Petrocchi (1982)

Fonte:
Giorgio Petrocchi, Nel mistero del padiglione: tra i libri del Collegio Romano, «Il tempo», 39, n. 83 (3 apr. 1982), p. 3.

«La grandiosa crociera del Collegio Romano, mi dicono con certezza, non è più. Spoglia dei suoi antichi libri, accecata nelle dorate costole degli infolio cinquecenteschi, la crociera di quella che era stata la biblioteca dei Gesuiti e, dal 1870 [!], la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, giace scheletro lugubre nel centro della città, nell'ònfalo delle raccolte librarie di Roma. Saturno divora i suoi figli: uno dei suoi tesori, e poche forse una sola (ch'io sappia), le voci che si sono levate a rammaricarsi della spoliazione. Che bisogno c'era? Quei libri potevano essere consultati sul posto, oppure un giorno per l'altro nel grande edificio di Castro Pretorio. [...]
La crociera serbava intatta il mistero d'un immenso padiglione sacrale dove era raro si potesse penetrare e mai sostare, silenziosi, quasi spauriti da quel lungo alto filare ricolmo di libri. La luce pioveva catacombale dai finestroni, eppur sufficiente a giuocare d'ombra e di penombra tra i palchetti. Togliere un libro dallo scaffale, scorrere qualche pagina, riporlo, dava il sentimento proibito di violare un tesoro a pochi noto, come se gli schedari non ne potessero tramandare l'identità, e dal tempo dei padri Gesuiti alcun'anima viva non fosse penetrata in quelle volte ecclesiali, da una remota età in cui la crociera del Collegio Romano era una silenziosa officina di studiosi adusati a quegli arcani penetrali.
Eppure il misterico adito era di pochi. Mentre è di tanti la memoria delle sale di consultazione. Sulle scalette che conducevano ai tavoli, dinanzi alle lampade verdi, o sul ballatoio che girava tutt'intomo alla sala A, nel lungo percorso della B, nel rettangolo più rumoroso della C, si è consumata una gran parte della nostra giovinezza, si sono compiuti indimenticabili incontri. Una giovinetta era sommersa dietro la pila dei libri di Bacchelli, e svariava lo sguardo verso la finestra, in giro per gli scaffali, ravviandosi i capelli, pensosa (forse pensosa del destino dei personaggi del Mulino del Po?). Si tratteneva pochi minuti Trompeo, quanto era necessario per rintracciare una citazione da un libro che, pur possedendone tanti, in casa non aveva: sorridente, soave «lettore vagabondo» dal volto affilato, il «cranio buzzurro» (come egli stesso l'appellava) dai capelli tra bianchi e biondocenere, il bastone col pomo d'argento sul quale s'appoggiava anche da fermo, con un po' di civetteria. Anche Antonio Baldini si fermava poco, prima di recarsi lì di fronte, nell'ufficio della Nuova Antologia. Era già mattino avanzato quando arrivava Angelo Monteverdi, col viso cotto dal sole e la splendente chioma argentea; un brusìo delle fanciulle accompagnava il suo passaggio. Stazionava un intero pomeriggio Bruno Nardi (al mattino di scuola al Tasso) e riprendeva la conversazione dallo stesso punto in cui l'aveva lasciata in sospeso un mese prima.
Ma erano gl'incontri dei coetanei che, in definitiva, contavano di più: guardinghi negli anni Quaranta in quel via vai di persone, ma non tanto da lasciare da canto i timori, le speranze (siano ricordati soltanto quelli che non sono più: Giaime Pintor, Niccolò Gallo, Ruggero Jacobbi, Carlo Salinari, il fratello Giambattista). Proprio all'uscita della Nazionale, in un negozio di radio che era all'angolo di via del Caravita, sentimmo la notizia dell'invasione tedesca in Belgio e in Olanda. Non ci restò che rientrare sgomenti nella Nazionale, e fermarci nel cortile dell'Emeroteca, donde si scorgevano le alte mura dell'Osservatorio Astronomico di padre Secchi, e un manto di edera cadeva a strapiombo sulla robusta fiancata secentesca. La fontana del cortile crosciava nel silenzio che s'era fatto improvvisamente tra noi, quel tardo mattino del 10 maggio 1940. La nostra giovinezza era morsa dalla certezza d'un evento violentissimo che ci avrebbe travolti, scompaginati per l'Europa e l'Africa (uno di noi, colui al quale era stabilita dal fato la fine più atroce, Ferdinando Di Maio, sarà gettato vivo dai tedeschi nel mare di Cefalonia, cucito in un sacco; Ferdinando, come ti entusiasmavi ai versi delle Occasioni! E tu Astolfoni, saresti finito nei ghiacci dell'ansa del Don). [...]
Addio, dunque, crociera; addio, sale A, B, C. Non ho cuore di venire a visitarvi, oramai ridotte a deposito di carte d'ufficio. Eppure ancora qualche metro in cui raccogliermi, per ricordare gli anni di biblioteca, mi resta. Non al Collegio Romano, ma nella biblioteca degli Agostiniani, sarebbe a dire l'Angelica. Proprio sul primo dei due ballatoi del grande vaso barocco, una piccola porta che dovrebb'essere nascosta da pitture di dorsi di libri, apre in una stanza silenziosissima. Poiché i pesanti volumi d'incisioni e i tomi di teologia e storia ecclesiastica non erano richiesti da alcun lettore, i fattorini non v'entravano quasi mai, se non nella stagione dello spolvero. I colloquianti della stanza erano le massicce travature del Piranesi, le immagini d'amor sacro e profano di Marcantonio Raimondi, i tratti impetuosi del Dürer.
All'improvviso il silenzio era spezzato dal frastuono delle campane di Sant'Agostino. L'Angelus della chiesa quattrocentesca aveva per secoli interrotto il lavoro dell'eremitano. Quel poco che si vedeva dalla finestra, una fuga di tetti e di rialzi di lesene, al di sopra della volta apparteneva ad un tempo immobile, ad uno scenario disabitato.»

(Giorgio Petrocchi, Nel mistero del padiglione: tra i libri del Collegio Romano, «Il tempo», 39, n. 83 (3 apr. 1982), p. 3).

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