Papini (1913b)

Fonte:
Giovanni Papini, Un uomo finito, Firenze, Libreria della Voce, 1913.

«Abbandonato a me stesso, coll’appetito sregolato e capriccioso dell’adolescenza, cercavo qua e là i libri che mi potessero illuminare e saziare. A volte frugavo nei grandi cataloghi manoscritti della biblioteca, chiedendo poi, a caso, libri bizzarri, inutili, inintelligibili o cercavo con avidità manuali che dessero titoli di altri libri, e ricopiavo con gioiosa impazienza le liste di libri che spesso son dietro alle copertine oppure i frontispizi e i titoli di quelli esposti nelle vetrine o rammentati nelle riviste.
Un nuovo titolo di libro era per me, più che una scoperta, una vera conquista, e ne facevo collezioni enormi e li copiavo e ricopiavo su tanti libriccini bislunghi, tentando di ordinarli come meglio potevo. Se il titolo mi piaceva chiedevo subito il libro in biblioteca e da quello spigolavo e raccoglievo altri titoli di libri sconosciuti per me e via sempre innanzi. Ma tutta questa caccia e raccolta non bastava: spesso mi veniva voglia o bisogno d’imparar qualcosa e non sapevo a che porta battere. In quei casi le divine enciclopedie mi soccorrevano e allora, dopo aver trovato quel che cercavo, seguitavo a sfogliare il magico volume e leggevo qua e là con la sempre nuova contentezza di trovar sempre parole e notizie ancora ignote poco prima. [...]
Mi proposi dunque di fare un’enciclopedia che non solo contenesse la materia di tutte le enciclopedie di tutti i paesi e di tutte le lingue, ma le superasse e le sorpassasse; dove ci fosse tutto quel che in loro era disperso e sparpagliato e più ancora; e che non fosse solamente una ricopiatura e un rimpasticciamento di enciclopedie vecchie, ma un lavoro nuovo, fatto su dizionari, manuali e libri recenti e speciali, di tutte quante le scienze, storie e letterature.
Decisa la cosa non stetti con le mani in mano: la mia vita aveva una direzione; le lunghe ore di biblioteca avevano ormai un fine più grave e determinato. Mi posi al lavoro con focosa pazienza. Da quel giorno – era di luglio, in estate, nella stagione della libertà – ogni parola che cominciasse per a mi attrasse come il viso d’un amico. Tutte le massiccie enciclopedie, i voluminosi dizionari, i repertori usati e consunti, i vocabolari speciali furon tirati giù dalle assi degli scaffali per me, per me che copiavo e riassumevo e traducevo e sfogliavo con più lena e furia di prima. Oh quanto mi detter da fare tutti quei fiumiciattoli germanici che cominciavano per Aa – e quanti mai titoli di libri dovetti registrare per render conto di una dinastia di dotti olandesi, dei von der Aa – e come fu lunga e tediosa la lista delle abbreviazioni latine che comincian con A! In quei giorni fui preso da tenerezza per la città di Abila, lontana città sul mare; e vidi per la prima volta opere di legge per parlare con aria d’intenditore dell’abigeato. Risfogliai il vecchio testamento per ritrovare la pietosa Abigail e il profeta Abacuc; snidai ne’ commentatori di Dante la vita e le gesta dell’incendiario Bocca degli Abati; feci conoscenza con tutte le varietà dell’abete; mi erudii nella storia di Abbiategrasso e nella geografia dell’Abissinia.
Dapprincipio ricopiavo alla rinfusa su quaderni o pezzi di carta scompagnati e diversi – poi mettevo ogni cosa al pulito, in ordine, su carta ben rigata e levigata. Di giorno, in biblioteca, scrittura brutta, sformata, frettolosa, macchie, scarabocchi, e abbreviature – la sera, alla tremante fiamma della candela, la più bella calligrafia di cui ero capace, inglese e rotonda, con inchiostro nero e rosso; e la carta sugante sotto la mano sinistra… Che divertimento! Per star lì, gobbo e con poco lume, a scriver la mia enciclopedia avrei lasciato qualunque gioco e qualunque teatro – e anche, scommetto, un serraglio di bestie feroci che nelle fiere, era quel che mi tirava il cuore più d’ogni cosa.
Eppure anche quella impresa che magnificava me stesso, povero ragazzo ignorante, ai miei occhi e perfino a quelli de’ distributori di biblioteca che mi guardavano con una compassione venata d’ironia e di rispetto, mi venne a noia o, per dir meglio, mi spaventò per la perfezione che volevo raggiungere. Già lavoravo da un paio di mesi, e di mattina e nel pomeriggio sotto i finestroni infuocati e di sera sotto le lampade ad arco in un’altra biblioteca o al lume di candela in camera mia, eppure scrivi e riscrivi non ero riuscito a oltrepassare le parole che cominciavano per Ad. Un lunghissimo articolo sul furente Achille mi seccò. Costeggiavo la questione omerica; ero sull’orlo della filologia classica; parecchie parole greche (che non capivo) mi arenarono e mi umiliarono.
La ragione corse in aiuto alla stanchezza. Cominciavo allora a fiutare un po’ di filosofia, chissà in quali perfidi libri!, e cominciavo alla peggio a ragionare colle regole e a riflettere men grossamente che non s’addicesse alla mia età. Vidi dunque che la sapienza vera non consisteva nè poteva consistere in un accozzo alfabetico di notizie borseggiate qua e là da ogni parte; in un ammonticchiamento di raccattaticci e di copiature, ordinato meccanicamente ma senza soffio di vita nè anima di pensiero.
Abbandonai l’enciclopedia ma nello specialismo non volevo cascare: il mio dongiovannismo cerebrale mi tirava sempre indietro quando stavo per gettarmi in un solo amore. Ci voleva per me lo sterminato, il grandioso, la totalità delle cose, l’ampiezza dei tempi – la processione dei secoli e dei volumi.
Mi parve che la storia dovesse fare al caso mio. [...]
Ma nella mia storia ci doveva esser tutto: e passai allora dalle scienze alle cosmogonie. Codesto scrupolo di storico (non già storia dei soli fatti ma anche delle credenze sui fatti) ebbe grande effetto sui miei studi.
La mia curiosità si biforcò: cascai da una parte nella letteratura comparata e dall’altra nella religione. Nella religione prima di tutto. Non ci fu teogonia o mito cosmico ch’io non ricercassi e non riassumessi o ricopiassi per inzepparne il principio della mia storia.
Su nessuna però mi fermai come su quella degli ebrei. Avevo in casa una di quelle bibbie nere che trent’anni fa i protestanti inglesi vendevano in Italia per mezzalira (e nessuno le voleva): rilessi lì tutta la Genesi. Ma non bastava. Cercai in biblioteca i commenti più lodati, le sbrosce erudite più autorevoli sull’opera dei sette giorni, e concordisti cattolici ed eretici in combutta. Leggevo e sfogliavo libellacci spiritosi del settecento e apologie ristuccate alla moderna per dar soddisfazione ai seminaristi meno cretini; saggi francesi chiari e mussanti come la sciampagna e sodi panettoni filosofici ed esegetici alla tedesca, e articoli di dizionari e glosse lunghe e variolingue di bibbie poliglotte, senza saper discernere il sicuro dal sofistico e l’accertato dal supposto. Rifrugai anche negli zibaldoni verdi che avevo trovato nella cesta-libreria e persi a poco a poco il ricordo della causa prima delle mie ricerche per sperdermi nel dedalo, nel pelago e nel pruneto delle questioni bibliche.
Presi una cotta, ad esempio, per il tentativo concordatario: ebbi la pazienza di leggere il grosso libro di un tal Pianciani, eppoi il colossale Esamerone dello Stoppani e varie altre esercitazioni biologiche e scolastiche di gesuiti darwiniani o quasi. E mi venne allora un pensiero: tutti i commenti della Bibbia che si conoscono son fatti da preti, da vescovi, da teologi, da credenti – da credenti anche se son luterani o quaccheri o valdesi o sociniani. Manca invece, – cioè: credevo che mancasse – un commentario della Bibbia fatto da un razionalista, da un uomo positivo, da un miscredente disinteressato, da uno spirito libero che segua versetto per versetto tutti i libri del Testamento vecchio e nuovo e metta sotto gli occhi di tutti, senza eufemismi, gli errori, le contraddizioni, le bugie, le ridicolaggini, le prove di ferocia, di furfanteria e di balordaggine di cui son piene quelle pagine che dicono ispirate da Dio. Un simile commento, pensavo, farebbe assai più male alla fede che non le sfuriate ateistiche e le seccantissime controversie che sono il più dell’antiteologia moderna.
«Questo commento non c’è: lo farò io!»
Ormai le imprese grandi non mi facevan battere il cuore e questo, rispetto all’enciclopedia suprema, era un lavoretto da nulla, che potevo finire comodamente, pensavo, in un paio d’anni.
Cominciai seriamente: presi una grammatica ebraica e in capo a pochi giorni scrivevo già i grossi e contorti caratteri semitici ed ero capace di ricopiare i versetti del Pentateuco dall’originale. Raccolsi un materiale che a me pareva grandissimo e ammonticchiai ogni mattina e ogni pomeriggio roba nuova finchè un giorno mi parve abbastanza. Mi sentivo sazio e quasi nauseato da tanta arruffata erudizione: sentivo che se non riuscivo a darle una forma purchessia avrei lasciato ogni cosa lì – e per sempre.»

(Giovanni PapiniUn uomo finito, p. 18-25; la testimonianza si riferisce alla Biblioteca nazionale centrale di Firenze)

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