I "tesori" della Biblioteca Panizzi. Maurizio Festanti
print this pageDei due termini che danno il titolo a questa serie di conversazioni - sapori e biblioteca - mi corre l'obbligo di confessare in via preliminare la mia più totale incompetenza rispetto al primo, essendo notoriamente del tutto ignaro di qualsiasi attività che si svolga in cucina, e rivendicare invece una qualche esperienza rispetto al secondo, non foss'altro che per gli oltre quarant'anni trascorsi a diretto contatto con il patrimonio librario e documentario della Biblioteca Panizzi.
Forte di questa esperienza, ho pensato di presentare una carrellata di immagini, dal medioevo ai giorni nostri, che illustrano, se non la ricchezza del nostro patrimonio, cosa che richiederebbe un discorso molto più ampio e articolato, almeno la varietà dei materiali conservati nelle nostre raccolte di storia locale, nelle quali si è sedimentata la memoria collettiva della nostra comunità. Unica eccezione il manoscritto che apre la "galleria", opera sì di un autore reggiano conservata però solo dalla fiorentina Biblioteca Laurenziana.
Parlando del patrimonio di una biblioteca, si tende istintivamente a far riferimento ai suoi “tesori”, a quei volumi, di solito codici e edizioni antiche, che danno lustro alla biblioteca stessa e che sono noti anche al grande pubblico per la loro preziosità e per il loro pregio storico-artistico. Si tende invece a trascurare quei materiali, non ha caso bollati come “minori” da una lunga tradizione, che pur non vantando le stesse ascendenze nobiliari, non solo hanno pari dignità culturale, ma sono spesso altrettanto rari, essendo sopravvissuti al grande naufragio della produzione popolare. Per questo, accanto ai manoscritti miniati ed agli incunaboli, scorreranno anche le immagini di volantini, di manifesti, di fotografie, di menù e di locandine.
Oltre alle immagini, per stuzzicare ulteriormente l'interesse e la curiosità, faremo ricorso, grazie alla collaborazione delle colleghe Elena Turci e Chiara Panizzi, anche alla lettura di brevi brani tratti dai documenti presentati.
Magister Barnaba de Regio. Compendium de naturis et proprietatibus alimentorum
Codice della fine del Trecento - inizi Quattrocento, Biblioteca Laurenziana di Firenze (Ms. Gaddiano, 209).
Medico reggiano, morto forse a Venezia verso il 1365, Barnaba de Reatinis esercitò la sua professione probabilmente a Mantova e certamente a Venezia; è noto soprattutto come oculista, per aver composto un trattato di igiene oculare (Libellus de conservanda sanitate oculorum, datato 1340). Ci ha però anche lasciato uno dei più antichi trattati conosciuti di scienza alimentare, datato 3 novembre 1338: non uno scritto originale, bensì un compendio di tutto ciò che in materia l'autore aveva potuto dedurre, per sua stessa ammissione, da Ippocrate, Galeno, Mesue e da altri medici arabi.
La pagina sulle carni dei porci domestici rappresenta una testimonianza della maturità scientifica cui l'autore era pervenuto e allo stesso tempo una prova dei suoi onesti propositi di compilatore che elenca gli argomenti secondo un approssimativo ordine alfabetico e di volta in volta li illustra minuziosamente, fornendo quanto serve per una consultazione rapida e agevole.
Si tratta di un’opera di divulgazione, redatta sulla base di auctoritates abbondantemente utilizzate e citate, ma allo stesso tempo originale, sia perché la volontà dell’autore è quella di adattare le conoscenze teoriche e universali alle realtà locali, in particolare dell’Italia settentrionale (vengono ad esempio citate alcune specialità di pasta fresca consumate a Venezia, a Mantova e a Reggio), sia perché è la prima volta che un trattato occidentale di dietetica segue un ordinamento alfabetico, adottato prima di allora in campo medico solo in qualche libro di semplici.
Trattati vari di astronomia e astrologia
Italia settentrionale (Emilia?), [1385-1450 ca.] Mss. Vari F 12
A c.71r, disegno acquerellato nella parte inferiore della carta con la raffigurazione delle attività tutelate da Saturno: un uomo che governa un aratro, uno che zappa e uno che pota un albero; in relazione a Marte: una cuoca e un fornaio.
Il volume comprende una silloge di testi a tema astronomico e astrologico, di autori diversi e trascritta da più mani, che per la gran parte è possibile far risalire alla fine del Trecento.
Di grande interesse, l'ultima parte del codice, che si può collocare nella prima metà del Quattrocento: soprattutto per il ricco e affascinante programma illustrativo. La serie delle scene segue questo criterio: per ogni astro (nell'ordine Saturno, Giove, Marte, Sole, Venere e Luna), su due carte affrontate, troviamo da una parte la raffigurazione del nato sotto il relativo influsso, dall'altra le attività tutelate;
La serie di illustrazioni figurate, gustose e di buon livello qualitativo, è collocabile in area padana, forse emiliana, e databile verso il 1430 – 35, come suggerisce – oltre che lo stile – anche la moda degli abiti.
Benedetto Reguardati. Opereta de la conservatione della Sanitade
[1468-1500 ca.]. Mss. Vari D 135
Benedetto Reguardati – o Benedetto da Norcia, come è anche conosciuto dal nome della sua città di origine – nacque nel 1398.[1] Il trattato è una sorta di dizionario alimentare in cui sono trattati in ordine alfabetico cibi e bevande. Dell’opera, che fu edita per la prima volta a Roma nel 1475, sono stati censiti 16 manoscritti.
Il nostro codice proviene da una delle biblioteche conventuali soppresse da Napoleone. E' interessante, oltre che per la materia in sé, per essere stato utilizzato come erbario, con la tecnica “a impressione”. Tra il Quattro e il Cinquecento, venne avviata una nuova metodologia per la realizzazione di tavole botaniche, quella della stampa con l'ausilio di una matrice naturale, ovvero la pianta stessa. Tale tecnica, dettagliatamente descritta anche da Leonardo nel suo Codice Atlantico (1510-1519), prevedeva di cospargere con nerofumo, prodotto da una candela accesa sotto un coppo, un lato della pianta che veniva, poi, pressata tra due fogli, lasciando la propria impronta. In alternativa, si poteva impregnare il campione con una sostanza colorante per poi pressarlo su fogli di carta.
[1] Studiò medicina e fino al 1427 insegnò all’università di Perugia; fu poi medico comunale ad Ascoli Piceno e, successivamente, esercitò la professione a Milano come medico dei Visconti, a Firenze, dove fu medico di Cosimo de’ Medici partecipò anche attivamente alla vita politica: fu governatore di Pavia, di Parma, di Pesaro e dal 1464 Consigliere Segreto del ducato di Milano. Solo negli ultimi mesi di vita lasciò Milano e si stabilì a Firenze, dove morì nel 1469. Di lui ci restano due opere: il De pestilentia e il Libellus de conservatione sanitatis, composto fra il 1427 e il 1430 e dedicato al prelato napoletano Astorgio Agnesi, vescovo di Ancona e Numana e poi governatore della Marca anconitana e infine cardinale.
Miscellanea scientifica
[1663-1730 ca.]. Mss. Vari B 145
Questo metodo di realizzazione degli erbari non ebbe grande diffusione, sia per l'inaffidabilità dell'impronta lasciata sulla carta, sia per le difficoltà e gli inconvenienti della stessa tecnica al confronto con i tradizionali metodi di stampa nel frattempo ampiamente avviati. L'uso degli erbari ad impressione sarà in uso fino al Settecento, come dimostra questo codice miscellaneo di cose scientifiche che comprende alle c. 146r-160v, anche un frammento di erbario a impressione.
Herbarius latinus
[Passau, Johann Petri, c. 1486]
4°, got., ill. Inc. E 55
Sempre in tema di “semplici”, di erbe medicinali, tra i nostri incunaboli sono presenti 2 erbari, uno dei quali sommariamente acquerellato, stampato in Germania verso il 1486, che da un lato sono una testimonianza del risveglio dell'interesse naturalistico che caratterizza la cultura umanistica, dall'altro testimoniano la loro funzione di manuali terapeutici molto usati, come dimostrano le numerose note manoscritte coeve.
Giovanni XXI papa, Thesaurus pauperum [in italiano]
Venezia, [s. n.], 2 novembre 1500. Inc. F 48
Il Thesaurus Pauperum è uno dei più importanti manuali di medicina dei secoli finali del Medioevo e della prima Età moderna. Fu composto intorno alla metà del Duecento, con ogni probabilità nel periodo in cui l’autore, Pietro Ispano, insegnava presso lo Studio Generale di Siena.[1]
L’opera è un prontuario, facile da consultare, con ricette che, dai capelli fino ai piedi, si occupano della cura delle malattie di ogni parte del corpo. La praticità del testo ne spiega la vasta diffusione nel corso di oltre quattro secoli: sono quasi 100 i manoscritti noti, compresi nel periodo tra la fine del Duecento e il Settecento, 81 edizioni, di cui la prima, in lingua italiana, fu stampata a Venezia nel 1494, e numerose traduzioni, tra cui in volgare siciliano, in lingua d’oc e in ebraico.
[1] Pietro Ispano, un uomo di scienza nato in Portogallo e divenuto Papa, con il nome di Giovanni XXI, nel1276 in un conclave tenuto nel palazzo papale di Viterbo. I documenti riguardo la vita di Pietro sono molto scarsi e non contribuiscono a definire le diverse figure che rispondono a tale nome. Il 14 maggio del 1277 fu colpito dal crollo del tetto di una parte dell’appartamento papale di Viterbo, morì sei giorni dopo.
Elena Turci legge da:
Govanni XXI papa (Pietro Ispano), Thesaurus pauperum, Venezia, 1500
Capitolo XI: A guarire lo male de denti
Se tu laverai il mese una volta il viso con lo vino cottovi la radice del turtumaglio tu guarirai e mai non harai male di dentiAnco poni, al dente che duole, sale confecto con pasta e arso al fuoco. Sana perfettamente.Item bolli in acqua la limatura del corno del cervo in pentola rozza e metti in bocca di detta acqua e mai non harai dolore de dentiAnco nelle orecchie che dal lato del dente che duole metti sugo di bieta e sugo del turtumaglio asinino: andarà via la dogliaItem se il dente è forato empilo di sterco di cervo e rompesi il dente e toglie la dogliaItem tocca il dente con la radice del giusquiamo, fortemente scaldata al fuoco, tosto caderà, ma guarda che non tocchi gli altri se no tutti caderanno.NotaTurtumaglio: ora titimalo, indica una serie di essenze estratte dall'euforbia.Paolo Fontana, Lode della theriaca d'Andromaco
Reggio, appresso Hercoliano Bartoli, 1578. 8 G 67/2
La teriaca (dal greco antico thériakè, cioè antidoto) è un preparato farmaceutico dalle supposte virtù miracolose di origine antichissima. Sebbene con molte variazioni di ricetta, questo elettuario è stato utilizzato per secoli, addirittura fino all’inizio del XX secolo.
Un esempio famoso è la "teriaca di Andromaco", medico di fiducia di Nerone che seguendo le indicazioni e i consigli del medico personale di Mitridate, re del Ponto ideò una nuova teriaca, comprendente anche la carne di vipera, dato che in base alle credenze dell'epoca, un animale velenoso avrebbe dovuto possedere all'interno del suo corpo anche l'antidoto. La sua composizione ha avuto delle variazioni nel tempo, trasformandosi da rimedio contro i veleni a rimedio per combattere numerose malattie.
Le teriache del XVI, XVII e XVIII secolo erano fondamentalmente composte da 54 (o forse 57) ingredienti diversi, tra cui: carne essiccata di vipera (elemento primario), valeriana, oppio, pepe, zafferano, mirra, malvasia, polvere di mummia e anche angelica, centaurea minore, genziana, incenso, timo, tarassaco (componenti amari), matricaria (elementi sedativi), succo d’acacia, potentilla (componenti astringenti), miele attico, liquirizia (addolcenti), finocchio, anice, cannella, cardamomo (elementi carminativi), aristolochia, opoponax (elementi fetidi), scilla, agarico bianco (componenti acri), vino di Spagna.
A dare un’idea di quali e quante fossero le indicazioni della teriaca basta questa lista relativa ad un solo tipo di teriaca in uso in Francia alla fine del Seicento: morso o puntura di animali velenosi, peste, varicella, morbillo, dissenteria, colera, coliche, mal di stomaco, indigestioni, dolori uterini, e articolari, febbri, paralisi, epilessia, ictus cerebrale, impotenza sessuale.
L’uso della teriaca continuò trionfale fino almeno alla metà dell’Ottocento figurando in testa alle hit dei farmaci ufficiali. Nella Repubblica di Venezia veniva preparata una volta l’anno con una pomposa cerimonia alla presenza dei Priori e dei Consiglieri del medici, e a Bologna dinanzi al popolo e alle massime Autorità nel cortile dell’Archiginnasio.
Capitoli, et ordini nuovamente fatti, et ordinati da gli mag. antiani della città di Reggio in moderatione così del pomposo vestire come del disordinato pasteggiare.
Parma, appresso Seth. Viotto, 1550.
Le finalità di queste leggi suntuarie erano quelle di impedire che l’eccessivo lusso nel vestire e nell’allestire sfarzose cerimonie rischiasse di intaccare i patrimoni delle famiglie in vista e di porre un freno alle ostentazioni degli emergenti che tendevano ad imitare i consumi delle classi elevate. Così all’artigiano arricchito non era consentito di vestire di seta e d’oro ed il “villano” doveva differenziarsi anche esteriormente dal cittadino.
Elena Turci legge da:
Capitoli et ordini … in moderazione del pomposo vestire come del disordinato pasteggiare…., 1550
DELLI CONVITI
Ancora volendo provvedere alle superflue ed eccessive spese che si fanno nelli conviti e banchetti, per le quali si provoca l'ira di Dio sopra di noi, si nuoce all'anima e al corpo, e si consumano le facoltà, SI COMANDA che alcuno, oltra gli antipasti di latti, di vitelli e fegati di vitelli, o d'altri animali domestici, gli quali si concedono, non ardisca di dare più di tre sorti di vivande di lesso e tre d'arrosto, tra quali si concede una sola sorte di selvaticine, pur che non sia di Pavone o Faggiano, gli quali si proibiscono; né anco possi dare più d'una sorte di torta: e questo sotto pena di dieci scudi.Ma nelle nozze e nello alloggiare o convitare forastieri, che siano personaggi di valore, si concede alli censori che saranno deputati di tempo in tempo, che considerate le qualità delle persone, possano dar licenza d'eccedere l'ordine soprascritto, secondo che a loro parerà onesto e conveniente.Giacomo Zanoni, Istoria botanica
Bologna, per G. Longhi, 1675
Tra i grandi botanici del Seicento, definito come il miglior botanico del suo tempo, vi è anche una gloria reggiana: Giacomo Zanoni (1615-1682) di Montecchio. Fu prefetto dell’Orto Botanico di Bologna per 40 anni, dal 1642 al 1682, e perfezionò il metodo di essiccazione delle piante destinate agli erbari, studiandone inoltre una migliore nomenclatura. La sua Istoria Botanica pubblicata in tarda età, è corredata da numerose tavole di grande eleganza che forniscono un'immagine molto precisa dei vegetali raffigurati. Il frontespizio allegorico, raffigurante le 4 parti del mondo e, sullo sfondo, un'ampia visione dell'orto botanico bolognese, intende sottolineare l'universalità del catalogo di piante realizzato dall'autore.
Carlo Luigi Bertozzi, Indice di alcuni semplici.
1682; Mss. Turri F 113
Per realizzare questo erbario, composto da una cinquantina di campioni, è stato usato al posto del nerofumo come nei casi precedenti un impasto contenente anche sostanze verdastre che, mimando il pigmento clorofilliano, cercano di restituire un'immagine naturalistica. La cospicua quantità dell'impasto utilizzato per l'impronta produce anche un effetto a rilievo.
Libro contenente la maniera di cucinare, e vari segreti, e rimedi per malattia et altro [1701-1800 ca.]; Mss. Vari E 177
Il manoscritto della famiglia Cassoli costituisce un significativo esempio di ricettario di tradizione familiare o "libro di casa" ed è costituito da una raccolta di istruzioni pratiche per la vita quotidiana e l'economia domestica, dove, accanto alle ricette culinarie, non mancano anche quelle mediche o le istruzioni per i lavori domestici.
I due indici rendono bene la struttura del manoscritto: una prima parte dedicata alle "Materie per uso della cucina" ed una seconda relativa a "Segreti, Rimedi et altro". La prima comprende ricette di una cucina basata su alimenti locali: molto diffuse le carni bovine e degli animali da cortile, assieme alle verdure della tradizione di pianura. Alla seconda appartengono le istruzioni per preparare rimedi, unguenti e medicamenti per le più diverse malattie, oppure formule per preparare cosmetici, per dorare metalli, per lavare calze di seta o per togliere le macchie d'inchiostro.
Filippo Re (1763 - 1817)
Al nome di Filippo Re, il "principe degli agronomi italiani" che diede un contributo decisivo allo sviluppo delle scienze agrarie ed al rinnovamento dell'agricoltura italiana, sono legate importanti testimonianze conservate presso le istituzioni culturali della nostra città.
In primo luogo, il fondo manoscritto intitolato alla famiglia dei conti Re che tra Otto e Novecento è affluito in vari momenti e con provenienze diverse nei depositi della Biblioteca Panizzi. Si tratta di circa 200 manoscritti e 150 fascicoli di corrispondenza che, seppure legati anche ad altri membri di questa importante famiglia dalle lontane origini lombarde, costituiscono una fondamentale documentazione a più voci sulla vita e sull’opera del grande agronomo reggiano.
Gli autografi delle opere di agricoltura e di “economia campestre”, i documenti del periodo bolognese, le quasi cento lettere inviate alla cognata Caterina Busetti che costituiscono una vera e propria “autobiografia epistolare”, gli studi e le ricerche sulla poesia didascalica georgica, le indagini sullo stato dell’agricoltura nel territorio reggiano, infine la corrispondenza con botanici, scienziati, intellettuali, non solo italiani, ci forniscono un ritratto di uomo di scienza ed educatore profondamente partecipe delle vicende del proprio tempo, che fa di Filippo Re una figura di rilievo nel panorama del riformismo illuminista europeo del secondo Settecento.
Un’altra importante testimonianza della passione scientifica di Filippo Re è costituita dall’erbario, da lui raccolto probabilmente in età giovanile, che comprende circa 8.000 esemplari di oltre 5.500 specie vegetali, applicati su fogli ed oggi conservati presso le raccolte naturalistiche dei nostri Musei civici.
Filippo Re, L'ortolano dirozzato
Milano, Giovanni Silvestri, 1811, 2 volumi
In quest'opera Filippo Re fornisce le più aggiornate conoscenze in materia di coltivazione degli orti, fornendo innanzitutto un dizionario che renda intellegibili ad ognuno i diversi vocaboli impiegati per definire una pianta e gli strumenti agricoli, spesso definiti con nomi diversissimi nelle diverse parti d'Italia, poi i principali precetti per le buone pratiche, dalla concimazione alla seminagione.
Antonio Re
Fratello di Filippo, Antonio Re è figura di notevole interesse anche per quanto riguarda il tema oggetto del nostro incontro. Quasi tutti gli intellettuali e tra essi molti di coloro che avevano occupato posizioni di rilievo nel Regno d’Italia napoleonico transitarono nel nuovo regime senza particolari drammi interiori (Giovanni Paradisi, già Presidente del Senato, fu tra i pochi ad appartarsi in un dignitoso silenzio). Antonio Re era stato con lo stesso Paradisi uno dei protagonisti della rivoluzione del 1796, tanto da subire il carcere al breve ritorno delle truppe austro-russe nel 1799. Nel Regno d’Italia ebbe importanti cariche pubbliche a Milano. Al ritorno del Duca ricoprì la carica di Governatore. Proprio per aver mostrato di servire con disinvoltura molte bandiere fu fatto oggetto di salaci satire. Una è rimasta famosa. Quando scoppiò nel 1816 il tifo, il Governatore fece pubblicare un avviso che, nel tentativo di minimizzare la cosa, negava l’esistenza stessa dell’epidemia. Quando però ne morì suo fratello, il noto botanico Filippo Re, si diffuse un caustico epigramma.
Antonio Re, Ricette d'arte culinaria.
[1781-1800 ca.]; Mss. Regg. D 87/14
Il nostro interesse per Antonio Re in questa sede è dovuto alla presenza, tra i suoi manoscritti, di uno scritto di culinaria che comprende circa 200 ricette tratte quasi tutte dai manuali di cucina dell'epoca, a fianco delle quali Antonio Re aggiunge “riflessioni” e “note” personali con varianti e avvertenze particolari. Altre ricette sono invece originali, come ad esempio quella degli intrigoni.
Elena Turci legge da:
Antonio Re, Ricette d'arte culinaria
Intrigoni
Uova 2, zucchero once 3, vino bianco dolce once 5. Farina quanto basta per pasta da tagliatelli, cioè circa once 19.Dibatti bene le uova collo zucchero, poi aggiungi il vino e mesci bene. Incorporavi molta pasta di farina col mestolino. Cava e fa pasta col resto, maneggiando a vessica.Stendi pastella da tagliatelli, e taglia gl'intrigoni, cui friggerai ad uno ad uno, servendoti di un bacchetto ad operare.Lo strutto sia bollente, e proverai con ritaglio. Il colore sia di nanchino o biondo dorato o sauro. Ponno crudi stare del tempo prima d'esser fritti, e sino 24 ore dopo fatti.Note:nanchino [dal nome della città cinese di Nanchino (donde veniva importato)].Tipo di tessuto di cotone di colore chiaro di gran moda, per i pantaloni estivi, nel sec. XVIII color sauro [dal nome del mantello del cavallo]= rossastroLa cuciniera maestra, ovvero metodo facile per cucinare esposto chiaramente, con l'aggiunta di ricette per la compilazione di liquori e per la conservazione dei cibi
Reggio Emilia, Leopoldo Bassi Edit., 1884
Occorrerà aspettare la seconda metà dell'Ottocento perchè anche Reggio abbia la sua "cuciniera" a stampa, come già altre città italiane: la cuciniera piemontese è ad esempio del 1798, quella bolognese del 1874, mentre risale al 1864 La cuciniera universale ossia l'arte di spendere poco e mangiar bene secondo il metodo delle cucine triestina, milanese, veneziana, piemontese, tedesca, francese, inglese, spagnuola, turca, cinese, americana, ecc. ecc.
L'opera, che riscosse un notevole successo, dal momento che giunse alla quarta ristampa, si articola in 4 parti:
1 – Modo di cucinare alla reggiana, con 100 ricette tipiche della vecchia cucina reggiana;
2 – Sistemi diversi di cucinare con economia, con 176 ricette di cucina “povera”;
3 - Ricette per comporre varie qualità di liquori, con 46 ricette;
4 – Ricette relative alla conservazione dei cibi e altro, con 43 ricette.
Menù della Pasticceria Nazzani 7 gennaio 1897
Nella città del tricolore non poteva mancare un riferimento alle storiche celebrazioni del primo Centenario del Tricolore festeggiato a Reggio il 7 gennaio 1897 con una celebre orazione di Carducci. Altrettanto celebre, almeno a Reggio era la Pasticceria Nazzani che portava il nome del suo fondatore, Romualdo Nazzani, e che era uno dei ritrovi dei notabili della città. Nella pasticceria prestavano la loro opera dei maestri pasticceri sia reggiani sia provenienti da varie parti d'Italia, ed è in questa pasticceria che nacque uno dei dolci più tradizionali della cucina reggiana: il Biscione, un impasto di pasta di mandorle, spolverato con chiaro d’uovo e zucchero a cui viene data la forma di un drago con le fauci aperte che ai reggiani richiama storicamente il Natale.
Gli arredi della storica pasticceria, decorati dal pittore Cirillo Manicardi (pannelli con Putti e frutti, 1901), sono stati conservati e sono ancor oggi visibili nella hall e nel bar dell'Hotel Posta.
Società del Pito
La "Società del Pito" era un sodalizio borghese sorto nel 1885 con finalità ludiche e conviviali che raccoglieva i notabili reggiani più in vista con l'intento di promuovere nei retropalchi del Teatro Municipale e nei ristoranti reggiani banchetti e conviti a base di buona carne di tacchino. I soci fondatori erano 27 (che saliranno poi fino ad una sessantina), tra cui Naborre Campanini, il barone Raimondo Franchetti, Cirillo Manicardi, Giuseppe Menada, Alfonso Terrachini ed altri notabili che daranno poi vita alla Grande Armata, l'associazione che contenderà il governo locale ai socialisti, riuscendo a sconfiggerli nel 1904, fino al 1907.
Elena Turci legge e canta:
Il pito
Fui un Pito, fui un Pito / che da Spagni fui nutrito / con la man che m'ha colpitoEgli già fin da l'agosto / meditava ad ogni costo / di mangiarmi cotto arrosto.Onde sempre, andando a spasso, / si fermava a ciascun passo / per pesarmi addosso il grasso.Ma sei giorni m'ha lasciato / senza penne, nudo nato / fuori a l'aere ghiacciato,Tanto che se in quell'algore / non ho preso il raffreddore, / fu un miracol del Signore,e il miracolo fu questo, / che da vero Pito onesto / ero morto prima e presto.Quando ei tenne la parola / e impiccato per la gola / mi compose in casseruola,Sul fornello appena giunto / mi dicea, mestando l'unto / “Nulla vale un Pito al punto!”Con quest'unico lamento / temperava il mio tormento / d'arrostire a fuoco lento,e se ancor mi piange adesso, / gli è che pensa tra se stesso / s'ero meglio cotto a lesso.Suoni dunque estremo vale, / ne la marcia funerale, / questa massima fatale:Quando un Pito, grasso e sano, / è cascato a Spagni in mano, / può cessar di far l'indiano.Grande Gara Scarpazzonesca Manifesto, 1905
E' una sorta di Festa dell'Unità ante litteram quella che vede protagonista una tipica specialità gastronomica reggiana: l'erbazzone, o, italianizzando alla meglio il termine dialettale, lo scarpazzone, che in questo curioso manifesto del 1905 è fatto oggetto di una "nobile gara culinaria" tra le cooperative reggiane di San Maurizio, di Ospizio e di Cavazzoli.
Con questo proclama dai toni goliardici è indetta una "grande gara scarpazzonesca" per domenica 23 aprile da Augusto Curtini, amministratore socialista che per l'occasione veste i regali panni di "Augusto I° di Guascogna discendente dal ramo cadetto dei principi Spazzapiatti", per decidere in quale delle tre cooperative in lizza si cucini la migliore "torta erbacea designata sotto il nome di scarpazzone - erbaceum et ricotaceum scarpazzonum". La gara è infatti solo un divertente pretesto per una festa popolare a sfondo politico. In una nota manoscritta, il giornalista socialista e storico della cooperazione Manlio Bonaccioli, che ha conservato tra i suoi "Regiensia" questo rarissimo documento, avverte infatti che "si trattava di una delle solite gite gastronomiche (che servivano anche a richiamare gente alle cooperative) promosse dalla Camera del Lavoro".
In chiave politica dunque l'erbazzone, il prodotto forse più caratteristico della cucina povera delle nostre campagne, assurge quasi a simbolo di una mensa proletaria idealmente contrapposta alla convivialità borghese, ben rappresentata all'epoca dalla "Società del Pito".
Elena Turci legge da:
Grande gara scarpazzonesca
23 aprile 1905NOI
Augusto I di Guascognadiscendente dal ramo cadettodei prìncipi spazzapiatticonsiderato che ai tempi dei Romani lo stomaco rappresentava una delle più sacre e venerate istituzioni della vita sociale e che Gioacchino Rossini preferiva i maccheroni farsiti al mistero della Santissima TrinitàdecretiamoARTICOLO UNICODomenica 23 aprile 1905 è aperto una nobile gara culinaria fra le cooperative di san Maurizio – Ospizio – Cavazzoli per un esperimento pratico sull'arte di confezionare la magnifica torta erbacea designata sotto il nome di scarpazzone – erbaceum et ricotaceum scarpazzonum.Quello degli stabilimenti cooperativistici che saprà estollere sugli altri nella confezione del pisto, nell'arricciare la pasta e nel rosolare al forno il tutto, sarà premiato con speciale diploma d'onore stampato sopra carta da imballaggio colla sigla imperiale. Si affida ai gerenti delle suddette 3 cooperative l'incarico di disporre ogni cosa per la solenne esperienza.
Nota importante: Una balda schiera di uomini di risoluti propositi partirà alle ore 3 pomeridiane dal caffè Roma – via Farini – in pio pellegrinaggio, debitamente investita dei poteri indiscrezionali, per stabilire con equanimi diligenti e perspicaci raffronti, e con sapienti degustazioni i caratteri specifici e le virtù dei singoli prodotti e pronunciare con piena cognizione di causa il giudizio inappellabile.
Orario: Si fa obbligo assoluto ai signori concorrenti di organizzare il servizio in modo che lo scarpazzone esca dal forno rispettivamente alle seguenti ore:
San Maurizio: ore 3 ½Ospizo: ore 4 ½Cavazzoli: ore 6
Avvertenza: Possono far parte della giuria tutti colore che presenteranno domanda al comitato, accompagnata da certificato medico che comprovi la regolarità delle loro funzioni corporali.
Il presente annuncio vale quale invito personale per partecipare all'esperimento.
Locandina di “Simultanina”
Teatro Ariosto, 1931
Questa rarissima locandina preannuncia la rappresentazione al Teatro Ariosto il 21 giugno 1931 della commedia di Filippo Tommaso Marinetti intitolata Simultanina, portata in tournée nei teatri italiani dalla Compagnia del Teatro Futurista e accolta di solito da urla, fischi, lancio di ortaggi accompagnavano la recitazione e le danze, trasformando spesso la platea in una bolgia di schiamazzi che rendevano difficoltoso anche l'ascolto delle parole e della musica.
Il “Divertimento Futurista” marinettiano, suddiviso in “16 Sintesi” di parolibere e di aerodanza, metteva in scena le vicende di una giovane donna corteggiata da sei spasimanti, personificazione di alcuni modelli dell'universo futurista: il Buongustaio, lo Sportivo, il Professore poeta, il Dongiovanni pubblicista snob, l'Arruffatore e il Bibliofilo. Nell’atrio del teatro, opportunamente profumato con il “Giacinto innamorato” di Giviemme, era allestita una mostra di aeropittura, mentre nel corso della rappresentazione il Buongustaio avrebbe rivelato “ai più ghiotti spettatori una vivanda futurista che sbaraglierà il rito della Pasta asciutta”. Al termine era previsto “un eventuale contradditorio”.
Nel breve resoconto del giorno successivo la serata è descritta come meno turbolenta e agitata di quanto ci si poteva aspettare: “Il pubblico educatissimo ha ascoltato con buona volontà e con attenzione […], ma a spettacolo finito ha dimostrato che il divertimento marinettiano non l’aveva divertito e lo ha dimostrato apertamente. Qualcuno ha chiesto spiegazioni e delucidazioni, queste sono state fornite dal Sig. Escodamè, ma il pubblico non è rimasto molto persuaso ed ha finito per prendere la cosa in ridere e fare un po’ di innocente baccano”.
Menù per una grande abbuffata.
Testi di Marco Ferreri, Ugo Tognazzi, Cesare Zavattini.
Disegni di Emanuele Luzzati. Incisioni di Orfeo Tamburi, Ernesto Treccani, Sebastian Matta,
Cesare Zavattini, Domenico Purificato.
Roma, Ed. Cigno, [1982]. (ART G 52)
Tutti ricorderanno il film di marco Ferreri La grande abbuffata del 1973 con Tognazzi, Mastroianni, Michel Piccoli e Philippe Noiret. Si ispira a questa celebre pellicola lo straordinario libro d'artista che Cesare Zavattini ha realizzato con la collaborazione di Marco Ferreri e Ugo Tognazzi per i testi, di Emanuele Luzzati per l'illustrazione e degli artisti Orfeo Tamburi, Ernesto Treccani, Sebastian Matta, ognuno dei quali ha creato un'incisione ispirata al tema.
E il tema, come spiega Tognazzi, noto cultore dell'arte culinaria, è quello di creare appunto un menù per una grande abbuffata.
Elena Turci Legge da:
Menù per una grande abbuffata. Testi di Marco Ferreri, Ugo Tognazzi, Cesare Zavattini. Disegni di Emanuele Luzzati. Incisioni di Orfeo Tamburi, Ernesto Treccani, Sebastian Matta, Cesare Zavattini, Domenico Purificato. Roma, Ed. Cigno, [s.a.].
Elena Turci è laureata in Lettere moderne all'Università degli studi di Bologna con una tesi sulla Toponomastica storica della bassa pianura reggiana. Ha studiato clarinetto all'Istituto musicale A. Tonelli di Carpi e ha conseguito il diploma di teoria e solfeggio nel 1985. Dal 1993 lavora alla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia curando la gestione del servizio prestiti librari e i rapporti con l’utenza, seguendo il servizio di iscrizioni e di informazione.Da quattro anni studia canto con la soprano Loredana Bigi: a giugno ha sostenuto l'esame finale di canto e a settembre concluderà il corso degli studi (diploma di animatore liturgico) presentando una tesi sul canto gregoriano coi bambini, progetto realizzato lo scorso inverno con le due classi quinte elementari di San Martino in Rio.Canta come soprano da quasi vent'anni nel coro diocesano e dal luglio del 2014 canta (solista e corista) nella corale della Cappella musicale di san Francesco da Paola diretta dal maestro Silvia Perucchetti. Da 15 anni è inoltre redattrice della rivista “Celebrare Cantando” che si occupa della promozione del canto e della musica liturgici.