Vignola. Palazzo Contrari-Boncompagni

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Palazzo_Barozzi_facciata[1]Domenica 24 luglio 2016, alle 21.15, nella Sala conferenze al piano interrato di Palazzo Contrari-Boncompagni (Palazzo Barozzi), è stato presentato il volume Agricoltura e Alimentazione in Emilia Romagna. Antologia di antichi testi, a cura di Zita Zanardi. L'iniziativa rientrava nell'ambito della rassegna "Teatro del Gusto", promossa dalla Fondazione di Vignola, con la collaborazione di Piacere Modena, Koinè Teatro sostenibile e Etcetera.

All'interno del palazzo, tra le molte meraviglie, c'è anche un capolavoro dell'architettura cinquecentesca: la scala a chiocciola progettata da Jacopo Barozzi, detto "il Vignola" (Vignola, 1507-Roma, 1573). 

La scala a chiocciola - unica parte verticale che collega i vari piani del palazzo e che si svolge in una spirale armoniosa - è totalmente aerea e sostenuta soltanto da una colonna, situata nel bellissimo seminterrato e dal muro perimetrale dove sono "incastrati" i gradini autoportanti. I gradini sono 106 e l’altezza totale della scala è di 12,33 metri.

Recentemente è stato eseguito un restauro che ha interessato il seminterrato (attualmente visitabile), che ospitava le cantine, la cucina, due pozzi, il forno e il primo ciclo della scala elicoidale. Tra i diversi ambienti recuperati nel piano interrato, è stata ricavata una splendida sala conferenze.

 Foto Morena Orsini - Etcetera

Allegati

Fondazione di Vignola

Comunicato-stampa

Locandina

                      

 

                                                     


E si parla anche di ...

Vignola fra acqua e cibo

Il 23 settembre 1577, Antonio Scappi, figlio del celebre capo-cuoco Bartolomeo, prendeva possesso del marchesato di Vignola a nome di Giacomo Boncompagni, cui Alfonso II d’Este, duca di Ferrara, aveva concesso l’investitura feudale per la ragguardevole cifra di settantamila scudi d’oro. L’inviato del nuovo marchese raccolse con una certa acribia una serie di informazioni riguardanti le caratteristiche dei diversi territori che formavano il Marchesato e l’indole dei suoi abitanti, notizie che egli organizzò in un rapporto inviato a Giacomo Boncompagni.1

Scorrendo la relazione si incontrano, tra le tante, considerazioni assai interessanti sul rapporto tra la comunità vignolese e l’acqua:

Si ritrovano huomini che affermano esser cosa facile il condurre un canale d’acqua a questa terra, et in particolare quel medesimo di che si serve per il macinare del molino di Sua Eccellenza et anco si vede che si potrebbe ridurre nella medesima terra una fontana, delle quali cose se ne sentirebbe grandissima utilità la terra, la quale patisce assai d’acqua et chi ha pozzo lo tiene serrato a chiave più che la cantina.

Quanti gradi di separazione esistono tra la secolare lotta di questa comunità dell’alta pianura emiliana per garantire e proteggere il suo approvvigionamento idrico ed i Sapori in biblioteca?

Iniziamo con il primo: la presenza di singoli pozzi, di mulini idraulici, la stessa ‘facilità’ con cui si progettava di condurre l’acqua nel centro abitato, fondato su un terrazzo alluvionale a ridosso del fiume Panaro, erano la prova di un rapporto strettissimo e complesso tra l’insediamento umano e le vene idriche che lo attraversavano numerose in superficie, ma anche e soprattutto nel sottosuolo. L’acqua dunque era presente ovunque, ma si lasciava ‘addomesticare’ con grande difficoltà, perciò coloro che riuscivano nell’impresa si premuravano di custodire gelosamente il successo raggiunto.

Il secondo grado passa attraverso una delle condizioni indispensabili per mantenere l’insediamento umano: la disponibilità di suolo e acqua per produrre il cibo. In terre d’alluvione, di ghiaie passanti, limi e sabbie come quelle vignolesi si sa, per esperienza millenaria, che allignano bene gli ortaggi, la frutta e la folta vegetazione delle berlete fluviali. Sulle prime pendici collinari situate verso sud-est, dirimpetto alla Rocca di Vignola, oltrepassato il solco fluviale, dominano le argille azzurre e crescono le viti e gli arbusti.

Giunti a questo punto, con scorciatoia apparentemente folgorante, si potrebbe risolvere il prossimo grado di separazione nel passaggio diretto tra la produzione del cibo e i sapori della ricca tradizione culinaria locale. Un collegamento che ha lasciato tracce evidenti nelle biblioteche, sotto forma di storie narranti l’evoluzione delle colture e di ricettari. Questa, infatti, è una terra in cui faceva bella mostra di sé la piantata collinare e fruttificava l’ulivo sovente maritato alla vite, almeno sino alle invernate ‘siberiane’ dei primi anni del Settecento. Mancherebbe però un passaggio fondamentale: se non c’è una casa con una cucina è quasi impossibile preparar ricette per i palati, fini o plebei.

Il terzo grado conduce dalle argille, sabbie, gessi, fascine e legname alla costruzione della casa, passando per la cospicua produzione locale di mattoni, coppi, tavelle, calce, senza dimenticare che la loro fabbricazione era talmente diffusa ed efficiente da alimentare, tra XV e XVII secolo, l’esportazione verso la vicina Bologna. Nuovi materiali da costruzione, più leggeri e facili da murare, che soppiantarono i sassi del fiume nella costruzione delle case e quindi delle cantine e delle cucine. I modelli di questa nuova edilizia vignolese furono la Rocca quattrocentesca, realizzata con i mattoni ampliando l’antico edificio castrense costruito in sasso (le strutture così edificate sono un autentico capolavoro di arte muraria) e il Palazzo Contrari, innalzato, a iniziare dal 1560, su progetto di Giacomo Barozzi, detto il Vignola, adottando la stessa ‘filosofia’ di ampliare e trasformare un edificio medievale già esistente.

La cucina della residenza ‘di campagna’ dei signori Contrari, una delle famiglie più ricche e potenti della Ferrara estense, occupava il seminterrato, era dunque un magnifico ambiente semi-ctonio, collocato in quella regione di confine, e perciò di innumerevoli scambi e relazioni, tra il sottosuolo e la superficie, vicinissima alla vene riccamente anastomizzate delle falde freatiche su cui si fonda l’antico centro urbano. La cucina era circondata da cantine e magazzini che offrivano un microclima perfetto per la conservazione di caci, salumi, ed altri cibi. Era un sistema armonico, visitabile grazie al recente restauro, che univa il fuoco del camino e del forno e l’acqua dei due pozzi ancora oggi riempiti dalle acque di falda (uno posto nella cucina e l’altro, quello più antico, in una grande cantina). Non è necessario un grande sforzo di immaginazione olfattiva per completare il milieu di aromi che si diffondeva per questo regno semi-ctonio dei gusti, ed è risaputo che senza profumo non c’è gusto. La fragranza del pane sfornato o delle dolci ciambelle, l’effluvio degli arrosti e delle selvaggine allo spiedo, la sottile malia odorosa del salume che andava stagionandosi, o il tenace invito del profumato formaggio, tutto giungeva intrecciato alle narici.

Il seminterrato è la ‘madre’ di tutto il palazzo, femminile è ancora oggi la sua natura, in ragione delle relazioni intime che intrattiene con l’acqua, che lo attraversa nell’immediato sottosuolo. Femminile anche perché, come ha osservato Gaston Bachelard, l’acqua nel suo simbolismo, sa riunire ogni cosa,2 tant’è che nel punto in cui essa esce dal perimetro dell’edificio, attraverso un condotto sotterraneo, s’innalza l’unico collegamento verticale, una splendida scala elicoidale capolavoro di statica e architettura – monumento nazionale dal 1906 –, che unisce tutti i tre piani del palazzo, consentendo agli esseri umani di abitare e fluire attraverso le stanze ed i saloni.

Il quarto ed ultimo grado di separazione ci porta dalla cucina ‘appoggiata’ sull’acqua a Bartolomeo Scappi, cuoco secreto di papa Pio V, autore di un famoso manuale di cucina, dato alle stampe a Venezia intorno al 1570. Eccoci dunque arrivati ai Sapori in biblioteca. Si potrebbe obiettare che forse non era il caso di prenderla troppo alla larga, un solo grado di separazione era sufficiente, vista la parentela strettissima tra il padre, grande cuoco, e il figlio visitatore del Marchesato, quindi anche delle cantine e della cucina semi-ctonia del palazzo marchionale. Questo quarto grado di separazione, tuttavia, ha a che vedere soprattutto con le vicende della vita di Bartolomeo, che dispensò la sua arte tra Ferrara e i territori estensi, che conosceva benissimo, tanto da segnalare come alla Stellata (feudo dei Contrari, conti di Vignola) si pescassero in Po molti storioni, Bologna e Roma, presso la corte pontificia. Tre città legate a doppio filo con i signori del Palazzo vignolese – Contrari sino al 1575, Boncompagni dal 1577 – e con l’architetto che lo progettò, il Vignola. Ci piace pensare che i due – il cuoco e l’architetto – affratellati nella ricerca dell’armonia, l’uno dei sapori, l’altro degli edifici, si incontrarono, magari per gustare le marasche in gelo ‘accomodate’, la prima ricetta del sorbetto italiano, geniale invenzione di Bartolomeo.

Achille Lodovisi

(Centro Documentazione
 Fondazione di Vignola)