Pasquali (1952)

Fonte:
Giorgio Pasquali, Vecchie e nuove pagine stravaganti di un filologo, [Firenze], De Silva, 1952.

«Nei 22 anni che sono trascorsi dalla prima pubblicazione di questo articolo [1929] la situazione delle biblioteche è in complesso piuttosto peggiorata che migliorata, certo principalmente per colpa della guerra, ma anche per inerzia di uomini. Di nuovo v'è stato principalmente quel compimento dell'edificio della Biblioteca Nazionale di Firenze del quale io allora disperavo: la Nazionale, nonostante certe scarsezze di personale, funziona ora perfettamente sotto la direzione di una donna di cuore e di intelletto, Anita Mondolfo, e mostra in un mirabile esempio come una biblioteca dipenda principalmente dai locali. Anche, è stata approvata dai due rami del parlamento una legge che dispone che dentro 25 anni sia compiuto un catalogo unico delle biblioteche: io, vecchio, invidio i miei nipoti, ma concedo che non si poteva scegliere un termine piú vicino, temo anzi che quello scelto dovrà essere prorogato; ma sono lieto che un giorno anche nella nostra patria chi non trovi un libro nella sua città, non debba brancolare nel buio per sapere dove esso si celi (p. 255). Qualche altro miglioramento si è qua e là ottenuto grazie a iniziativa ardita di singoli bibliotecari, non certo per ordini partiti dall'alto: Enrico Jahier ha trasformato di suo la Marucelliana, ristretta nello spazio tra due case e, se bella, parecchio antiquata, in una biblioteca moderna corredata di un giardino accessibile agli studiosi. Qua e là i libri arrivati di fresco sono esposti per un mese agli studiosi; altrove almeno una lista di essi è accessibile ai frequentatori, che è rimedio molto inferiore; ma insomma si è fatto sporadicamente qualcosa per adempiere questa esigenza mia e non soltanto mia (p. 267).
Tutto il resto è, nel caso piú favorevole, rimasto quale era prima. Qui nella nostra Firenze, nonostante le prescrizioni dei regolamenti, non si è mai riusciti a ottenere che le biblioteche si mettessero d'accordo tra loro per la compra dei libri stranieri, ora che essi costano tanto di piú di quando scrivevo (e a me sembravano già allora carissimi). Io avevo proposto (p. 254) di fondere biblioteche troppo piccine con maggiori per diminuire le spese fisse. Almeno in un caso si è fatto il contrario; una biblioteca minima, contro il parere della direttrice di una molto maggiore, è stata ricostituita indipendente, benché sia pochissimo frequentata, e per quanto la maggiore, amministrandola, potesse soddisfare esaurientemente e con pochissimi mezzi i bisogni dei due o tre lettori giornalieri; ma cosí una bibliotecaria e qualche impiegato hanno trovato un posto piú indipendente e meno laborioso, questo in un momento nel quale le biblioteche maggiori (tranne le romane) scarseggiano di personale.
Gli esemplari di diritto, come io lamentavo a p. 267, arrivano pur sempre alle biblioteche in ritardo e decimati dalla Procura della Repubblica, per la quale devono necessariamente passare, mentre sarebbe tanto piú semplice che le tipografie fossero obbligate a spedirli direttamente alle biblioteche territoriali competenti.
Ancora oggi gli studenti universitari non sono ammessi al prestito se non in virtú della malleveria di un professore, e ogni professore non ne può rilasciare altro che dieci. Immaginiamo una facoltà di trecento studenti con dieci professori: duecento studenti saranno necessariamente esclusi dal prestito. Le università hanno moltiplicato il numero degli studenti, ma il regolamento è rimasto intatto. E qui non ci sarebbe bisogno di denari, ma basterebbe che la direzione generale delle biblioteche si lasciasse consigliare dai competenti. Siccome uno studente non può essere ammesso all'esame di laurea, né ottenere il trasferimento se non dimostra di avere reso i libri presi in prestito dalle biblioteche della città, si potrebbe con poco o punto rischio delle biblioteche ammettere gli studenti al prestito sul fondamento della loro tessera universitaria.
E nulla si è fatto per migliorare e aumentare le biblioteche popolari; nulla per indurle ad accordarsi tra loro. Un bibliotecario audace che lo ha tentato, per poco non ne usciva con le costole rotte: in una città che è poco piú che un paese i bibliotecari delle sette piccole e nella loro isolatezza inutili bibliotechine non sanno far altro che guardarsi in cagnesco. Eppure lo sviluppo delle biblioteche popolari avrebbe un vantaggio positivo e uno negativo: scaricherebbe le biblioteche maggiori dal peso di lettori per le quali sono inadatte e fornirebbe al popolo una cultura meno ristretta e meno ciarlatanesca di quella che offrono a loro i partiti. Ma il ministro Gonella e il suo partito sono evidentemente contrari a tali istituzioni: i bibliotecari hanno piú volte proposto, l'ultima nel novembre 1949, di imitare la legge belga che impone a tutti i cittadini un contributo minimo per la cultura, ma attribuisce a ciascuno di essi il diritto di frequentare, anzi pro rata parte di amministrare le biblioteche popolari; le quali dipenderebbero cosí meno dal governo, cioè ormai dal partito.
Per l'orario unico si è piuttosto tornati indietro che andati avanti: l'esigenza impiegatizia dell'orario unico complica la situazione. E non si vuole neanche accettare la proposta che i libri siano fin dalla mattina cercati e messi da parte per l'utente pomeridiano e serale il quale potrebbe mandare la sua richiesta anche per posta. La biblioteca funzionerebbe cosí pomeriggio e sera con un velo minimo di impiegati. Che differenza dai paesi scandinavi e dalla Russia che tengono aperte le biblioteche dalla mattina a mezzanotte! Da noi l'orario consente di adoperarle soltanto a chi non abbia ufficio o a persona il cui ufficio consista nello studiare, vale a dire a un'infima minoranza, mentre le sbarra a impiegati, a professionisti, a insegnanti.»

(Giorgio Pasquali, Postilla a Biblioteche, in Vecchie e nuove pagine stravaganti di un filologo, p. 268-271).

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