Turati (1905)

Fonte:
Filippo Turati, Trent'anni di Critica sociale, Bologna, Zanichelli, 1921.

«Le Biblioteche popolari sono uno dei vecchi dada «riformisti» di chi dirige questa Rivista. Sarà forse una diecina di anni, egli si lasciò intrufolare nel Consiglio di Amministrazione di una vecchia «Società promotrice delle biblioteche popolari» esistente in Milano, sorta con grandi speranze nel 1867, sotto gli auspici del Baravalle, del Cremona, del Fano, di Luigi Luzzatti e di altri valentuomini, che l'avevano, il 12 maggio di quell'anno, solennemente inaugurata, proponendole come ideale i risultati meravigliosi delle Società analoghe dell'Alsazia, del Belgio, della Germania, dell'Inghilterra, dell'America: dei paesi dove fin d'allora si era intesa la potenza del libro come educatore, come consolatore, come tonico dello spirito umano [...].
La «Società promotrice» aveva ben presto però tradite quelle speranze e quegli auspicî; aveva sofferto il destino che in Italia – per mancanza di tenacia, soprattutto – colpisce la più parte delle istituzioni geniali che vi si fondano. Non solo non aveva «promosso» un bel nulla fuori di Milano, ma anche l'unica Biblioteca popolare milanese era divenuta la preda delle muffe e dei ragnateli.
Dotata di un cospicuo numero di volumi – oltre 30 mila – ma in gran parte classici o superati dallo sviluppo scientifico e disadatti allo scopo – essa limitavasi poco più che a fornire le traduzioni belle e fatte agli scolaretti fuggifatica delle scuole medie, e un certo numero di romanzi, e non sempre dei migliori, ai disoccupati, alle portinaie, ai convalescenti del quartiere – uno dei quartieri più vecchi della vecchia Milano, lontano da ogni movimento operaio moderno. Di poi la Biblioteca peregrinò per varie sedi, perseguitata dal Municipio che, in compenso del «favore» di fornirle un meschino locale a stracciamercato, la obbligava ad ogni tratto a sloggiare, come uno studente che vive sulle camere ammobigliate, indebitandosi per le spese dei trasporti, obbligata a lunghi periodi di chiusura per rimettersi in ordine, perdendo libri e perdendo credito e clientela.
Esserne consigliere d'amministrazione non era dunque grande lusinga all'amor proprio, nè forniva grandi soddisfazioni di coscienza. Pure chi scrive queste linee vi rimase ostinatamente – si adoperò anzi a ottenerle anche la erezione in ente morale – sempre nell'attesa della «congiuntura propizia», che permettesse di svolgere, da quel vecchio tronco insecchito, nuovi e rigogliosi rampolli!
La congiuntura aspettata si risolveva essenzialmente in un po' di quattrini (le idee sono meno difficili a trovarsi, ma inzitelloniscono senza i quattrini fecondatori), per dare alla vecchia Biblioteca nuove sedi, nuovi libri, un catalogo a disposizione di tutti, nuovo personale. Un primo tentativo di interessare ad essa le organizzazioni operaie, raccolte nella Camera del Lavoro, fallì miseramente. Quando prese a funzionare l'Umanitaria, collo scopo di lenire la piaga della disoccupazione e di «aiutare i diseredati a rilevarsi da sè», ci parve che uno dei mezzi migliori per raggiungere il suo scopo fosse quello di rigenerare la vecchia Biblioteca, di aiutarla a spandere la cultura, a «illuminare la strada» di coloro che hanno bisogno di rilevarsi – o magari di non cascare.
Per ventura, non parlammo a sordi. Il resto.... verrà appreso da chi leggerà la relazione del primo anno di vita del «Consorzio delle Biblioteche popolari», nella quale il prof. Fabietti – che del Consorzio è insieme l'anima e il braccio – ha profuso i tesori della esperienza acquistata sull'argomento.
Questi ricordi personali spiegano perchè non abbiamo ritegno da invadere un paio di numeri della Critica con parecchie colonne sul tema delle Biblioteche popolari. Pensiamo che l'iniziativa milanese possa espandersi, per virtù dell'esempio, in altre contrade, dove il bisogno ne è anche maggiore: e perciò la nozione dei particolari anche i più minuti, che generarono il nostro successo, non dev'essere trascurata. Le cose riescono o falliscono soprattutto per la cura o per la negligenza dei particolari minuti.
Aggiungiamo, per completare la nostra confessione, che all'amore – altri dica all'infatuazione – delle Biblioteche popolari noi siamo venuti dalla politica e soprattutto per motivi politici. Vi siamo venuti proprio dal socialismo.
Lunge da noi l'idea che le Biblioteche popolari debbano servire a un partito: ciò equivarrebbe a renderle settarie e ad ucciderle.
Ma l'esperienza della propaganda nelle masse ci venne mano mano convincendo di una cosa: che l'efficacia di essa era paralizzata soprattutto dalla incoltura. [...]
Il rimedio a questo male non è altro che il libro: il libro seminato dappertutto; il libro che cerca il lettore, lo adesca, lo invesca, lo persegue, se ne impossessa; il libro che è coltura, che è ginnastica, che è luce, che è redenzione. E la Biblioteca popolare – se trionfa – non solo metterà il libro in valore, gli darà la vita che gli manca; ma lo creerà, lo susciterà ex novo. Per la legge della domanda che provoca l'offerta, i buoni libri popolari saranno creati dalla esistenza dei lettori educati a cercarli.»

([Filippo Turati], Il libro come strumento di redenzione sociale, «Critica sociale», 15, n. 7 (1° apr. 1905), p. 101-102, firmato «La Critica». Poi in Filippo Turati, Trent'anni di Critica sociale, Bologna, Zanichelli, 1921, p. 131-136).

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