Slataper (1909)

Fonte:
Scipio Slataper, Lettere triestine. II. Mezzi di coltura, «La Voce», 1, n. 11 (25 febbraio 1909), p. 43.

«Gran maestro il passato! Un po’ troppo cattedratico, troppo laureato, troppo barbogio; ma un gran maestro. Trieste non lo ha: se il suo presente vuol istruirsi deve esser autodidatta: una virtù che le città del regno in generale, non posseggono. E Trieste la possiede. Ma studiamo i libri di cui si serve, per comprendere la sua coltura. [...]
A Trieste ci sono questi mezzi di coltura: istituti comunali: la biblioteca (con archivio storico), il museo artistico, d’antichità (e lapidario), di scienze naturali, l’università del popolo, le biblioteche circolanti. Società: il «Gabinetto di Minerva», il «Circolo di studi sociali», l’«Esposizione permanente», il «Teatro popolare». [...]
Biblioteca. Dal Museo di storia naturale ad essa pare ci dovrebbe essere per precauzione un gran salto. Invece a Trieste la stretta parentela dell’alcool con la carta è separata solo da un soffitto: nel terzo piano quello, nel secondo questa. Al primo poi e al pianterreno due scuole: la nautica e commerciale. I cui scolari, alle scampanellate lunghiecheggianti del riposo, rispondono, naturalmente, con chiassate altisonanti e scalpiccii e corse.
Se siete novellini non vi dovete spaventare: v’assicuro che gli studiosi nostrani si sono già assuefatti. Il Museo di storia naturale ha o dovrebbe avere il pesciolino senz’occhi delle grotte; certo la biblioteca possiede il topus librarius senz’orecchie. Legge di Darwin in azione, cari miei: è un altro termine di affinità tra i due istituti. Ma insomma entriamoci. Non sentite più per il rintronamento? Meglio: la vista vi sarà testimonio più attendibile che l’udito. Soltanto: quella zampogna dipinta in oro, nel muro, alla vostra sinistra, è l’etichetta dei fondatori: gli arcadi romano-sonziaci trasferitisi da Gorizia a Trieste.
Poche date di lor vita accademica: 1793 nascita; 1796 agonia, non confortata da ossigenazioni, e testamento: le loro raccolte di antichità, di storia naturale, di libri passano al comune; nel 1809 morte. L’eredità però agisce come spinta propulsiva per i musei e la biblioteca. La quale si forma sul nucleo iniziale (2735 opere) per merito, quasi assoluto in principio, di Domenico Rossetti, che l’aumenta delle sue collezioni: bellissime, massime la petrarchesca e la piccolominea. E così, con i lasciti qualche volta ricchi e importanti di molti altri cittadini, con le opere stampate nella nostra regione (copia d’obbligo), con l’assegno annuo, piccolino o grandetto che si voglia, del comune, con le riviste di scambio dell’Archeografo triestino, che la società «Minerva» le dona, la raccolta arcadica diventa biblioteca discreta, se non sufficiente, capace di utilità, se non utile.
Perchè essa è – mi servo di sintesi triestina – in malora. No, niente giudizi: guardate!
Un’anticamera con due panche e due tavoli, dove l’acqua d’inverno può gelare senza riguardi: è la prima sala. La seconda, vera, eccola qui: grande come un’aula scolastica; tre tavoli con trenta sedie; un banchetto di quelli per scrivere in piedi, sostenente i cataloghi: la metà circa delle lettere dell’alfabeto; due scaffaloni murali di enciclopedie e dizionari e traduzioni non prescritte dei classici prescritti nei ginnasi e licei; vicino al tavolo della consegna e della riconsegna uno scrittoio per il vice bibliotecario; dall’altra parte, in fondo, il tavolino dell’impiegato per i prestiti; un’altro [sic] accanto che funziona come può da sala di studio, dietro al quale sta una libreria. Una stufa; sui muri grigi, nerastri, neri, attaccapanni, due o tre incisioni e – auf! – ho finito.
Anche di ridere: è una cosa troppo seria l’aria di me ne impippo con cui Trieste butta un’occhiatina alla sua biblioteca e tira via facendo spallucce. I rappresentanti amministrativi della città si occupano se mai di coniglicoltura, come facente funzione della poca carne bovina; ma neanche per aberrazione di sogno capiscono che a rendere meno dannosa la mancanza di coltura passata bisogna favorire in tutti i modi quella che potrà essere. Altro che conigliuzzi di là da venire (per i ventri affamati, è vero)! Ma soprattutto qualche cosa di più che continua dimostrazione d’incuria a uno spirito già di per sè incurante; e discorsi agrucci contro le costrizioni politiche che veramente ci strozzano il respiro! Coltura! questa non ce la possono più impedire. Ebbene? hanno dato alla biblioteca un direttore: Attilio Hortis; le votano il sostentamento annuo, poi... braccia incrociate e orecchie tappate. Sicchè i libri, per mancanza di spazio, sono accumulati alla rinfusa negli angoli, sotto le tavole, nei vani delle finestre: chi li trova? e, trovati, in che stato di conservazione!; sicchè uno non può studiare in pace per il cicaleccio – interno questo! – degli studenti traduttori: è una sola la traduzione stampata in voga, e tanti i bisognosi! Onde si dispongono in giro: uno legge, gli altri ascoltano, interrompendo di tratto in tratto con commenti, discussioni facezie. Ancora: regnando sovrana l’incuria, tignola massima delle biblioteche, molti libri non si trovano più. Chiedevo due anni fa l’opera di Angelo Solerti sul Tasso: il primo volume era in prestito, il secondo no, ma neanche in casa. Onde una scena amenissima e tristissima fra l’impiegato e il distributore: – Dev’esserci! – Non c’è. – Lo cerchi. – (Dopo un poco): – L’ho cercato: non c’è. – Ma dev’esserci. – Non c’è. – E allora vuol dire... che non si trova.
La catalogazione fiaccona e frammentaria: tutte le opere di storia patria e molti lasciti hanno catalogo autonomo, senza cenno nel generale. Ci sono è vero – lusso che poche biblioteche si permettono – gli schedari per materia; ma è lusso d’orpello, quasi sempre: fatti con poca intelligenza e con pochissima diligenza. Si presta un’opera sola, per un solo mese: anche molti romanzi e robicciole in voga; si distribuiscono libri non ancora legati. Per quel che riguarda l’intrusione politica dello Stato è eloquente il fatto che non si potevano avere, nel periodo in cui erano sequestrate, le poesie del Carducci, nè ancora quelle del Mameli, gli scritti di Mazzini...
Ma due cose specialmente dimostrano e spiegano le condizioni della nostra massima istituzione di cultura: il modo della distribuzione e il criterio delle compere. S’entra e s’esce indisturbati, senza nessuno schedino o lascia passare; si scrive su d’un fogliettucciaccio (non stampiglia) il numero desiderato, a cui bisognerebbe aggiungere per regolamento, ma non per consuetudine di molti, il proprio nome e la data.
E tutti onesti, sì, va bene: ma se uno si mette in tasca il libro, la biblioteca non ha neanche la compiacenza di non avergli offerta l’occasione. Davvero che ne mancano troppo pochi, a questi lumi di luna e con coteste garanzie!
Il criterio con cui si comperano i libri è l’assenza di criterio. Le case editrici mandano quello che credono: è sempre, si capisce, il più buono! il bibliotecario tiene o respinge. O il vicebibliotecario.
Perchè Attilio Hortis è stato sempre occupato in cose che non riguardano la biblioteca, come ente da far prosperare. È un uomo tale che non ha bisogno di lodi: la sua fama è basata su opere salde. Ma non è atto per essere bibliotecario, benchè possieda la più ampia coltura bibliografica. È un letterato: la sua attività migliore fu dedicata ai suoi studi. Furono e sono sul Petrarca, sul Piccolomini, su Trieste? E tali da onorare la nostra città? Bene: anche per la Biblioteca: accrebbero d’importanza e di numero le sue collezioni più ricche e più degne. Ma anche un danno: molti trattati speciali, opuscoletti d’interesse esiguo, acquisti necessari forse alla Nazionale [Biblioteca nazionale centrale di Firenze] e alla Vittorio Emanuele [Biblioteca nazionale centrale di Roma], a Trieste hanno occupato il posto di opere capitali che son di prima necessità, mentre pochissimi possono comperarle per il loro prezzo. E per di più ognuno capisce come il criterio soggettivo sia troppo variabile di persona in persona, di epoca in epoca, per essere direttiva all’acquisto dei libri per tutti. In generale la manìa del bibliotecario letterato è vizio comune delle biblioteche italiane: indi vuoti spaventosi nella sociologia, nella filosofia, nella. religione... Manca all’Hortis, come a molti letterati, il bisogno dell’ordine pedantesco: felix culpa, del resto, per un uomo secondo me; ma non virtù cardinale nella scolastica bibliotecaria. [...]
Io sono sincero; posso sbagliare e sarò contento che dimostrazione di fatti mi dimostri il contrario; ma da Attilio Hortis non si può sperare più il riordinamento della Biblioteca. Perchè non basta più intelligenza: occorre battaglia continua, aspra, contro l’apatia degli amministratori, occorre sgobbamento e pedanteria interna, affinchè i triestini, che in fatto di coltura vogliono il piatto pronto, davanti alla bocca, per mangiare, comprendano l’importanza della loro Biblioteca.
Io penso che quest’opera Trieste la potrebbe affidare a Salomone Morpurgo. Capisco che riordinar la Civica, dopo la Marciana e la Nazionale [di Firenze], sarebbe più che un passo indietro. Non per fermarvisi a lungo, però; e addolcito un pochino il regresso dalla carità del natìo loco: carità, proprio carità. Anche nel senso non trecentesco.»
(Scipio SlataperLettere triestine. II. Mezzi di coltura, «La Voce», 1, n. 11 (25 febbraio 1909), p. 43.)

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