Montale (1946)

Fonte:
Eugenio Montale, Farfalla di Dinard, [Milano], Mondadori, 1960.

«Le lezioni [del maestro di canto] cominciavano molto presto, alle otto e mezzo del mattino, e di solito erano di trenta minuti. Poco dopo le nove entravo già nella Biblioteca comunale, semideserta a quell'ora. Non c'era molta scelta di libri e il distributore non ammetteva di esser disturbato. Ma in uno scaffale sempre aperto trovai pascolo per parecchi mesi. (Ho letto là, in quel tempo, non so quanti libri del Lemaître e dello Scherer, lo scopritore di Amiel). Intanto le lezioni procedevano regolarmente. Pian piano mi andavo rassegnando a dare l'addio a quella ch'era stata la mia voce, diciamo così, psicologica.»

(In chiave di "fa", prosa narrativa, a sfondo autobiografico, nel «Corriere d'informazione», anno 2, n. 92 (17 aprile 1946), p. 1-2; poi in Farfalla di Dinard, p. 69-73: 70).

Montale ha ripetuto questo racconto anche in una conversazione televisiva con Leone Piccioni e in un'intervista sul «Corriere della sera».

«Sì, io dovevo essere alle 8 del mattino da lui, per mezz'ora. [...] Dopo, alle 9, alla Biblioteca Comunale ero il primo ad entrare; e mi guardavano di malocchio, perché gli impiegati speravano di poter stare tranquilli, fino alle 10, alle 11? non so, e in genere tendevano a darmi un volume del bibliotecario, Cervetto, «I Gaggini da Bissone». Oppure «I Promessi Sposi», qualche cosa di simile. Ma io, cercando negli scaffali, soltanto quelli a portata di mano, trovai le opere di Jules Lemaître, per esempio, «I contemporanei», un classico; poi quelle di Edmondo Schérer che è stato il biografo, quasi lo scopritore di Amiel; così lessi molti libri francesi che dopo non avrei mai più avuto occasione dì leggere. Quello fu un periodo abbastanza fortunato.»

(Cinquant'anni di poesia: Leone Piccioni a colloquio con Eugenio Montale: dalla rubrica televisiva "Incontri", «L'approdo letterario», n. 35 (lug.-set. 1966), p. 107-126: 108-109).

«Da ragazzo leggevo molto. La mattina alle otto avevo la lezione di canto, alle nove avevo finito e andavo in biblioteca. Lì vi era un bibliotecario molto pigro, e allora mi servivo da solo prendendo a piene mani i libri dagli scaffali più vicini. Così lessi un po' di tutto: Shelley, Keats, i critici, i francesi del secondo Ottocento, gli italiani, Dante... Ogni tanto anch'io scrivevo qualcosa.»

(Grazia Livi, Un cristallo si è rotto, «Corriere della sera», 96, n. 17 (21 gen. 1971), p. 11. Intervista al poeta).

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