il 5 dicembre del 1565.Il Cinquecento era tramontato portando con sé la memoria della propria magnificenza e la malìa teatrale del proprio cerimoniale; il Seicento, incipiente, faceva intravedere che il cambiamento di governo avrebbe comportato una trasformazione altresì della società e dei suoi costumi. Si è quindi destinato un capitolo all’epoca Pontificia. Infatti, non si deve pensare che Ferrara tornata in feudo alla Chiesa avesse perso il piacere della tavola delle portate succulente, delle svariate ghiottonerie, dei vini e delle specialità dolciarie. Johann Wilhelm Weinmann, Phytanthoza iconographia, Ratisbona, Hieronymus Lenzius, 1739, v. II, Tav. 277, la pianta del cacao - Biblioteca Ariostea (N. 10.8.14)E’ nel Seicento che l’arte della pasticceria raggiungerà vertici di ragguardevole raffinatezza, ed è il Seicento il secolo della creazione del pampapato, a base di cacao, come noi lo conosciamo. Tutto ciò diventa motivo per parlare della regina Cristina di Svezia e del suo soggiorno a Ferrara, tra il 22 e il 25 novembre 1655: le fonti riferiscono di straordinarie magnificenze per celebrare l’evento. Sontuosi ricevimenti si registrano altresì nel Settecento, secolo in cui si avverte il clima del cambiamento che fa presagire un’imminente rinascita, con il cardinale Tommaso Ruffo deputato alla Legazione tra il 1710 e il 1714 e tra il 1727 e il 1730, e con il cardinale Legato Agapito Mosca. Inoltre, nel XVIII secolo muta la concezione della letteratura gastronomica e gli eruditi ferraresi si esibiscono in composizioni poetiche che celebrano taluni cibi. Ed è in questo filone che s’inserisce la canzone intitolata “La Cioccolata” che l’arciprete centese Girolamo Baruffaldi (1675-1755), letterato di raffinato ingegno, si dilettò a comporre in lode delle virtù della gustosa bevanda che non rompeva il digiuno. In relazione alla moda di consumare la cioccolata si diffuse rapidamente la creazione di appositi servizi: mentrela Manifattura di Sèvres realizzava splendide cioccolatiere di porcellana decorate con raffinati motivi floreali e scene cinesi, gli orafi italiani e francesi ne cesellavano di altrettanto preziose in oro e in argento. A questo punto era legittimata la digressione storica sull’ingrediente principe del pampapato ferrarese: il “Cibo degli Dèi”, il cacao, dalle origini al suo arrivo in Europa e al suo diversificato uso.In questa disamina, e dopo aver attraversato i secoli per giungere al Novecento, non poteva mancare un capitolo sulla riscoperta dell’antica ricetta del Pampapato e alla sua produzione ai nostri tempi. E’ agli inizi del XX secolo che il pampapato ferrarese viene restituito alla sua città e alla sua gente. Il merito è da attribuirsi all’intraprendenza e all’abilità di un personaggio singolare, Guido Ghezzi, di origine milanese, che prima di giungere a Ferrara aveva lavorato per vari anni in Svizzera ove era divenuto conoscitore ed esperto raffinato nell’arte della lavorazione del cioccolato. Ghezzi nel 1902 aprì, nel cuore della città medioevale, il suo primo laboratorio dolciario che qualificò con l’acronimo FIS, Fabbrica Italo-Svizzera; negli anni a seguire, con il pampapato, ottenne riconoscimenti internazionali. Altro protagonista che ha contribuito sapientemente a far apprezzare e a diffondere il pampapato ferrarese fu Oddone Di Caro. Primo pasticcere, fin dagli anni ‘20 del Novecento, della FIS di Guido Ghezzi, fu l’ideatore della copertura del pampapato con cioccolato fuso: con questa geniale innovazione, Di Caro aveva creato l’immagine che del pampapato si esporta nel mondo.In conclusione la ricetta del Pampapato nelle case dei ferraresi per coloro che come le massaie di un tempo, che lo esponevano alla nebbia per conferirgli la tipica consistenza, desiderano realizzarlo. 

Il Pampapato nelle case dei ferraresi

Questa ricetta, risalente alla fine dell'Ottocento, è il risultato della trasmissione orale di laboriose massaie ferraresi. Giunta sino ai giorni nostri, si è pensato di riproporla dandole una forma scritta se non altro per conferirle dignità storica. Gentilmente concessa dal professor Germano Cervellieri, appartiene alla sua famiglia da generazioni.

Farina 1 kg.

Zucchero 600 gr.

Cacao in polvere 300 gr.

Pinoli 200 gr.

Mandorle 200 gr.

Canditi (cedro, arancia, e qualche frutto di mostarda) 200 gr.

Cannella in polvere 25 gr.

Lievito (carbonato d'ammonio) quanto basta

Caffè quanto basta per impastare (una variante era rappresentata dall'utilizzo del vino per amalgamare il composto)

Cioccolato fondente per la copertura

Dapprima preparare gli ingredienti da amalgamare al composto: leJohann Wilhelm Weinmann, Phytanthoza iconographia, Ratisbona, Hieronymus Lenzius, 1739, v. II, Tav. 278, la pianta del cacao - Biblioteca Ariostea (N. 10.8.14) mandorle tritate grosse, la frutta candita, di varie qualità, tagliata a cubetti, i pinoli lasciati interi, la cannella e mescolarli insieme. Predisporre la farina, a cratere, alla quale verranno aggiunti lo zucchero, il cacao in polvere, il lievito e il composto di spezie e canditi precedentemente preparato, poi impastare il tutto con il caffè la cui quantità sarà determinata dalla necessità. Ottenuta una pasta omogenea, suddividerla in più parti e modellarle fino a conferire la classica forma a zucchetto. Cuocere in forno. Una volta raffreddati i pampapati, andranno ricoperti con cioccolato fondente sciolto a bagnomaria. Esiste un'altra versione che prevede prima della cottura di cospargere la superficie con i diavulìn.

                

                

Bibliografia

Mirna Bonazza, Il Pampapato ferrarese. Leggende e storia di un dolce peccato di gola, Ferrara, Edisai, 2005                 

                             


Mirna Bonazza, esperta nella catalogazione dei manoscritti, è responsabile dei Manoscritti e Rari della Biblioteca Comunale Ariostea e dell’Archivio Storico Comunale di Ferrara.
Si è laureata in Storia Antica presso l'Università degli Studi di Bologna e in Lettere Moderne presso l'Università degli Studi di Ferrara. Ha conseguito il Diploma di Archivistica, Paleografia e Diplomatica pressola Scuoladell’Archivio di Stato di Modena.
E’ autrice di diverse pubblicazioni; ha tenuto lezioni e conferenze inerenti agli argomenti di studio e corsi formativi sulla catalogazione dei manoscritti e del loro applicativo Manus. Ha partecipato, nel maggio del 2016, al 66° Congresso Nazionale di Storia della Farmacia tenutosi a Firenze con il contributo dal titolo "L’Ortus sanitatis di Johann von Cuba nell’edizione di Magonza del 23 giugno 1491, per i tipi di Jacob Meydenbach. Prezioso incunabolo acquarellato conservato presso la Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara". E’ curatrice di mostre bibliografico-documentarie allestite presso la Biblioteca Ariostea, la cui ultima in collaborazione con Arianna Chendi dedicata ai cinquecento anni dalla pubblicazione della editio princeps dell’Orlando furioso dal titolo "1516-2016 Furioso da cinque secoli, ancora Orlando, per sempre Ariosto".
Fra le pubblicazioni più rilevanti si possono menzionare: ManuScripti. I codici della Biblioteca Comunale Ariostea, Ferrara, Litografia Tosi, 2002, con cui ha vinto, nel 2003, il I Premio nella Sezione Saggistica Autori Ferraresi dell’VIII Edizione del Premio Niccolini; ManuStatuta. I codici della Biblioteca Comunale Ariostea, Ferrara, Centro Stampa, 2008; Il Pampapato ferrarese. Leggende e storia di un dolce peccato di gola, Ferrara, Edisai, 2005.