Ravera (1961)

Fonte:
Trent'anni di storia italiana (1915-1945): dall'antifascismo alla Resistenza, lezioni con testimonianze presentate da Franco Antonicelli, Torino, Einaudi, 1961.

«Ho conosciuto soltanto le carceri fasciste femminili e devo dire che, a parte i carceri giudiziari dove il trattamento fatto alle donne era pressoché uguale a quello degli uomini, nelle case penali femminili, invece, c'era una differenza di situazione abbastanza notevole. Gli antifascisti maschi erano molto più numerosi nelle carceri, quindi potevano fare una vita in comune, sviluppare dei dibattiti, studiare, continuare anche lì la loro vita e la loro lotta. Le donne invece, dato il numero esiguo delle detenute politiche, si trovavano in genere isolate e raramente s'incontravano.
Nelle case penali femminili di Trani, Perugia e Venezia la custodia e la funzione di guardia carceraria erano affidate alle suore. La madre superiora era capoguardia, mentre il direttore aveva un'influenza molto limitata nella vita interna del carcere. Come era questo mondo? Come lo trovai a Trani, dove arrivai con una condanna di quindici anni di reclusione? [...]
Alle antifasciste carcerate si presentavano due problemi: il primo era quello del libro. In queste case penali non esistevano biblioteche; le suore sostenevano che nessuna detenuta aveva mai chiesto un libro. In fondo esse erano contrarie all'introduzione di libri nel carcere. Anche all'ordine d'insegnare a leggere e scrivere alle detenute analfabete, le suore fecero una lunga opposizione: c'era in loro l'idea radicata e candidamente sostenuta che era meglio che le donne non imparassero nemmeno a leggere. Nell'opinione delle suore, noi antifasciste eravamo diventate ribelli all'autorità perché avevamo imparato a leggere e avevamo letto dei libri che ci avevano deviate e corrotte. La nostra divenne una vera battaglia, anche perché per il riconoscimento ad avere dei libri né il Ministero né l'Ovra, che ci perseguitava, avevano interessi ad aiutarci. Trovai aiuto nel direttore del carcere, che era in fondo un'onesta persona: potevamo richiedere dei libri a qualche casa editrice, ma i libri sarebbero stati conservati dal direttore e consegnati uno o due alla volta a me e alla mia compagna di cella [Felicita Ferrero]. Ci fu concessa anche un'ora di scrittura al giorno sotto la sorveglianza di una suora che ritirava poi il quaderno e lo portava al direttore perché leggesse e verificasse ciò che avevamo scritto.»
(Camilla Ravera, Nelle carceri fasciste, in Trent'anni di storia italiana, p. 142-144)

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