Ginzburg - Prosperi (1975)

Fonte:
Carlo Ginzburg - Adriano Prosperi, Giochi di pazienza: un seminario sul Beneficio di Cristo, Torino, Einaudi, 1975

«Ma al Crispoldi in questo momento B. [A. e B. sono i due autori del libro] non pensava affatto. Cercava testi sull’ampiezza della misericordia di Dio. Il De amplitudine beati regni Dei del Curione lo portò al Trattato... della divina misericordia (1542) del carmelitano Marsilio Andreasi, che dello scritto del Curione era stato in un certo senso l’ispiratore. Trovò il libretto dell’Andreasi nella Biblioteca Casanatense di Roma, legato con altri due scritti anonimi: una Pratica de li sacramenti (1534) e un testo mutilo del frontespizio, il cui titolo corrente suonava Del perdonare (1537). Una rapida scorsa a quest’ultimo gli diede l’impressione di trovarsi di fronte a uno scritto importante. Chi ne era l’autore? qual era il titolo completo? quale il suo significato?»
(Carlo Ginzburg - Adriano Prosperi, Giochi di pazienza, pp. 14-15)

«Andammo nella biblioteca dell’Archiginnasio a ricontrollare le due edizioni del Compendio (marzo e giugno 1544). Risultò che la scrupolosità del Catarino era grandissima. Ogni volta che la citazione era introdotta dalle parole «dice che...», il testo confutato era citato letteralmente. Tanto più significative erano qui le diversità tra le citazioni del Compendio e i passi corrispondenti del Beneficio. A quella già emersa nella relazione se ne aggiunsero altre minori.»
(Ivi, p. 35)

«Continuammo dunque a battere archivi e biblioteche alla ricerca del proto-Beneficio. L’ipotesi era che, se questo testo era mai esistito, ne fosse rimasta una copia manoscritta. Il Kristeller segnalava nel suo Iter italicum un esemplare manoscritto del Beneficio conservato presso la Biblioteca Riccardiana di Firenze: si trattava del testo dato alle stampe o del proto-Beneficio? Un controllo eseguito da A. mostrò che la prima alternativa era quella giusta. C’era poi un misterioso accenno di C. Cantù all’«originale» del Beneficio, che sarebbe stato conservato presso la Biblioteca della Minerva di Roma. Ma una ricerca compiuta da B., di questo fantomatico «originale» non diede frutto.
Provammo alla Biblioteca Palatina di Parma: i manoscritti di Ludovico Beccadelli qui conservati avevano già fornito al Bozza notizie importanti sulla prima circolazione del Beneficio. Ma non trovammo niente di rilevante al di là delle testimonianze già note. Una di queste era la lettera di un corrispondente del Beccadelli, Scipione Bianchini, datata Bologna 28 ottobre 1543, in cui si diceva: «Ho ritrovato il Beneficio di Christo stampato già la seconda volta, ma non senza qualche rumore e suspicione di novità: ve ne mando uno». Tornando stanchi e delusi da un ennesimo infruttuoso viaggio a Parma, cominciammo a discutere su come dovesse intendersi questo passo.»
(Ivi, pp. 66-67)

«Tornammo a Bologna e ci mettemmo in caccia di benedettini – e di pelagiani. Non partivamo da zero. Nel corso dell’estate A. aveva raccolto una serie di testi sul tema dell’ampiezza della misericordia di Dio; un paio d’anni prima B. aveva radunato testimonianze di un ancora fantomatico «pelagianesimo» cinquecentesco. Unificammo gli incartamenti e cercammo di estendere la ricerca, spartendoci il lavoro. A. si incaricò di fare uno spoglio dei repertori benedettini (Armellini, Ziegelbauer...); B., dello Short-Title Catalogue dei libri italiani stampati prima del 1600, conservati al British Museum di Londra. Elaborammo a tavolino una rete a maglie fitte, in grado di trattenere il maggior numero possibile di scritti apparsi in Italia tra la fine del Quattrocento e il 1570 in materia di misericordia di Dio, libero arbitrio, predestinazione e temi affini. [...]
Ancora una volta lavoravamo con strumenti estremamente grossolani. Ma in questo caso si trattava di una scelta deliberata. La natura stessa del terreno ce l’imponeva. Cataloghi adeguati mancavano nella maggior parte delle biblioteche italiane. Il materiale di cui andavamo in cerca era disperso e non studiato. L’Introduzione di don Giuseppe De Luca all’«Archivio italiano per la storia della pietà», discutibile finché si vuole, era rimasta un libro dei sogni. In questa situazione di fatto non ci rimaneva che riconoscere la nostra totale ignoranza – a patto però di rifiutare nello stesso tempo la selezione del materiale precostituita dalla storiografia che ci aveva preceduto. Anziché partire dall’idealistica «storia del problema», bisognava rifarsi alla documentazione nella sua disordinata casualità. [...]
Passando davanti ai palchetti delle cinquecentine possedute dalla biblioteca arcivescovile di Bologna, un giorno A. estrasse a caso un gruppetto di volumi, e si mise a sfogliarne uno in volgare stampato a Venezia nel 1494. S’intitolava El nobile tractato de la patientia, utilissimo ad ogni stato. [...] L’anonimo autore era il francescano Domenico Cavalca, e il Nobile tractato de la patientia era uno dei suoi scritti più noti e diffusi. Se fosse partito dal vecchio (e ancora non sostituito) catalogo ottocentesco della biblioteca, dove il testo era debitamente registrato sotto il nome del Cavalca, A. non sarebbe caduto in questo grossolano errore. [...]
In una miscellanea di catechismi della Biblioteca Vaticana, B. trovò legato un Ricordo di fare il transito felice della morte, che concludeva il confessionale del minorita milanese Francesco da Mozzanica (1510). Anche qui si parlava di disperazione, di misericordia di Dio: [...]
Ma un testo come il Libro devotissimo della misericordia de Dio (1525) andava ancora più in là». B. aveva trovato anche questo nella Biblioteca Vaticana, frugando il catalogo alla voce «Libro» – ovvia per una ricerca su testi anonimi di pietà in volgare.»
(Ivi, pp. 124-126)

«Ma insomma, era significativo che di predestinazione si parlasse in quegli anni, non solo in ambito filosofico tecnico, ma anche in testi volgari di carattere letterario o addirittura edificante. Era il caso di uno scritto come L’heremita, overo della predestinatione, di Marco Mantova Benavides. B. ci arrivò attraverso un errore del catalogo della biblioteca dell’Archiginnasio. Stava passando in rassegna tutti i «Marco» per rintracciare un Marco da Brescia benedettino saltato fuori dal repertorio dell’Armellini. L’heremita figurava come opera di «Marco da Mantova» – mentre tutti gli altri scritti del Mantova Benavides erano catalogati correttamente sotto «Benavides».»
(Ivi, p. 129)

«In confronto a questo linguaggio e a queste preoccupazioni umanistiche in tema di predestinazione, un testo come Uno libretto volgare con la dechiaratione de li dieci comandamenti, del Credo, del Pater Noster, con una breve annotatione del vivere christiano... (1525), segnava uno stacco nettissimo. A. lo aveva trovato, qualche anno prima, nel fondo Guicciardini della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, durante una ricerca sui catechismi cinquecenteschi.»
(Ivi, p. 131)

«Le complicate vicende che portarono alla stampa del De libero hominis arbitrio del benedettino bresciano Gregorio Bornato sembravano confermare l’ipotesi di un clima misto di censura e autocensura all’interno della congregazione cassinese. Il titolo, insieme al mero nome dell’autore, erano saltati fuori dalla lettura dello Short-Title Catalogue, con una data di stampa (1571) che esorbitava, sia pure di poco, dai limiti cronologici che ci eravamo prefissi. Un controllo diretto dell’opera, sulla copia conservata nella Biblioteca dell’Archiginnasio, riservò due sorprese: lo scritto risaliva a una generazione prima, e il suo autore era un benedettino bresciano.»
(Ivi, p. 143)

«Ma il tentativo di delineare un filone benedettino nell’ambito delle discussioni sulla grazia e il libero arbitrio non deve nascondere il fatto che a questa data – 1540 – esse coinvolgevano ambienti molto più ampi. L’anno prima, per esempio, era stato stampato a Genova un Dyalogo del maestro e del discepolo del cappuccino Antonio da Pinerolo, ristampato a Firenze nel 1543. Sfogliando il catalogo della Biblioteca Universitaria di Bologna alla voce «dialogo», A. trovò per l’appunto questa seconda edizione (la prima risultò irreperibile). [...]
Cercavamo il bosco, e c’eravamo dentro, proprio nel fitto. Di tutti gli alberi in cui ci eravamo imbattuti, il Dyalogo del maestro e del discepolo era – al di là delle differenze, riconducibili ai rispettivi generi letterari – quello più simile al Beneficio. Ma quanti altri ce n’erano, nascosti nelle biblioteche?»
(Ivi, pp. 153-155)

«Per tutto l’autunno avevamo continuato a lavorare in biblioteca raccogliendo testi; nel gennaio (1973) decidemmo di fare un’ulteriore spedizione archivistica. Il punto di partenza era questo. Un paio d’anni prima B. aveva trovato, sfogliando il catalogo della Biblioteca Nazionale di Roma alla voce «trattato», un Tratatto (!) della elettione et degli eletti di Dio mandato al Rev.mo Carl di Mantova alli XXIII di genaro 1546 (segnatura: 71.2.E.17[2]). Si trattava di un manoscritto anonimo, legato con una Corona beate Marie Virginis a stampa, priva di indicazione di luogo e di data.»
(Ivi, p. 164)

«La stesura dell’articolo era ormai quasi finita. Tuttavia, l’esito positivo del viaggio a Mantova ci indusse a tentare qualche ulteriore sondaggio in archivi e biblioteche. A Milano, tra le carte di Carlo Borromeo conservate alla Biblioteca Ambrosiana, cercammo altre testimonianze sulla repressione (già studiata da D. Maselli) della «setta giorgiana» nella congregazione cassinese attorno al 1568. Ma non emerse niente di nuovo [...] A questo punto B. tornò alla carica con il Trattato della elettione, il cui autore rimaneva nonostante tutto anonimo. B. tentò il colpo grosso: e se fosse stato Benedetto Fontanini? [...] Ancora una volta, si poteva far leva sulle aggiunte marginali, presumibilmente di pugno dell’autore, del Trattato della elettione, e confrontarle con gli autografi rimasti di Don Benedetto. Il Caponetto, nella raccolta di documenti posta in appendice alla sua edizione del Beneficio, ne elencava tre, tutti dell’anno 1545, tratti da un registro di atti amministrativi di Santa Maria di Pomposa conservato alla Biblioteca Ariostea di Ferrara. Il Menegazzo, che li aveva scoperti, notava che, rispetto alle altre pagine del fascicolo, queste apparivano vergate da una persona di cultura. L’edizione del Caponetto non comprendeva una riproduzione in facsimile di questi autografi, ma la prospettiva di recuperare all’autore del Beneficio uno scritto tutto e soltanto suo valeva bene un viaggio a Ferrara. Qui il direttore dell’Ariostea, Luciano Capra, distrusse con molta gentilezza le avventate speranze di B. Le due mani apparivano diverse: il Trattato della elettione continuava a rimanere senza autore e don Benedetto l’autore di un unico (o meglio di mezzo) libro.»
(Ivi, pp. 176-177)

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