Bassani (1962)

Fonte:
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, Torino, Einaudi, 1962.

«Avevo avuto la bella idea – cominciai a raccontare – di trasferirmi coi miei libri e le mie carte nella sala di consultazione della Biblioteca Comunale [Ariostea], in via delle Scienze: un luogo che negli ultimi anni avevo bazzicato spessissimo, ma dove mi conoscevano fin dall’epoca del ginnasio, intendiamoci bene, dato che là, appunto, ero solito riparare ogniqualvolta un’incombente interrogazione di matematica mi consigliava di marinare la scuola. Era quella una seconda casa, per me, dove tutti, specie da quando mi ero iscritto a Lettere, mi avevano sempre colmato di gentilezze. Da allora il direttore, dottor Ballola, aveva cominciato a considerarmi del mestiere, per cui non c’era volta che, scorgendomi in sala, non venisse a sedersi accanto a me, e non mi mettesse a parte dei progressi di certe sue ormai decennali ricerche attorno al materiale biografico dell’Ariosto custodito nel suo studiolo particolare, ricerche con le quali si riprometteva (era lui a dirlo) di superare decisamente i pur cospicui risultati raggiunti in questo campo dal Catalano. E cosa dire dei vari inservienti? Essi si comportavano nei miei confronti con tale confidenza e familiarità da dispensarmi solitamente dalla noia di riempire l’apposito modulo per ogni volume richiesto in lettura, nonché da consentirmi, nei giorni di scarso pubblico, di fumare addirittura qualche sigaretta.
Dunque, come dicevo, quella mattina m’era venuta la bella idea di passarla in biblioteca. Senonché avevo avuto appena il tempo di sedermi ad un tavolo della sala di consultazione, e di tirar fuori dalla borsa di pelle quanto mi occorreva, che subito uno degli inservienti, tale Poledrelli, un tipo sui sessant’anni, grosso, gioviale, celebre mangiatore di pastasciutta, e incapace di mettere insieme due parole se non in dialetto, mi si era avvicinato per intimarmi di andarmene immediatamente. Facendo rientrare il pancione, tutto impettito, riuscendo perfino ad esprimersi in lingua, l’ottimo Poledrelli aveva spiegato a voce alta, ufficiale, come il signor direttore avesse dato in proposito ordini tassativi: per cui – aveva ripetuto – facessi senz’altro il piacere di alzarmi e sgomberare. La sala di consultazione, quella mattina, era particolarmente affollata di ragazzi delle Medie. La scena era stata seguita, in un silenzio sepolcrale, da non meno di cinquanta paia d’occhi e da altrettante paia d’orecchi. Ebbene, anche per questo – seguitai –, non era stato affatto piacevole, per me, tirarmi su, raccogliere dal tavolo libri e carte, rimettere il tutto nella borsa, e quindi raggiungere, passo dopo passo, il portone a vetri d’ingresso.»
(Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, p. 169-170)

Ispirato al romanzo, nel 1970 uscì il film Il giardino dei Finzi Contini (con la regia di Vittorio De Sica), che ottenne un grande successo di pubblico aggiundicandosi tra l'altro l'Oscar come miglior film straniero. Dopo un'iniziale collaborazione, lo scrittore e il regista entrarono in conflitto e Bassani ottenne che venisse tolto il suo nome dai titoli di coda del film. La scena in biblioteca (min. 00-37,01-00-38,53) presenta sostanziali modifiche rispetto al libro, come ad esempio il colloquio che avviene tra Giorgio e il direttore della biblioteca (rispettivamente interpretati da Lino Capolicchio e Edoardo Toniolo). Una testimonianza del conflitto nato tra Bassani e De Sica è stata poi data dallo stesso scrittore in un articolo significativamente intitolato Il giardino tradito (pubblicato in Di là dal cuore, Milano, Mondadori, 1984, p. 311-321), dove a proposito della scena in biblioteca presente nel film, lo scrittore scrive: «Ed infine la colonna sonora. Siamo a Ferrara, che diamine, nel cuore dell'Emilia, non siamo mica in un paese immaginario! Ebbene, l'inserviente della biblioteca pubblica si esprime in un dialetto genericamente settentrionale quale possono immaginarselo soltanto i doppiatori romani lasciati a se stessi, senza guida: un dialetto costruito in provetta che ben poco ha a che fare col ferrarese." (p. 320)».

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