Viola Zanini, Della architettura ... 1629

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Della architettura di Gioseffe Viola Zanini padouano pittore et architetto. Libri due ne’ quali con nuoua simmetria, & facolta si mostrano le giuste regole dei cinque ordini di detta architettura, & osseruationi de’ piu eccellenti architetti, che in quella habbiano dato ammaestramenti ... In Padoua : appresso Francesco Bolzetta, 1629



Questo trattato di architettura è probabilmente l’ultimo in ordine cronologico della grande stagione rinascimentale: a lungo giudicato severamente o addirittura dimenticato dalla critica, solo di recente se ne è colto il valore innovativo e pionieristico di manuale a carattere tecnico-pratico, intimamente legato alla civiltà costruttiva veneta, e in particolare padovana, del primo Seicento.

L’autore, Giuseppe Viola Zanini, fu abile cartografo, pittore quadraturista ed architetto. Apparteneva ad una famiglia di costruttori: il nonno era muratore e il padre ebbe incarichi edilizi nella città di Padova negli ultimi decenni del Cinquecento; è lecito quindi presumere che l’apprendistato di Giuseppe sia avvenuto lavorando presso il padre. Ma il vero mentore di Viola Zanini sembra sia stato il nobile padovano Vincenzo Dotto (1572-1629), un personaggio molto interessante anche se tuttora poco studiato: esperto geografo e cartografo, Dotto fu anche un notevole architetto, autore di varie opere a Padova e nel territorio, dove mostra di saper coniugare schemi palladiani e stilemi seicenteschi. 

La prematura scomparsa di Viola Zanini, che dovette operare nei ranghi intermedi dell’attività edilizia, con ogni probabilità ne stroncò agli esordi la futura carriera di architetto, che egli si era finalmente aperto proprio grazie alla pubblicazione del trattato e dunque, diversamente da quelli di Palladio e Scamozzi, l'opera non condensa le conoscenze teoriche e pratiche maturate dopo una lunga esperienza: vi manca infatti, oltre all’illustrazione delle antichità, anche l’esposizione di eventuali progetti e realizzazioni dovuti all’autore.

L’opera –edita anche per incitamento di Vincenzo Dotto– è divisa in due libri (ne erano previsti tre): il primo è dedicato ai materiali e alle tecniche costruttive, il secondo alla teoria e alla pratica dei cinque ordini dell’architettura. Relativamente modesto, per quantità e qualità, è l’apparato illustrativo, consistente in novantatré tavole xilografiche.

Al primo libro –dopo la dedica, la prefazione e la tavola dell’indice analitico– è premesso un curioso cenno sulle origini dell’architettura, seguito da due succinte trattazioni dei principi della geometria e della prospettiva, desunti dalle desunti dalle opere di Sebastiano Serlio, Daniele Barbaro e Cristoforo Sorte: interessante è però la descrizione dell’utilizzo della prospettiva nell’ideazione delle quadrature per i soffitti delle sale, che prevede anche la soluzione a punti di fuga multipli.

Particolarmente importante è il primo libro di Viola Zanini dedicato al magistero costruttivo del suo tempo, argomento che anticipa la letteratura tecnica che si andrà affermando proprio nel corso del Seicento: interessanti sono ad esempio le considerazioni statiche sulla forma degli archi e sull’impiego dei tiranti metallici, oppure l’esposizione delle modalità di assemblaggio di centine e capriate lignee, di esecuzione di pavimenti in terrazzo veneziano, di intonaci a marmorino, di coperture a lastre di piombo, e così via.

Il contenuto del secondo libro, ispirato alle teorie di Vitruvio, Alberti e Palladio, costituisce in verità una stanca ripresa della precettistica degli ordini: il sistema esposto da Viola Zanini venne preso in considerazione, sottolineandone debiti e limiti, dal francese Roland Fréart de Chambray, che lo mise a confronto con quello dell’Alberti e degli altri maggiori trattatisti del Rinascimento nel suo Parallèle de l’architecture antique et de la moderne (Paris 1650).

Il trattato di Viola Zanini ebbe un’ampia diffusione: ne accennano nelle loro opere, spesso però con giudizi molto critici, tra gli altri Guarino Guarini (1678), Alessandro Pompei (1735), Francesco Milizia (1785) ed Angelo Comolli (1792); il primo ad esprimere un pieno apprezzamento del trattato del padovano fu invece, inaspettatamente, il neoclassico Leopoldo Cicognara (1821), che lo giudicò “ripieno di ottime nozioni in ogni teoria, e in ogni pratica dell’arte”.

Sul frontespizio il timbro del Regno d'Italia e sulla controguardia anteriore, la nota di possesso col progressivo, del Dono Minich.

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