Valgimigli (1956)

Fonte:
Manara Valgimigli, Saluto alla Classense, «Il resto del carlino», 21 giugno 1956, p. 3.

«Corridoi e chiostri all'interno, e fuori, a ponente, quell'alta liscia muraglia a mattoni scolorati dal tempo che sovrasta sul prato di Classe. Quella è, a Ravenna, la Biblioteca Classense. Io vi andai anche attratto, nei miei amori di filologo classico, dal celeberrimo codice, detto appunto il Ravennate, della fine del secolo decimo, che il cremonese abate Pietro Canneti, dei frati camaldolesi, comperò a Pisa nel 1712 e che contiene, con scolii marginali e interlineari, tutte le undici commedie di Aristofane che ci rimangono. «Fammi vedere il Ravennate», dissi a Santino Muratori la prima volta che andai a Ravenna; e chi sa dove credevo lo tenesse custodito e nascosto. E andò a una comune scansia e ne trasse il libro coperto da una rilegatura comune. «Perché solo così», mi disse Santino rispondendo al mio stupore, «nessuno sa né immagina dov'è».
Corridoi che tagliano la biblioteca al primo piano e al secondo, e separano sale e allineano scansie e chiostri. Chi scende la scala maggiore si vede davanti il chiostro maggiore; e nel mezzo del chiostro il bianco pozzo, con anche di pietra bianca l'arcata che regge ancora la carrucola, la doppia catena, i due secchi [...].
Il corridoio centrale, al primo piano, di passaggio obbligatorio per andare alla sala di lettura e agli uffici, ha più degli altri solennità e austerità claustrale. Qui domina San Romualdo. Niente libri, pareti lunghe alte nude [...]. Metteva in questo corridoio anche la mia stanza da studio dove io passavo abitualmente fino a ora tarda le mie giornate. Sulla sera, alle sei, uscito l'ultimo lettore e l'ultimo impiegato, udivo il passo del custode e il rumore delle chiavi. Incominciava dal basso, prima il cancello di strada, poi il portone del primo corridoio a terreno, poi il cancello della scala, e poi, su, la sala di lettura e gli uffici. Sentivo lo scatto che via via spengeva le lampade. Dopo, entrava da me. Caro e amato Guglielmo. Soli noi due per tante ore e giorni nella Classense. Metteva dentro il capo, diceva: «Ha bisogno di niente, signor professore?». «Niente, caro Guglielmo, vai e buona notte».
[...]
Venivano da me in Classense bravi giovani studiosi a chiedere aiuti e consigli, e io ero molto lieto di ritrovare qualche volta anche qui, e d'accordo col nuovo, il mio vecchio mestiere di maestro di scuola. Anche venivano dotti ed eruditi di fuori, da città universitarie di Europa e di America, per loro indagini e ricerche varie; e io ero ambizioso e glorioso che in questa città di provincia coloro trovassero quel che cercavano e talora anche più di quel che cercavano scoprissero, echi e memorie della nostra civiltà secolare; e mi commuoveva l'ammirazione devota del luogo, delle belle sale, dell'ordine, e la gratitudine sorridente e quasi affettuosa che non raramente affiorava dal loro italiano impacciato. [...]
E mi domando con trepidazione: [...] come provvederanno e aiuteranno biblioteche sul tipo di quelle che ci descrisse tempo fa, in una lettera dall'America, Giuseppe Prezzolini? Quivi i libri, egli scrisse, non saranno più libri ma rotoli di celluloide, i cataloghi non saranno più schede ma bottoni elettrici, i bibliotecari non più umanisti, ma uomini tecnici e meccanici.
E tutto questo avverrà, la previsione si avvererà, già si sta per tanti segni avverando. Sarà bene, sarà male, non domando né distinguo. Ma i templi della antica religio, i sacri tèmena che ancora sopravvivono come la mia Classense a Ravenna, la Malatestiana di Serra a Cesena e anche in angoli claustrali di grandi città come la Laurenziana a Firenze e a Roma la Casanatense, cadranno finalmente in rovina e scompariranno [...]. E nostalgia e malinconia cadranno anche queste per sempre, muse e ninfe gentili ma inutili.»

(Manara ValgimigliSaluto alla Classense. L'articolo venne pubblicato lo stesso giorno anche su «Il messaggero» e poi raccolto in Manara Valgimigli, Del tradurre e altri scritti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1957, p. 171-176).

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