Volponi (1962)

Fonte:
Paolo Volponi, Memoriale: romanzo, Milano, Garzanti, 1962.

«Leggevo giornali e riviste e anche qualche libro. Mi buttavo nella lettura e mi specchiavo in dolori e fatti atroci; ma senza ricavarne forza per me, senza riuscire a considerare migliore la mia situazione. [...] Il parroco mi esortò a fare letture migliori. Così andai nella biblioteca della fabbrica. Era un bel locale anche se io, dentro, a guardare migliaia di libri mi sentivo confuso e pensavo di non trovare la strada per uscire libero come prima, come quando ero entrato.
Negli intervalli di lavoro frequentavo spesso la biblioteca e il cinema a passo ridotto. Mi iscrissi anche a un corso di lingua francese e a un altro di storia del Risorgimento italiano.
Parecchi erano i giovani che venivano in biblioteca e a questi corsi; giovani nuovi e strani, che facevano sempre molte domande di chiarimenti e scuotevano la testa per dire di sì o no o per ascoltare, un poco come fanno i preti. Al cinema m'accorsi che veniva anche qualche vecchio operaio, soprattutto per dormire. Io stavo bene nell'oscurità, mi divertivo.
Una volta nelle sale della biblioteca incontrai sorridente come sempre il dottor Tortora. Usciva da una lezione, con intorno un gruppo di ragazze. Aveva l'aria gentile di chi è privo di preoccupazioni e di cattivi pensieri e di chi è convinto di poter avere sempre la stessa serenità. Egli non mi vide; ma giunto alla porta si voltò verso l'angolo dove io mi ero appartato; strizzò gli occhi, smettendo di ridere, e guardò dalla mia parte con cattiveria. [...] Mi aveva visto e riconosciuto? Gli dispiaceva che io frequentassi quel posto per ritrovare un poco della mia forza?»
(Paolo Volponi, Memoriale, p. 87-88. Il romanzo è incentrato su una grande fabbrica nella zona di Ivrea, tra il 1946 e il 1956. La fabbrica è dotata anche di una biblioteca e di una sala per proiezioni, ma non coincide necessariamente con l'Olivetti, dove Volponi lavorò come dirigente a partire dal 1956).

«Non dissi nulla e accettai di andare in montagna, a Valtournanche, in Val d'Aosta. Non era un sanatorio; era un albergo, dove noi della fabbrica occupavamo tutto un piano. [...]
Io passeggiavo la mattina e la sera; il resto del tempo dormivo o leggevo. Prima di partire avevo preso alcuni libri in biblioteca, in italiano e in francese, per tentare di riprendere un poco la lingua della mia infanzia. Avevo preso anche un libro proprio sulla Val d'Aosta: Le lépreux de la cité d'Aoste. Questo libro, che leggevo lentamente, cominciò ad appassionarmi tanto che molto spesso piangevo insieme al povero lebbroso, comprendendo quanto la sua sorte fosse crudele e quanto la mia potesse ancora diventarlo. Quando fui alle pagine in cui la sorella del lebbroso muore, non riuscii a trattenere la mia commozione e sentii terribile la mia solitudine, tanto che la notte stessa [...] lasciai l'albergo e il paese per tornare a casa.»
(ivi, p. 154).

«La sera uscivo lentamente dalla fabbrica perchè non avevo voglia di correre ancora a prendere il treno, a ricacciarmi in questa altra fabbrica [...]. Uscito dalla fabbrica andavo adagio verso il centro della città; passavo un momento in biblioteca, sceglievo a lungo ma senza riuscire a trovare un libro che mi piacesse e camminavo fermandomi davanti a tutti i negozi.»
(ivi, p. 163).

«Mia madre venne ad appoggiarsi accanto a me sul davanzale della finestra; prima stette in silenzio, poi accennò alla campagna e alle disgrazie del temporale, alla fortuna invece di avere un posto sicuro in fabbrica. [...] Non cercai di capire o di chiederle la verità del discorso e andai a chiudermi nella mia stanza; mi spogliai e cominciai a leggere un libro della biblioteca che avevo da alcuni mesi. Smisi presto la lettura e, mentre cercavo di prendere sonno, in un angolo della mia mente erano in piedi mia madre e l’assistente sociale; ma non riuscivo bene a vedere in che rapporto fossero tra di loro ed erano un enigma, se non volevo pensare che fossero un’altra strada dei miei mali.»
(ivi, p. 180-181).

«Per attendere il nuovo reparto dovetti restare alcuni giorni lontano dal lavoro.
Andavo in biblioteca, al cinema del mezzogiorno e ai corsi di lingue: ovunque potessi sentirmi legato alla fabbrica.»
(ivi, p. 193).

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