Bianciardi (1962)

Fonte:
Luciano Bianciardi, La vita agra, Milano, Bompiani, 1962.

«Come tutti sanno, nel 1773 i compagni di Gesù si scompagnarono e così [...] la cattolicissima imperatrice Maria Teresa [...] riunì là dentro il lascito librario del munifico conte Pertusati, la vecchia biblioteca dell’ordine [dei Gesuiti], altre raccolte minori, e aprì alla cittadinanza colta una nuova e doviziosa fonte del sapere.
Intendiamoci: tutte queste cose io le ho imparate proprio alla vecchia Braida del Guercio, perché amo documentarmi e non parlare mai a casaccio. Nemmeno con gioia, lo confesso – e lo confesso volentieri perché dà più merito alle mie fatiche di ricercatore. Ci entravo ogni volta con una specie di trepida ansia, che somigliava assai allo sbigottimento. Già mi intimoriva, nella sala dei cataloghi, fra i grossi tomi dei vecchi repertori manoscritti – dove l’inchiostro arsenicato invecchiando luccica e rode la carta, pur ottima, di duecento anni or sono – e le cassettine dei nuovi accessi (nuovi per modo di dire, in realtà appena posteriori al 1924 e fermi a prima della guerra), già mi intimoriva il grosso ritratto incombente dell’imperatrice, paffuta e vestita di nero, con in mano una cartapecora penzoloni che non guardava, perché teneva fissi su di me gli occhi materni, anzi nonneschi. [...].
Mi intimoriva lo sguardo di questa nonna pasciuta, serissima e forse un po’ avara, che occupava mezza parete, appesa alla balconata di legno, in mezzo alle scaffalature altissime, su su fino alle volte con graffiti i ritratti di Virgilio, Orazio, Lucano eccetera. E con una punta di angoscia consegnavo il talloncino giallo delle richieste agli impiegati dietro il bancone.
Non so per quale disposizione ministeriale, questi giovani addetti alla consegna dei libri in lettura erano quasi tutti mutilati alle mani. A chi mancava un dito, a chi due, a chi tutti e cinque. Qualcuno aveva la mano di legno e cuoio dentro il guanto nero, ferma e secca nella positura di chi te la offre alla stretta, ma senza poterla stringere. Né poter segnare sulla scheda di richiesta il numerino corrispondente al tuo nome; tanto vero che qualcuno aveva dovuto imparare a scrivere con la mano buona (buona in senso relativo, a scrivere insomma con le tre dita residue della mano sinistra), oppure ad aiutare il moncherino intervenendo con la bocca; e allora vedevi l’uomo chino sul tavolo scapeare iroso, furibondo, sembrava, i denti serrati sul mozzicone della matita. E io sinceramente mi sentivo in colpa, d’aver chiesto il libro e di costringere questo pover’uomo, in tutto eguale a me fuor che nel numero delle dita, a un simile inverecondo calvario.
Le schede di richiesta sparivano dietro una porticina, e qualcuno certo saliva su, per soppalchi e soffitte, a cercare il libro polveroso. Io non ci sono mai stato, ma mi hanno detto che i depositi della biblioteca erano e sono stipatissimi, accessibili per passaggi e cunicoli e pertugi stretti, e così bassi che un uomo di normale statura difficilmente li raggiungerebbe. Ecco perché – me l’hanno detto, ma io veramente con gli occhi miei non li ho mai visti, e non potrei quindi giurarci – la direttrice della biblioteca – aveva un nome tedesco, questa signora, ad accrescere il mio sbigottimento, quasi fosse una nipote, o una protetta, insomma una fiduciaria dell’imperatrice dei talleri – la direttrice della biblioteca utilizzava per il ritrovamento dei libri alti uomini di piccolissima statura, reclutati in Val Brembana, e forse anche nani autentici da circo equestre.
E nemmeno quietavano i miei rimorsi i lettori abituali, quelli che entravano in sala grande: in trepida attesa del mio libro – una miscellanea sulle origini della biblioteca per esempio – vedevo sfilare ora una ragazza paraplegica, la gamba sinistra sottilissima e il piedino sghembo, ora un vecchio coi capelli bianchi irsuti e scomposti, il capo torto da un lato, gli occhi sbarrati, o strabici, o abbogliorati dalla cataratta, ora persino un infermo sulla carrozzella da invalido, spinto da un’anziana donna vestita di nero e con la cuffia, che sembrava una monaca. Non vedevo l’ora di consegnare il talloncino giallo al banco della restituzione, varcare la porta a vetri, e prendere giù per l’ampio scalone.
Tutt'altra cosa, là fuori. I gradini erano larghi e comodi, tagliati per piedi cardinalizi. [...]. A scendere quello scalone capivi di aver sbagliato chissà quante scelte importanti, in vita tua; nemmeno il passo era giusto, inadeguato per via dei calzoni che dismagano l'onestà dell'incedere. Erano scalini da scendere in tonaca, con piede posato e solenne e comodo.
Alla svolta della prima rampa una vaschetta di bronzo appesa al muro avvertiva gli entranti di spegnere il sigaro, ed anche quella scritta mi intimoriva, mentre accendevo la nazionale e posavo con cura là dentro il cerino. C'era da percorrere un passaggio a volte altissime, in penombra, fiancheggiato da tante statue [...].
La luce ti coglieva giù in fondo, dove il passaggio buio sbocca nel cortile. C'è subito una fontanella col mascherone [...]. Mi fermavo sempre a bere, prima di dare un'occhiata all'intorno, sul cortile quadrato pieno di archi, di colonne e di statue. [...]
Era grande il palazzone della biblioteca, già casa insegnante dei compagni di Gesù, e prima ancora prepositura degli Umiliati e alle origini Braida del Guercio. Io ho parlato diffusamente della biblioteca perché lì mi conducevano sovente, vincendo rimorsi e angustie, i miei scrupoli di giovane erudito».

(Luciano Bianciardi, La vita agra, Milano, Bompiani, 1962, p. 8-13. La direttrice della Braidense dal 1942 al 1954, Maria Buonanno, nata a Cremona di famiglia napoletana, era vedova di Giuseppe Schellembrid, funzionario ministeriale nato a Napoli ma di cognome tedesco, ed era generalmente citata col cognome acquisito).

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