Marchesi (1940)

Fonte:
Concetto Marchesi, Filologia e varietà, in Il libro di Tersite, Milano, Mondadori, 1950, p. 301-320.

«La filologia è una scienza severa che dà però grandi sorprese: e fra queste ci sono anche quelle galanti o, come direbbero gli uomini piú costumati, quelle frivole. Io non oserei adoperare tale parola perché allora ogni svago è frivolezza; perché allora tutto quanto ci stacca l'occhio dallo strumento studioso è frivolezza: anche il ramo sottile di acacia agitato dal vento di autunno davanti alla nostra finestra; anche la giovane donna che mi distraeva in un giorno lontano di estate fiorentina nella bella sala conclusa della biblioteca Medicea.
[...]
Fuori, nella piazza san Lorenzo, l'estate ardeva coi raggi di agosto: ma nella sala della biblioteca era una consolante frescura: e attraverso i grossi vetri colorati delle finestre il sole faceva dei giochi di luce come volesse dare ogni tanto ai nostri sei occhi distrazione e riposo. Ho detto «ai nostri sei occhi» perché noi eravamo tre: io, uno studioso alemanno che collazionava un manoscritto greco e una giovane signorina, che mi ostinavo a credere inglese, la quale copiava da piú giorni le miniature di un antico salterio. Di quella donna avevo visto soltanto la capigliatura dorata, i guanti bianchi posati sul tavolo e la lente d'ingrandimento che di tratto in tratto accostava ai suoi occhi scuri. Sul tavolo era pure – né seppi mai a chi appartenesse – una statuetta di Budda che brillava nella sua vernice bianca e celeste.
[...] Ero arrivato alla parola «castità», a quella parola che spesso conturba se ci sta davanti una giovane donna. Io scrivevo castitatem quando la signorina straniera si alzò per consultare il catalogo: e allora, riguardandola bene, credetti di vedere una cosa straordinaria. Fissavo gli occhi su di lei, mentre essa sfogliava i volumi senza trovare quello che cercava; e continuavo a contemplarla come uno stordito anche quando impazientita si rivolse a me perché l'aiutassi a trovare l'indicazione. Eravamo gomito a gomito: il mio braccio era tutto coperto di una manica grinzosa; il suo mostrava, attraverso i ricami e le velature della stoffa, un freschissimo incarnato. Quel mattino nella trascrizione andai oltre la parola castitatem: ma varcai pure nella mia anima le trincee e le fortificazioni dietro cui opera sicuro l'intelletto del saggio. E passai al nemico: cioè alle tentazioni della carne.
[...]
Quella signorina non era inglese, era russa; e non era una signorina, ma una giovanissima signora divorziata dal marito. E cercava nelle miniature di quel salterio «movenze e colori», com'essa mi spiegò piú tardi con la fredda garbatezza che hanno spesso le donne le quali possono essere richieste dl troppe cose.
Piú tardi la rividi a Catania, la mia terra natale [...].»

(Concetto Marchesi, Filologia e varietà, in Il libro di Tersite, Milano, Mondadori, 1950, p. 301-320: 304-308. Il testo è datato «Pisa, 1940» e fu pubblicato per la prima volta, con lo stesso titolo, nella rivista «La ruota», 2 (1941), n. 1, p. 3-9. Cfr. Rosario Pintaudi, Nella bella sala conclusa della Biblioteca Medicea...: Concetto Marchesi nella Laurenziana di Firenze, «Quaderni di storia», n. 89 (gen.-giu. 2019), p. 205-215. Nonostante minuziose ricerche sui registri dei lettori della Biblioteca Laurenziana, Pintaudi non è riuscito a identificare lo studioso tedesco (tra i non pochi presenti) e la giovane russa (forse registrata come Paola Calò e Paola Carlo, che consulta due manoscritti plausibili del settore Plutei).).


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