Romano (1979e)

Fonte:
Lalla Romano, Una giovinezza inventata, Torino, Einaudi, 1979.

«Mi imbattei in lui [Antonicelli] nel passaggio che immetteva dalla scala buia all'ingresso della Nazionale, coperto da una tettoia di vetro. Io avevo in mano il Ceccardo di Viani (regalatomi da Giovanni [Ermiglia, nel libro Oneglia]). Pioveva a scroscio e il battere dell'acqua sulla vetrata era un rombo che sul mio essere ormai troppo sensitivo produceva una sensazione tra angosciosa e voluttuosa. Mostrai il libro e domandai: – Com'è? – Estroso, – rispose. Non era uno sprovveduto, in queste cose.»
(Lalla Romano, Una giovinezza inventata, p. 166).

«Maria Marchesini aveva un aspetto bizzarro [...].
Con lei presi a frequentare la Biblioteca nazionale, prima nella grande silenziosa sala di tutti, poi nelle misteriose «sale riservate».
Doveva laurearsi in filosofia.»
(ivi, p. 172).

«Avevo poi scoperto che il direttore delle «sale riservate», l'avvocato N., era mio lontano parente (anzi, l'aveva scoperto lui stesso). Era un ometto gentilissimo, ironico, pettegolo. Gli piaceva intrattenermi – in dialetto – sui comuni cugini, ricchi e avari.
Diventai assidua, quando scopersi che anche lí potevo incontrare A. [Antonicelli] (di tutto il suo nome e cognome usavo solo quella lettera).
Attraverso i passaggi – le sale erano infilate una nell'altra – vidi la Marchesini e lui che si festeggiavano: a sorrisi, risatine. Lui era un po' starnazzante come quella volta al Regio. Lei gli restituiva dei fogli. Lui mi aveva vista, mi cercò e mi trasmise i fogli, dai quali saliva il suo profumo leggero, che a me pareva femminile.»
(ivi, p. 174-175).

«Col mio innamorato – ma potevo, chiamarlo cosí? – accennai alla mia scelta [della tesi, su Cino da Pistoia]. Approvò. Alla biblioteca di facoltà, mi passava – come all'esame – foglietti dove aveva ricopiato frasi che qualcuno aveva scritto su Cino. Mi faceva piacere vedere la sua scrittura.»
(ivi, p. 177).

«Sulla scala ripida e semibuia della Nazionale i baci furono meno beati e tanto piú ingordi. Spesso venivano interrotti, e sempre allo stesso modo. Da una porticina sul primo pianerottolo appariva, senza far rumore, l'omino odioso dagli occhi melensi, che stava sempre seduto a un tavolino prima dell'ultima rampa, a distribuire le schede. Ci staccavamo, e lui nel passare ci dava una lunga occhiata sorniona e complice.
Impossibile sapere se non si era mosso dal suo tavolino (nel caso che fosse il diavolo). In fondo gli ero grata: ci legava, accomunandoci.»
(ivi, p. 195-196)

«“Fare lo stupido” era un'espressione che si usava anche a Cuneo. Era ben quello che lo avevo visto fare: al Regio, per esempio, o nella biblioteca.»
(ivi, p. 198).

«Ero arrivata fin davanti alla porta stretta della Nazionale, senza pensare ad altro che all'appuntamento. La porta era chiusa. Subito dopo vidi che il pavimento dei portici era coperto da uno strato grigiastro di polvere di neve mista a coriandoli, qua e là a piccoli mucchi. Era martedí grasso e io non lo sapevo.
Rimasi un po' ferma sul marciapiede davanti all'università.»
(ivi, p. 204).

«Alla Biblioteca Reale si entrava non da un portone antico, ma da una piccola porta scura. Nessuno del resto vi faceva caso. Il Manichino stesso vi entrava con naturalezza, saliva la scala buia. La sala principale era lunghissima e altissima e lungo un lato erano aperte alte finestre; tutt'intorno erano gli scaffali pieni di libri. Gli uomini e le donne sedevano ai lunghi tavoli lucidi. Prima che il Manichino arrivasse, si avvertiva un senso di disagio, di ansiosa attesa. L'aspetto delle persone e delle cose diveniva a poco a poco piú marcato e inquietante, l'atmosfera insopportabile. Toccando la materia fine dei vecchi libri, le mani apparivano di carne, orlate di unghie nere, i corpi simili ad animali mostruosi enormi o rachitici, le teste curve come musi alla greppia, con guance e labbra cascanti, o le bocche sottili e velenose. Rumore di sedie urtate, di passi pesanti, carta stridula, tonfi; il tempo tormentato, strozzato.
La porta si apriva e appariva il Manichino, con passo leggero. Sfila il soprabito, i guanti; depone con grazia il cappello, la sua roba ha un leggero profumo – le sue mani come farfalle sfiorano le carte, il suo capo è biondo e luminoso – allora dagli scaffali severi sorridono le dorature dei vecchi libri.»
(ivi, p. 212, dai frammenti de Il manichino amoroso).

«(in biblioteca)... prendeva un libro o una rivista – li sceglieva a lungo e meticolosamente – poi sedeva e leggeva, voltava regolarmente i fogli, ma non afferrava nulla e le parole e le pagine scorrevano sotto i suoi occhi fissi e intenti nell'interna passione, come l'acqua di un fiume a chi lo guarda dal parapetto di un ponte, rapito da quel fuggire fatale e sempre uguale, senza pensiero o forse col pensiero della morte.
Ma queste false letture la stancavano e la tormentavano; essa voleva talvolta riprendersi e seguire un pensiero, che subito perdeva. Il tempo passava lentissimamente.
Una volta pensò di cercarlo nelle altre sale, penetrò fino nell'ultima. C'era un vecchio dagli occhi terribili e mobilissimi, un ragazzo miope dalla testa rapata. Era la sala della Geografia.
Con timore e fatica estrasse dallo scaffale un atlante, lo sollevò tra le braccia e lo depose sul tavolo. L'aprí a caso.
Poi, ogni volta lo discese con fatica dallo scaffale, e si curvava sulle enormi pagine. La sua sofferenza che diventava acuta nella immobile lettura, ora leggermente impazziva e si allontanava. Fingeva di cercare un luogo e seguiva pazientemente l'intrico della carta leggendo ad uno ad uno i nomi fitti e minuti dal suono misterioso, nella lingua incomprensibile. Il suo occhio e anche il suo dito che scorreva febbrilmente nella ricerca vana, era simile all'animo suo e ne rifletteva l'ansia e la pena. Cosí in un certo modo si placava.»
(ivi, p. 216-217, dai frammenti de Il manichino amoroso).

«Quando Giovanni si era accorto che ero infelice, aveva scritto per me una lunga favola. La accompagnò con una lettera.
«[...] Io mi ricordo che un giorno (mi pare fosse nel tempo in cui Venturi le aveva proposto di darsi alla critica d'arte), mi congedavo da lei che stava per salire alla Nazionale ed ella mi disse come conclusione di una delle nostre solite chiacchierate, di avere molta fiducia in me. Ricordo il tempo l'ora e il luogo, vede che ho dato importanza a quella frase. [...]».»
(ivi, p. 225).

«Per la fine d'anno del '28 avevo mandato ad A. una piantina nana di edera (credo giapponese), senza biglietto. Mi abbordò in biblioteca: – Sei forse tu... – Sí. – Ah! – fece lui.»
(ivi, p. 229).

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