Serao (1885)

Fonte:
Matilde Serao, La conquista di Roma: romanzo, Firenze, G. Barbèra, 1885.

«L'onorevole Sangiorgio saliva al terzo piano, alla biblioteca [della Camera dei deputati]. Nel corridoio chiarissimo che ha le sue finestre proprio sul lucernario dell'aula, due o tre impiegati, innanzi agli alti leggii di legno, scrivevano in certi libroni il catalogo generale delle opere che si conservavano in biblioteca, e il loro lavoro era continuo, incessante: essi scrivevano senza far rumore, senza parlare. Un deputatino, già calvo, col naso rosso, era sempre innanzi a un leggio e sfogliava, sfogliava, in uno di quei libroni, come se cercasse un'opera introvabile: piccolino, ritto sopra uno sgabello per arrivare all'altezza del leggio, con un par d'occhi miopi che gli facevano mettere il naso sulla carta per leggere, pareva sempre che dovesse scomparire dentro il librone e restarvi schiacciato come un segnacarte. Nella fuga delle stanze, tutte piene di libri, l'onorevole Sangiorgio non trovava alcuno: i tavolini coperti di carta, di penne, di calamai, di matite, per gli studiosi, erano deserti.
In qualche angolo di stanza, innanzi a uno scaffale semivuoto, arrampicato sopra una scala, l'erudito deputato bibliotecario, il dantofilo paziente dalle sopracciglia nere, che sembravano tracciate da un colpo di carbone troppo forte, rovistava fra i libri, furiosamente, con la passione per quella biblioteca che egli avea tratta dal disordine in cui giaceva. Nemmeno si voltava, l'onorevole deputato bibliotecario, al passo cauto dell'onorevole Sangiorgio: o, accorgendosene, si voltava e lo guardava con un paio d'occhi nerissimi e vivi, ancora sbalorditi e pregni della ricerca letteraria che stava facendo.
Francesco Sangiorgio, di nuovo imbarazzato, come un disturbatore, messo in soggezione da quel silenzio e da quello sguardo stralunato del bibliotecario, camminava anche più adagio, e nell'ultima stanza si metteva a leggere i titoli delle nuove opere, a uno anno, sbalordendosi di tutta quella scienza amministrativa, economica, politica, che era accumulata in quelle scansie. Poi, per non parere, prendeva un volume del Buckle, Storia della civilizzazione in Inghilterra, il secondo, e leggeva.
Come gli amanti che non possono staccarsi dalla donna che amano, subendone il fascino dolcissimo, cercano dei piccoli pretesti, per poter restare accanto a lei, così egli si tratteneva nei corridoi a guardare le carte geografiche in rilievo, nell'aula a studiare la distribuzione dei posti, in sala di lettura a leggere i giornali, in biblioteca a leggere un libro qualunque, di cui poco o nulla gl'importava. Con la naturale salvatichezza del suo spirito e la timidità del provinciale, egli temeva, in cor suo, che quel questore che lo salutava così compostamente, ma senza mai dirgli niente, che quegli uscieri così indifferenti che lo vedevano passare, che quel bibliotecario così amoroso della sua biblioteca, non lo giudicassero quello che realmente era: un provinciale, un novellino, stordito dalla sua prima fortuna politica, che fremeva di piacere a distendersi nei seggioloni parlamentari e che non sapeva staccarsi da quel posto.»
(Matilde Serao, La conquista di Roma, p. 26-28. Il ritratto del deputato bibliotecario è ispirato a Filippo Mariotti, che fece parte per più legislature della Commissione di vigilanza sulla Biblioteca della Camera dei deputati, a partire dal 1878, e la presiedette nel 1886-1887).

«L'onorevole Oldofredi non era un frequentatore troppo assiduo della biblioteca della Camera: ci andava qualche volta per cercarvi un amico; ma non leggeva, nè chiedeva mai libri e giornali. Dicevano anzi le maligne lingue parlamentari, ch'egli non sapeva leggere. Ora, come quel giorno entrò in biblioteca, e trovò Sangiorgio seduto davanti a un vero monte di volumi, che scartabellava opere di statistica, e sfogliava libri di economia politica, di storia, di scienze sociali, con quell'intemperanza di ricerche e di preparazione che è propria dei provinciali meridionali, quel fatuo anconetano ebbe un lieve sorriso di scherno.»
(ivi, p. 196-197).

«Sotto il portone di Montecitorio Francesco Sangiorgio s'indugiava, mentre dietro a lui gli uscieri avevano man mano spento il gas della biblioteca, delle sale di lettura e di scrittura, degli uffici: egli guardava il cielo stellato estivo e la piazza, non sapendo decidersi a ritornare in casa.»
(ivi, p. 406-407).

«L'usciere ritornò: la Camera accettava le dimissioni, vista l'insistenza; il presidente aggiungeva qualche amichevole parola di rimpianto, augurando buona salute. Era tutto: ed era finito. [...] E uscì di là, lentamente, resistendo al forte desiderio di guardare un'altra volta le sale, i corridoi, gli ambulatori, la biblioteca, la buvette, i saloni degli uffici, uscì senza rivederli, avendo paura d'incontrare troppi deputati, di dover dare troppe spiegazioni, di dover stringere troppe mani – e lo sentiva, sì, lo sentiva, se qualcuno, il primo capitato gli diceva addio, egli sarebbe scoppiato in singhiozzi».
(ivi, p. 415-416).

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