Vinay (1967b)

Fonte:
Gustavo Vinay, Pretesti della memoria per un maestro, Milano-Napoli, Ricciardi, 1967.

«Con Salvatorelli avevo il mio solito conto aperto. Per non so quanto tempo (dalla vivacità del ricordo di ogni suo atto, arrivare, sedersi, alzarsi, ritirare i volumi in deposito al mobile-leggio vicino alla finestra, prender la scala, appoggiarla salire scegliere il volume e portarlo giù, dovrei desumere sia stato un decennio e invece fu assai meno ma moltiplicato dalla densità della mia tensione) lavorai al suo stesso tavolo nella mitica sala VIII della Nazionale [di Torino] dove a turno comparivano un po' tutti i grandi salvo i letterati fermi alle prime quattro, e nella prima entrando (ma si chiamava terza) si fermò appunto, l'unica volta che lo vidi, Benedetto Croce floscio e di malumore e sembrava che non ce l'avrebbe fatta ad arrivare fin lì se non gli si fosse prodigato intorno il Ginzburg per l'occasione raggiante e tutto spianato che non gli si vedevano neanche più i segni della barba nera che nessun rasoio era mai valso a cancellare, come si fosse incipriato. In quell'ottava era pure capitato Ruffini, la più bella testa che io abbia visto da vicino e poi si diceva che se hai bisogno di un libro e lo ha solo lui ti fa venire nella sua biblioteca ti lascia solo ti dice quando-esce-tiri-la-porta e se ne va per i fatti suoi... E Salvatorelli me lo covavo con gli occhi: ha rinunziato a tutto tranne ad esser se stesso, lavora come un negro per tirare avanti e si tien tutto dentro... mi si afflosciava un poco le poche volte che udivo la sua voce che mi suonava prepotente e sicura, ma appena svaniva l'eco riprendevo il mio ricamo e stavo attento a ogni occasione per farmi notare con una cortesia... non mi vide mai [...]».
(Gustavo Vinay, Pretesti della memoria per un maestro, p. 65-66).

«Uscì il mio Gregorio di Tours e vinsi il concorso per le biblioteche [...]. Dalla Nazionale di Torino era scomparso un uomo che in quella biblioteca mi aveva fatto sentire a casa mia, il «dottor Levi», il più ebreo degli ebrei che io abbia mai conosciuto: non gli mancava nessuno dei marchi cari agli antisemiti: il naso, la gobba, i peli ispidi, i piedi piatti da clown. Matricola mi aveva accolto con un gran sorriso come ci conoscessimo da sempre. Aleggiava intorno a lui la leggenda: aveva rinunziato per anni alle vacanze per attendere al rispetto del sabato e alle sue devozioni; in tempi remoti e prerazziali un impiegato l'aveva colpito in testa con un grosso libro urlandogli ebreo-schifoso e si era rifiutato di scrivere il suo rapporto e opposto a qualsiasi provvedimento [...]. Senza quel volto forse non avrei pensato che il mestiere di bibliotecario fosse fatto per persone intelligenti e sagge.»
(ivi, p. 119-120).

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