L'Ultima Cena

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TECNICA: Olio su tela

DIMENSIONI: cm 299x322

DATA: 1590-1599

RESTAURO:

  • 1798: Restauro effettuato in seguito al crollo della cupola del Duomo ad opera di Michele Dolci.
  • 1920
  • 1953: operazioni di foderatura e velatura delle zone lacunose; il dipinto fu montato su un nuovo telaio.
  • 1973: intervento ad opera dell’Istituto Centrale del Restauro di Roma. Rimozione della foderatura del precedente restauro e rintelatura con collocazione sul vecchio telaio; abbassamento di tono con velature ad acquerello.

 

Nell’arco di tutto l’ultimo decennio del Cinquecento, Barocci fu impegnato nella realizzazione di questa grande opera per la Cappella del Santissimo Sacramento della cattedrale di Urbino. L’artista si dedicò ad un lungo ed accurato lavoro preliminare, documentato da disegni dal vivo, schizzi e abbozzi pittorici, tra cui un cartone “per i lumi” di notevole qualità (Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe).

In riferimento all’assegnazione al Barocci dell’esecuzione del dipinto e alla relativa storia, esistono numerose fonti documentarie, analizzate da Groneau nel 1936 e riportate anche da Olsen nel 1962. Attraverso il “Libro delle risoluzioni (dei) consiglieri del SS.mo Sacramento” è stato possibile ricostruire che per la decorazione della cappella fu chiamato il maestro Federico Zuccari, il quale decise di coinvolgere nell’impresa il Barocci.

Par a lui et anco a tutti che molto sia a proposito, ch’in uno delli due quadri che toccano da fare a lui, si dipinga, quando piovè la Manna nel deserto come figura nota del Sacramento e che comparerà benissimo alla vista, e nell’altro la cena di Nostro Signore in quell’attitudine  ch’egli dopo l’haver magnato l’Agnel Pascale istituì tal Sacramento”. Queste parole riportate nel testo del Groneau documentano le scelte iconografiche dei due dipinti. L’impegno del Barocci per l’“Ultima cena” si protrasse per un intero decennio, tanto che la realizzazione della tela con la “Caduta della manna” fu successivamente affidata al suo allievo Alessandro Vitali, “…sia per il suo valore proprio, sia perché il Barocci l’avrebbe aiutato”.

L’“Ultima cena” si caratterizza come composizione vasta e teatrale, in cui i tanti personaggi presenti ruotano intorno alla figura di Cristo, centro prospettico e tematico. Gesù, seduto a tavola con i dodici Apostoli, volge lo sguardo verso l’alto, con la mano sinistra tiene il pane, mentre la destra è alzata, in atto di benedizione, esattamente sopra al calice di vino; è il momento dell’istituzione dell’Eucaristia. La scena è ambientata in un interno le cui caratteristiche architettoniche richiamano luoghi legati alla famiglia ducale. Proprio in omaggio a quest’ultima e, in particolare, a Francesco Maria II della Rovere, importante finanziatore della cappella, Barocci introduce il simbolo araldico della ghirlanda di rovere, sbalzata sul vaso retto dal servitore in primo piano a destra; foglie di rovere, inoltre, si vedono nel fascio di legna portato dal giovane sullo sfondo davanti al camino, sempre a destra. L’artista, pur nella fedeltà ai testi evangelici, non cade mai nella pura e semplice illustrazione e riesce a “restituire la freschezza della novità dell’evento” (Silvia Cuppini Sassi). Come di consueto, inoltre, mostra estrema abilità nell’uso della luce, con rimandi al mondo fiammingo e al luminismo pierfrancescano, con giochi di luce che scivolano sui personaggi e sugli oggetti, determinando bagliori ed effetti di raffinato cangiantismo. Dalle finestre delle stanze laterali, che lasciano intravedere il cielo striato di nubi, entra la luce; una luce divina squarcia il soffitto e investe Cristo e i quattro angeli sopra di lui; il fuoco acceso del camino abbaglia il viso del giovane che porta la legna e illumina le mani del servo di fronte a lui; il resto della scena è avvolto dalla luce, proveniente da una finestra fuori campo, che si riflette nel piatto di peltro appoggiato a terra accanto al cesto.

Barocci, inoltre, sceglie per quest’opera soluzioni che rimandano a precedenti illustri: l’impaginazione della scena , ad esempio, ricorda i teleri veneziani, basti pensare all’“Ultima cena”  del Tintoretto (1592/1594 - Venezia, Basilica di San Giorgio Maggiore), opera dalla quale Barocci trae spunto, in modo assolutamente personale, per il servitore che ripone le stoviglie nella grande cesta in primo piano e tende il braccio muscoloso verso il bambinetto biondo di spalle posto all’estrema sinistra. Altro rimando significativo è costituito dalla presenza sullo sfondo, a destra, della balia con in braccio un bimbo, immagine estrapolata dalla “Comunione degli Apostoli” di Giusto di Gand  (1473/1476 – Urbino, Galleria Nazionale delle Marche). Dettagli quali la natura morta del pane e del vino, certi “sprazzi luministici” e alcuni volti sono invece da riferire all’ammirazione per l’“Ultima cena” realizzata da Tiziano per la distrutta chiesa urbinate del Corpus Domini.

La composizione del Barocci, rigidamente centralizzata secondo i termini di uno spazio scenico teatrale con giochi luministici che creano profondità di campo, si caratterizza per l’atmosfera tersa e delicata. Da notare, inoltre, la definizione del dettaglio in ogni livello della scena: l’apostolo che sta riponendo il coltello nella guaina; quello di destra che si pulisce la bocca con un lembo del mantello e porge il bicchiere vuoto al fanciullo per farsi versare altro vino; quello che, con una mano appoggiata sul tavolo, sta raccogliendo il mantello per accingersi ad alzarsi; l’espressione assorta dell’apostolo barbuto in preghiera; quella attenta di coloro che ascoltano ed osservano Gesù.

Nella stanza c’è grande animazione: i servi stanno pulendo le stoviglie, uno attizza il fuoco, alcuni si affacciano dalle porte sullo sfondo. Nella scena così affollata ed animata, in cui ogni personaggio è descritto e studiato con estrema cura, colpisce la tenera figura del cagnolino in primo piano, che si affaccia curioso, forse per bere, verso il grande catino di metallo appoggiato sul pavimento accanto al portatore di vasi.