Valera (1882)

Fonte:
Paolo Valera, Alla conquista del pane, Milano, Cozzi, 1882.

«L'unico, il solo asilo che mi accogliesse senza reticenze si è chiuso ieri. Santo Iddio! Ma perché non fanno le riparazioni d'estate, quando gli uccelli scorribandano per l'aria in mezzo alla luce d'oro che disperde il sole e la vita è dovunque a sorsate per tutti? Se sapeste o signori impiegati, quanto male fate ai poveri, colle vostre riparazioni fuori di tempo. La Biblioteca per un poveraccio senza casa, è quello che si suol dire un nido, una capanna, un seno caldo. Vi sono distese delle stuoie pulite, è accesa una stufa che manda calore fin che se ne vuole, ci sono dei tavoli, dei calamai, dei lembi di carta, delle penne d'oca e dei libri da saziarsi. Si va là, si passa il tempo leggicchiando o fingendo, e se per caso avete dovuto riandare per forza dolorose storie sotto le stelle, potete adagiare le vostre guancie sulla guancia del libro e dormigliare le ore perdute. La consegna – si intende – è di non russare.
Alle cinque il campanello dà fuori come un pazzo per avvertirci che è l'ora del pranzo. Qualche volta mi prende voglia di strozzare il portiere. Ma lui là, sul margine, rubicondo, tondo, v'incalza: andiamo signori! Venite via coi topi di libreria, coi casellari ambulanti, colle biblioteche portatili, cogli affamati che andranno in cerca di un altro ricovero. Gli ultimi sono anche i primi. Alle nove meno un quarto della mattina, battono coi piedi la generale. Passeggiano impazienti sul pianerottolo o giù in galleria e si dilungano in catene sulle scalinate, come gente sospesa, che non ha tempo da perdere. Strofinano le mani, bubbollano di freddo, si soffiano il naso e si scaldano le mani in saccoccia. Che cosa studiano, cosa vanno a fare in Biblioteca quelle barbe bianche, quei capelli brizzolati, quei vecchioni scarni, dagli occhi orlati come se avessero vegliato l'intera notte sulle dotte carte? A vederli, si direbbe che sono loro che buttano la scintilla pel mondo. Scartabellano volumi sopra volumi, scribacchiano centinaia di pezzettini di carta che numerizzano con lena e portano sotto al panciotto come autografi preziosi. Rovistano, consultano, postillano, fanno le orecchie ai tomi, mandano gli amanuensi fin su negli ultimi angoli a cercare l'edizione tale dell'epoca tale del tale editore! E quel povero martire di cataloghista come lo fanno disperare. Ma che cosa ammassano, cosa cercano quegli affacendati occhialuti, quelle sdruscite carcasse che hanno un piede e mezzo nella fossa? Chi lo sa. Forse sono pazzerelli ai quali i libri non hanno saputo che far rasentare la pazzia. Questa mane davanti all'editto che li bandiva per otto giorni, provarono l'ambascia di chi si sente perduto. Non esser più fra i loro tomi! Mentre per noi senzacasa, c'era addirittura appiccicata la galera. Condannati per otto giorni al passeggio forzato – piova o tempesti, nevichi o geli.»
(Paolo Valera, Alla conquista del pane, p. 28-30)

«Nevica sempre, fa sempre freddo. I miei piedi sono due pezzi di marmo. Non li sento più. Oh domani, domani finalmente mi si riapre il paradiso. Domani la Biblioteca mi saluterà come un vecchio amico, e la stufa ricomincierà il suo lavorio di respirazione. Mi butterà in faccia, di dietro, sul collo, dappertutto le sue buffate ardenti. Che giornata domani. Voglio starci dalle nove alle cinque.»
(ivi, p. 34)

«Nelle settimane pesantemente oziose, come ho detto altrove, io andavo in Biblioteca di Brera [Biblioteca nazionale Braidense] a leggere e a farci su dei pisolucci, i quali pisolucci mi rifacevano dal sonno perduto e dalle cene dimenticate. Ripigliata, dopo tanta assenza, l'abitudine di andarvici tutti i giorni, elessi il mio scranno vicino alla stufa.
Allo stesso tavolo, proprio faccia a faccia, sedeva un giovanotto che aveva la precisione dell'orologio. Entrava coll'ultimo tocco delle dieci e usciva al primo delle due. Si metteva davanti una montagnola di libri in quarto, li sfogliava, noterellava, vi si fermava sopra e si buttava indietro, le mani in tasca, gli occhi al soffitto, di chi rimastica strabiliato qualche sentenza d’autore che ponza. Per l'ora d'andarsene aveva riempito il dorso d'una quarantina di stampiglie, ch'egli trafugava, come me, nel momento in cui il distributore ci portava i libri chiesti. Quali cose scrivesse non saprei dire. So che inchinava il naso come il miope e che colla penna d'oca scriveva minuto e affrettato. Alla mania di farsi credere uno studioso sul serio, aggiungeva un'intolleranza massima. Se un crocchio di studenti bisbigliava o se qualcuno russava, era lui il primo che scuoteva la lingua per chiamare l'attenzione del portiere. Povero Villa! Quando udiva quel sibilo a denti serrati, gli toccava lasciare il tagliacarte, togliere dalla sedia quel suo pancione a mappamondo e andare là, colla sua faccia larga e serena come una pagina manzoniana, a imporre a quelli e a questi il silenzio.
Questo giovine che immagazzinava ingordamente la scienza, io l'avevo riconosciuto fino dal primo giorno. Aveva fatto con me le scuole elementari. Me lo ricordavo pei suoi occhioni bagnati in un languore viziato e pei suoi capelli lunghi e fini come seta. Stefano m'aveva anch'egli riconosciuto? Qualche volta mi codiava coll'occhio, ma erano lampi. Si rituffava subito in quel pozzo di scienza dal quale non usciva che per abbondarci.
Un giorno, non so come, gli cascò dal tavolo un libraccione che mi toccò la punta del piede. Lo raccolsi affettando una certa premura.
– Grazie.
Alle due coi libri sotto al barbazzale, strisciò nel vuoto un mezzo saluto.
Me gli inchinai.
Continuammo non so quanti giorni a salutarci con una simpatia crescente.
– Che libro legge? mi domandò egli prendendosi il volume nelle mani. Silvio Pellico? Ferrovecchio!
Per paura di prendere una cantonata non mi arrischiai a contraddirlo. Ero lì commosso sulla pagina ove è ricordata la gamba seppellita del povero Maroncelli.
– È un libro che fa nausea. La rassegnazione dallo scrittore mi ha indignato.
– E se le dicessi che mi ha rimescolato le viscere?
– Idealismo, mio caro. Siete un ragazzo che dimostrate di avere in cassa del cuore. Ma se volete ascoltare un consiglio, guardatevi dal veleno somministrato nel giulebbe. Se ne provano poscia le amarezze. Nutritevi di scienza e cominciate ad attingere nelle vasche di Büchner e Moleschott.
Ricascai nelle mie Prigioni, ma la mente era distratta. Pensavo a quel fanciullo che mi dava del ragazzo e dei consigli. Quale audacia!
Alle due uscì apparentemente solo, ma ci trovammo entrambi sulle scale.
– Scusate se vi ho detto francamente la mia opinione. Io sono d'avviso che se la gioventù avesse una guida che l’avviasse addirittura sullo stradone che conduce alla grandezza del vero, ci si risparmierebbe l’ingrato lavorìo di recere la scoria che abbiamo inghiottita coma roba buona e nutriente.
– Permettete, ma chi può dire: questa è la verità vera e questa è la verità falsa?
– Un bimbo appena svezzato. Non credete mai che a ciò che potete supporre per via di induzione o a ciò che voi o gli altri hanno potuto constatare. Poichè la verità, sappiatelo, è come l'analisi chimica. È esatta o non è. Si è col vero o contro.
La logica mi sbalordiva ma non mi persuadeva. Stefano mi frugava negli occhi – forse per sapere se sì o no approvavo lo sue parole enfatiche.
– Oh, ma sentite. Avete una strana rassomiglianza... Cavatemi dalla curiosità. Non siete voi certo Giorgio?
– Sì, signor Stefano.
– Volevo ben dir io! Lo sai, sono fisionomista quanto Lawater. Una volta che ho veduto uno non mi scappa più. E nota che ti trovo un po’ magro.
– Di’ pure allampanato.
– Come va, di’ sù. Studî, studî? Ma lascia, caro mio, i romanzi. I romanzi sono nella letteratura quel che la donna è nella vita. Ti adescono, ti distruggono con delle fiammate che muoiono e ti lasciano prostrati e vuoti a macerarti nel rimorso. La patria ha bisogno di torsi di ferro e non di gioventù evirata.»
(ivi, p. 99-102)

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