Svevo (1892)

Fonte:
Italo Svevo, Una vita; Senilità, introduzione e presentazione di Gabriella Contini, Milano, Garzanti, 1985.

«Scoperse la biblioteca civica [di Trieste] e quei secoli di cultura messi a sua disposizione, gli permisero di risparmiare il suo magro borsellino. Con le sue ore fisse, la biblioteca lo legava, apportava nei suoi studii la regolarità ch'egli desiderava. La frequentava assiduamente anche perché la sua stanza in casa Lanucci era poco adatta a studiarci. Piccola, a mezzo occupata dal letto, di rado visitata dal sole, era disaggradevole e non era facile pensare su un tavolinetto rotondo di cui le quattro gambe non toccavano mai contemporaneamente il pavimento. [...]
In biblioteca fece poche conoscenze. Entrava nella lunga sala di lettura tutta occupata da tavoli disposti parallelamente, occupava un posto qualunque e per qualche tempo con la testa fra le mani era tanto assorto nella lettura da non vedere neppure chi accanto a lui sedesse. Dopo un'ora al più, la lettura affaticante gli ripugnava, per qualche tempo ancora vi si costringeva e cessava quando la mente più non afferrava la parola che l'occhio vedeva; usciva non appena deposto il libro e dopo quell'ora passata con gl'idealisti tedeschi, gli sembrava sulla via che le cose lo salutassero.»
(Italo SvevoUna vita, p. 62. Pubblicato dall'editore Vram nel 1892, è il primo romanzo di Svevo).

«Una sera, correndo, si trovò dietro ad una donna che passando lo aveva guardato. [...]
Ella attraversò il Corso e imboccò via Cavana; doveva passare dinanzi alla biblioteca. Alla peggio andrò in biblioteca, pensò Alfonso per dare alla sua passeggiata una meta sicura.
La precedette e si fermò alla porta della biblioteca. Ella passò [...] ma non lo guardò, ciò che ad Alfonso levò per qualche tempo la voglia di seguirla.»
(ivi, p. 63-64).

«Si ostinava tuttavia a passare le sue sere in biblioteca, ma ne usciva come ne era entrato, senza idee nuove perché per l'idea nuova il suo cervello era chiuso. Non sapeva che rievocare cose vecchie e ciò per completare qualche sogno da megalomane in cui si vedeva far mostra della sua scienza dinanzi a terzi.»
(ivi, p. 75-76).

«Talvolta, uscito dall'ufficio si avviava verso la biblioteca, ma di rado sapeva vincere la sua ripugnanza fino a restarci oltre mezz'ora; lo prendeva un'inquietezza invincibile che lo portava all'aperto a incantarsi su qualche molo, senza idee e senza sogni, unica preoccupazione quella di assorbire molto di quella brezza marina di cui s'immaginava di sentire immediati i benefici effetti.
[...]
Per lungo tempo inutilmente tentò di ripigliare le letture alla biblioteca civica, magari lasciando per allora in disparte il suo lavoro filosofico. Una sera Sanneo lo sgridò per un errore da lui fatto. Per quanto dovesse riconoscere di meritare quei rimproveri, si irritò del modo, di una parola più brusca. Altre volte, se ne rammentava, si toglieva all'avvilimento in cui lo gettavano tali accidenti della vita d'impiegato, applicandosi con maggior fervore ai suoi studi che dovevano toglierlo alla sua posizione subalterna. Fu quel fatto che dopo lunga assenza lo portò di nuovo alla biblioteca.
Si dedicò alla lettura di un giornale bibliografico italiano. La lingua non gli obbediva e bisognava darsi esclusivamente a letture italiane. Lesse per un'ora circa con attenzione spontanea, era effetto della brutalità di Sanneo, una discussione sull'autenticità di certe lettere del Petrarca e quando cessò rimase soddisfatto, rimpiangendo i tempi passati che la stanchezza del suo cervello gli ricordava, un rimpianto forte come se da allora la sua vita avesse mutato di molto.
Quando alzò il capo si avvide che a lui dirimpetto sedeva Macario che lo fissava indeciso.
– Il signor Nitti! – disse costui quasi domandandolo; doveva avere la memoria labile. Poi però gli porse amichevolmente la mano.
Uscirono insieme.
– Ci viene spesso? – chiese Macario occupato anche questa volta a raddrizzare il soprabito, una lunga mantellina grigia dai grandi bottoni d'osso.
Alfonso con tutta disinvoltura rispose che veniva ogni sera e, tacitamente, si propose di fare in futuro della bugia una verità.
– Io da otto giorni, ed è peccato che sia la prima volta che ci vediamo – disse Macario gentilmente. Gli chiese che cosa studiasse.
– Letteratura! – confessò Alfonso esitante.
Era lieto di poterlo dire a Macario, ma esitava conoscendo e temendone lo spirito maldicente. Spiegò ch'era sua abitudine di studiare ogni giorno qualche ora per svagarsi del lavoro della giornata.
– E che cosa legge? – chiese Macario che lo guardava con sorpresa.
Trovava che Alfonso, ad onta del viso bronzino, aveva l'aspetto meno rustico di mesi prima. Parlava più disinvolto e, di più, Macario era abbastanza intelligente per comprenderlo, dinotava una certa superiorità di negare ogni importanza a degli studî fatti con regolarità.
Sapendo quanto disprezzo si avesse da certuni per filosofi e filosofia, Alfonso si astenne dal nominare i suoi autori prediletti e parlò soltanto di qualche critico. [...]
Macario raccontò che veniva in biblioteca per leggere con calma Balzac che i naturalisti dicevano loro padre. Non lo era affatto o almeno Macario non lo riconosceva. Classificava Balzac quale un retore qualunque, degno di essere vissuto al principio di questo secolo.
[...]
La sera appresso si trovarono di nuovo in biblioteca. Alfonso ci andò più volentieri. La conversazione con Macario lo divertiva e lo lusingava la sua compagnia.
[...]
– Bellissimo! – esclamò una sera Macario alla biblioteca, e pose dinanzi ad Alfonso un libriccino ch'egli aveva finito di leggere: Louis Lambert di Balzac.
Lo lesse anche Alfonso in due o tre giorni e la sua ammirazione non fu minore. Salvo una lettera di amore di una passione profonda e tanto sensuale da non esserlo più, egli non ammirò tanto i pregi artistici dell'opera, quanto l'originalità di tutto un sistema filosofico esposto alla breve ma intero, con tutte le sue parti indicate, e regalato dall'autore al suo protagonista con la splendidezza di gran signore.
Macario gli chiese come gli fosse piaciuto e Alfonso era in procinto di dirne con sincerità la sua opinione. Ma Macario con premura, quasi avesse temuto gli venissero rubate le idee, disse e gl'impose la sua:
– Sa perché è un bel libro? è l'unico di Balzac che sia veramente impersonale, e lo divenne per caso. Louis Lambert è matto, è composto di matti tutto il suo contorno e, per compiacenza, l'autore in quest'occasione rappresenta matto anche se stesso. Così è un piccolo mondo che si presenta intatto, da sé, senza la più piccola ingerenza dall'esterno.
Alfonso rimase stupefatto a questa critica altrettanto originale quanto falsa. Doveva essere stata fatta con un metodo che Alfonso si trattenne dall'indicare, unicamente perché temeva di venir messo anche lui in quel piccolo mondo che si presentava da sé.»
(ivi, p. 82-89).

«Gli parve di essere già ritornato alla serietà di propositi che aveva avuta altre volte quando era frequentatore assiduo della biblioteca civica, ma col pensiero ricorreva alla casa donde usciva e sognava scene in cui veniva scongiurato di ritornarci.
Ci ritornò senz'esserne pregato, unicamente perché alla mattina del mercoledì Macario passando gli aveva gridato:
– A questa sera, eh!»
(ivi, p. 114).

«In Una vita tutta la parte che si riferisce alla banca Maller e alla Biblioteca Comunale può considerarsi autobiografica; e ce lo conferma più di una lettera di Svevo.»
(Italo Svevo nel centenario della nascita. Discorso di Eugenio Montale, 1963, in: Italo Svevo - Eugenio Montale, Carteggio: con gli scritti di Montale su Svevo, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1976, p. 120-144: 129).

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