Monti (1947)

Fonte:
Augusto Monti, La corona sulle ventitre, Torino, Edizioni Palatine di R. Pezzani & C., 1947.

«[Faustino] Curlo che sta cesellando a memoria un suo «sogno», Curlo che è in vena di buttar giù pagine su pagine della «Coppa», Curlo che è atteso a visitar la Commenda sulla collina del Pino, deve restar chiuso là dentro [nella Biblioteca nazionale di Torino], dalle 9 alle 12, dalle 15 alle 18 – le sue ore migliori – ad ascoltar la doglianza d'un collega sul mancato «scatto», a litigar con quella pettegola di studentessa che vuol per forza in prestito un libro «riservato», a «controllar» se le note d'accompagnamento dei librai rispondono al «contenuto»...? Ma figurarsi!»
(Augusto Monti, La corona sulle ventitre, p. 115. Curlo lavorò come sottobibliotecario alla Biblioteca nazionale di Torino dal 1898 al 1933, tranne alcuni periodi di aspettativa e brevi trasferimenti a Venezia e a Genova).

«Ma come quell'«albergo» non era cosa per Ser Ludovico [Ariosto] tanto inamena ch'egli non ne potesse ricavar materia per qualcuna delle sue «corbellerie», così il «servizio» non era per il Marchese Curlo cosa tanto «ripugnante» che egli non potesse desumerne argomento per qualcuno di quei suoi curiosissimi «sogni». [...] tra i «sogni» di Curlo uno ne ricordano gli amici, che [...] cominciava con una prodigiosa galleria di tipi, visti da Curlo e studiati alla Nazionale a Torino ne' suoi sì lunghi anni di «sottobibliotecariato».
L'altro sogno [...] lo si è potuto ricostruire fin nei particolari di su una lettera, serbata a noi, di Curlo a [Camillo] Franco, ma questo, ahimè, udito una sola volta da una piccola brigata di amici ancora in casa Pinelli, è svanito quasi tutto dalla memoria degli uditori; dei quali però nessuno ha dimenticato, pur dopo quell'unica audizione, quei «grotteschi» degni d'un Gavarni: il pensionato «treccanista» che attende con esasperazione il volume tot dell'Enciclopedia, in cui troverà certo spiegata la tal voce, fonte di tante discussioni e litigi e guai a casa al caffè al circolo; e il volume non viene mai; e quello si strugge; e quando viene... la sua voce non c'è. La signorina riccioluta che rincorre da anni l'opera fantasma; che certamente «esiste»; ma nessun distributore riesce mai a raggiungere; perchè una volta è in lettura, un'altra in prestito, un'altra in rilegatura, un'altra è spostata; quella strepita e scuote la zazzerina; ma l'opera non la raggiunge lo stesso. E l'indimenticabile Gandhista torinese, che si presenta all'ingresso della Nazionale ravvolto in un lenzuolo e scalzo, come il «maestro», e pretende d'entrar nelle sale con quei piedi nudi, e l'usciere, naturalmente, vi si oppone; e quello domanda perchè; e l'usciere, un meridionale, spiega: «La decenza – la descenza – signoria, la pulizia»; e la sfida del Gandhi: «Si scalzi anche lei, a veder chi li ha più puliti i piedi»; e l'allibito schermirsi del napoletano; e le didascalie di Curlo nel raccontar la scena in quel suo inimitabile torinese».
(ivi, p. 116-118).

««La signorilità grande del suo tratto, la sua offerentesi cortesia facevano di lui un elemento quanto mai decoroso del nostro Istituto»: è un collega che parla di Curlo; e meglio di così non se ne potrebbe dire. Il Marchese Curlo in Biblioteca «riceveva»: studiosi nostri, studiosi stranieri a lui erano affidati, Curlo diceva «rifilati»; Curlo, cosmopolita e municipale come un di quei nostri dotti nobili del Settecento, per gli studiosi sì nostrani che europei era il padron di casa ideale. Sapeva le lingue, non da lettore di Mitteilungen o di Reports o di Bulletins, ma da uomo di mondo: lo straniero con lui era a suo agio. Parlava il piemontese: il comprovinciale con lui era a casa sua. Storia di Torino, palazzi di Torino, storia del Piemonte, terre città castelli piemontesi, costumi piemontesi, grandi case piemontesi, origine, ramificazioni, trapassi, splendori e decadenze; Curlo era l'enciclopedia vivente, su tutto Curlo dava notizie, informazioni, indicazioni, senza opprimere il consulente, leggero garbato disinvolto e sorridente. Veniva uno straniero per non so che manoscritto o incunabulo o altra simile rarità dalla Nazionale posseduta, trovava in Curlo non «l'impiegato» che lo «serviva», ma il dotto che collaborava con lui, gli rimoveva ostacoli, gli risolveva difficoltà, lo faceva stupire per la sua sempre speciale preparazione e competenza. Se lo straniero ricercatore era uomo di cultura varia e diversa allora Curlo se lo traeva dietro, fuor dai recinti della biblioteconomia della bibliografia e della paleografia, agli orti dell'archeologia nelle sue più impensate applicazioni: tipografia, calligrafia, arte del ricamo, della rilegatura, del mobile, ai campi della pittura, architettura, della letteratura e della storia. L'ospite dimenticava il «motivo per cui», si distraeva dietro le coerentissime divagazioni di Curlo, ammirava stupiva, era «incantato» della conoscenza. Se, chiesta la lista delle opere di Curlo, ne riceveva in risposta un pittoresco suo gesto negativo, se interrogatolo sulla sua carriera non ne ricavava che un sorridente gesto di noncuranza, lo straniero tornava al suo paese pensieroso, «un uomo così da noi...», e là giunto narrava d'aver conosciuto di persona un «Italiano», uno di quei dotti dal candido e rinunziante animo francescano, il cui tipo fu fissato e diffuso per il mondo dall'autore del Crime de Silvestre Bonnard.
Invece l'ambulante studioso francese o tedesco o inglese o americano aveva conosciuto Curlo, il Marchese Curlo, il magnifico e un po' bizzarro signore ligure-piemontese, il quale, come le novelle, i «sogni», li componeva a memoria nei suoi ozi e li regalava post prandium agli amici, così le sue opere di varia erudizione le compilava a mente, e agli ospiti che riceveva ne' suoi domini le donava, come anelli tratti da uno scrigno, a suo souvenir, senza parere senza obbligare, senza bisogno di rispondergli «grazie».»
(ivi, p. 122-124).

Monti aveva iniziato a scrivere i suoi ricordi di Faustino Curlo subito dopo la sua morte, nel 1935, rivolgendosi anche a Cesare Pavese:

«Son tutte le vacanze che m'arrapino a distender quel necrologio del Marchese Curlo, che gli amici suoi han voluto accollare proprio a me: a un certo punto ci vorrei far entrare almeno in parte quel «sogno» che il Marchese narrò presente te pure, quello della biblioteca, con tutta quella galleria di tipi di avventori e impiegati: lo ricordi? ne ricordi questa parte? mi potresti di questa parte scrivere tutti i particolari che ricordi? Io uno solo son riuscito a ricostruire da me, quello del lettore che s'ostina a entrar in biblioteca vestito da Gandhi, avvolto nel lenzuolo e scalzo, e la sfida che lancia all'impiegato cav. Turiddu Locascio, di scalzarsi, a veder chi dei due abbia più presentabili quelle estremità. Se altri particolari siffatti tu mi puoi precisamente ricostruire, mi farai, ti ripeto, piacere.»
(Augusto Monti, lettera a Cesare Pavese, La Cordria 29 agosto 193, in: Augusto Monti nel centenario della nascita: atti del convegno di studio, Torino-Monastero Bormida, 9-10 maggio 1981, a cura di Giovanni Tesio, Torino, Centro studi piemontesi, 1982, p. 75-76. Il nome del custode è inventato).

Pavese non avrà però elementi significativi da aggiungere:

«Del sogno del Marchese Curlo ricordo appunto quanto lei; in piú, vagamente, un accenno ai lettori della Treccani, che ci lasciano dentro il moccio. E poi, mi pare, una scena di gelosia tra donne.»
(lettera a Monti, [Brancaleone] 11 settembre [1935], in Cesare Pavese, Lettere 1924-1944, a cura di Lorenzo Mondo, Torino, Einaudi, 1966, p. 435).

Relazioni