Lapidi

1921: La memoria di pietra
di Filippo Lombardi

Come detto parlando della cosiddetta “Memoria di carta”, il 1921 è un anno che si colloca nel pieno del periodo della celebrazione e del ricordo di coloro che hanno perso la vita nella Grande Guerra.

Sono gli anni in cui in tutta Italia sorgono i Monumenti ai caduti che, assumendo il compito di cicatrizzazione delle ferite morali, divengono negli anni successivi, oltre che luogo di commemorazione dei morti, luogo di aggregazione sociale, specificità che oggi è andata perduta sostituita da finte piazze all’interno di posticci centri commerciali.
In Italia le forme lapidee che diedero forma al ricordo furono le più varie.
Si tratta di realizzazioni quasi tutte caratterizzate da un tono nettamente scultoreo, con un vasto repertorio di obelischi, vittorie alate, stelle, fanti all’attacco, fanti morenti, fanti nelle braccia della madre o dell’Italia, colonne, opere in pietra o bronzo spesso ispirate allo stile liberty.
Quello che era nato come iniziativa spontanea divenne in breve tempo una sorta di movimento architettonico e si sviluppò un vero e proprio dibattito culturale, con il coinvolgimento delle riviste specializzate e dei migliori esperti del settore urbanistico.
Questo perché a tanti monumenti fioriti per l’Italia corrisposero altrettanti scultori, professionisti e dilettanti, che per anni ebbero come principale attività quella di partecipare ai concorsi presentando i loro bozzetti e i loro progetti.
Ai concorsi dotati di cospicue dotazioni finanziarie, come era il caso delle grandi città capoluogo di provincia, partecipavano illustri personaggi, che avevano alle spalle una solida formazione culturale e artistica; ma al diminuire della disponibilità economica spesso corrispondevano anche una diminuzione delle basi teoriche e tecniche e una carenza della capacità ideativa e creativa, soprattutto per la presenza di modesti plastificatori e scalpellatori, veri e propri mestieranti estemporanei, per i quali la circostanza della realizzazione di un monumento ai caduti rappresentava l’unica, o quasi, occasione della vita.
Questa variabile umana ci rende ragione della estrema varietà estetica e della diversità delle dimensioni dei monumenti che riempiono le piazze dei nostri paesi: ma tutte le località italiane ci tenevano ad averne uno e i comuni che non avevano abbastanza denaro per costruirlo murarono una lapide commemorativa sul Municipio o sulla Chiesa.
Addirittura, dovendo coniugare la carenza di denaro con il desiderio del monumento e non potendo permettersi un lavoro in fusione a regola d’arte, alcuni comuni, in numero comunque limitato, si servirono da fabbricanti di statue in serie.
Queste aziende specializzate in monumenti ai caduti erano fiorite specialmente in Toscana, e una della più famose fu la “Casa d’Arte Corinthia” di Torquato Tamagnini, che in collaborazione con fonderie napoletane e romane vendette a Comuni e scuole innumerevoli targhe bronzee con inciso il Bollettino della Vittoria.
Tamagnini realizzò e inviò ai Comuni d’Italia un opuscolo-catalogo in cui venivano presentate diverse tipologie di monumento ai caduti, per facilitarne la scelta e l’ordinazione.
Si verificarono anche circostanze curiose come quella che vide protagonisti alcuni efebici Persei, con testa di Medusa in mano, rimasti forse invenduti negli studi degli scultori, che con l’aggiunta di un elmetto e di una spada vennero trasformati in fanti e piazzati in due paesi del Veneto e della Toscana.
E resta famoso lo scultore Turillo Sindoni che, dopo aver realizzato un monumento per il Ministero della Guerra a Roma, fornì una copia della statua in bronzo ai Comuni di Sant’Agata di Militello e di Tortorici.
Comunque la scelta di monumenti dai cataloghi di fabbricanti fu sempre e da tutti condannata come una profanazione: sacralità doveva significare unicità e immutabilità, in quanto il monumento ai caduti occupava una sorta di “spazio sacro” dedicato alla religione civica del patriottismo.
Il dibattito fu quasi esclusivamente relativo alla qualità artistica dei manufatti.
In primo piano furono spesso la rivista “L’architettura italiana”, che si occupò con frequenza delle realizzazioni più importanti, e la rivista “Emporium”, che più volte pubblicò articoli fortemente critici.
Su quest’ultima rivista, in un articolo intitolato “L’invasione monumentale”, già alla fine del 1918 Ettore Janni aveva modo di rilevare che:
“Noi abbiamo forse ucciso la guerra, ma non sappiamo se riusciremo a uccidere la mania dei Comitati che dalla guerra ebbe sì largo alimento”
per poi aggiungere, in modo beffardo:
“Gli scultori! Ecco una categoria di lavoratori, i lavoratori della gloria, che non corre il rischio di soffrire i disagi della disoccupazione. Cento Comitati sono costituiti in ufficio di collocamento per gli scultori che hanno marmo da avvivare e da sciupare”.
Non mancarono di intervenire anche testate a maggiore diffusione, come il conservatore “Corriere della Sera”, che invitò i Sovrintendenti alle Belle Arti a vigilare sulla scarsa qualità artistica delle realizzazioni marmoree nonché a farsi garanti della regolarità dei concorsi; il famoso critico Ugo Ojetti tuonò, insieme al filosofo Giovanni Gentile, contro l’eterogeneità artistica dei risultati ottenuti.
Otello Cavara, altra firma del Corriere, dalle pagine della “Illustrazione Italiana”, una delle più prestigiose riviste dell’epoca, nel 1922 annotava che:
“La selva delle colonnine romane, delle steli, delle targhe, delle croci ricopre ormai la penisola. Da punto di vista artistico, il fenomeno non è raggiante. La qualità risulta straordinariamente inferiore alla quantità. Lo sparpagliamento delle iniziative pregiudica la sintesi… alimenta il crescendo dei brutti, dei mediocri e dei discreti monumenti”.
I monumenti ai caduti rappresentano oggi vicende passate che giungono fino alla quotidianità dei nostri giorni: la loro realizzazione è stata quasi sempre dovuta all’impegno di gruppi, di comitati e di associazioni culturali che, con un minimo di organizzazione, e talvolta anche senza, ma con molta caparbietà, a loro modo consentirono la crescita culturale e sociale della comunità cui appartenevano.
Non bisogna dimenticare che spesso si giunse alla loro realizzazione al termine di una gestazione lunghissima e difficile come lo stesso Otello Cavara, il già citato critico del Corriere della Sera, ammise:
“Il monumento, anche se brutto, non è una improvvisazione. Richiede mesi e mesi di attività: costituzione del Comitato, raccolta delle oblazioni, divergenze, crepe possibili al momento della scelta dello scultore, lo scalpellino, il bozzetto e l’epigrafe....”.
I monumenti ai caduti e le lapidi commemorative sono quindi (quasi) sempre il risultato di una mobilitazione “di massa”.

A Piacenza
Percorrendo le vie di Piacenza è possibile notare moltissime tracce di questo tipo, e una prima ricognizione ha portato a identificare una ventina di lapidi disseminate fra scuole, chiese, istituzioni pubbliche e palazzi privati.

Di queste, tre furono inaugurate nel 1921: la lapide dedicata ai caduti di San Lazzaro, sostitutiva del monumento classico, e due lapidi dedicate a singoli caduti dipendenti delle Regie Poste.

La lapide alla Scuola Elementare San Lazzaro Alberoni

Ricordiamo che quest’opera fu realizzata quando San Lazzaro Alberoni era ancora un comune autonomo, che sarebbe poi stato annesso a Piacenza diventandone frazione il 1° settembre 1923 insieme ai comuni di Sant’Antonio a Trebbia e di Mortizza.
La lapide è realizzata a mo’ di cornice dell’ingresso principale della scuola, quasi a ricordare ai piccoli alunni, ogni giorno, il sacrificio dei loro padri e fratelli maggiori.
Venne inaugurata domenica 30 ottobre 1921 con una cerimonia che ebbe inizio alle 9 del mattino: un momento molto semplice ma molto commovente per onorare i circa 80 nomi incisi nel marmo.
Dopo la benedizione religiosa prese la parola il Regio Commissario cavalier Marina che fece da prologo al discorso ufficiale tenuto dall’onorevole Camillo Piatti.
Alla funzione civile erano presenti le famiglie dei caduti, una larga rappresentanza delle scuole e dell’Istituto dei Pupilli della patria, l’organizzazione che ospitava gli orfani di guerra presso il Collegio Alberoni, il Circolo cattolico e molte delle Società Patriottiche e combattentistiche che avevano sede a Piacenza.
Non mancò la rappresentanza dei numerosi reparti militari presenti a Piacenza, accompagnata dalla banda musicale del Presidio che sottolineò con la musica i momenti più significativi della cerimonia.
Dopo lo scoprimento della lapide, presso gli uffici municipali si tenne una riunione con le famiglie più bisognose dei caduti, alle quali fu assicurato l’imminente distribuzione di un contributo in denaro derivante dai residui della gestione del Comitato di Assistenza Civile che aveva operato a Piacenza per tutta la durata della guerra.
La riunione fu anche l’occasione per ringraziare pubblicamente il Segretario Comunale del Comune di San Lazzaro che assisteva le vedove e i genitori dei caduti nelle pratiche burocratiche e pensionistiche.
Il testo della lapide è molto semplice ed incisivo:

Il Comune di S. Lazzaro Alberoni ricorda onora esalta
I figli di sua terra per la patria caduti eroicamente
1921
XXIV maggio MCMXV IV novembre MCMXVIII


Le due lapidi dedicate ai caduti postelegrafonici

Nel Palazzo delle Poste in via Sant’Antonino sono visibili due lapidi dedicate a postelegrafonici piacentini caduti in guerra, l’ufficiale postale Dante Guardamagna e il fattorino Giuseppe Bisotti.
Le lapidi furono inaugurate domenica 20 novembre 1921, pochi giorni dopo quella di San Lazzaro.
Alla cerimonia erano presenti numerose autorità civili, militari e religiose: tutte le armi del Presidio, il comandante della Divisione Militare, tenente generale Fiastri, la banda militare e due compagnie di soldati per rendere gli onori militari.
Lo stato era rappresentato dal vice-prefetto cav. Ferranti, c’erano poi il Procuratore del Re, l’Intendente di Finanza, l’onorevole Piatti, l’avvocato Nereo Bosi, il Presidente della Camera di Commercio Rizzi, il direttore del Collegio Morigi, il vice direttore delle Ferrovie a Vapore, il segretario politico dell’Associazione Democratica cav. Notola, il segretario della Scuola Arti e Mestieri, e tanti altri.
Erano poi presenti le associazioni patriottiche, le Società Esercito, Veterani, Reduci, Carabinieri in congedo, Guardia di Finanza, tutte con bandiere e labari.
Gli onori di casa e l’organizzazione della cerimonia furono appannaggio del capo ufficio sig. Frattini e dell’impiegato sig. Romani.
La cerimonia si sviluppò ordinata e seria. Parlò inizialmente il vice-Prefetto che portò l’adesione anche di S.E. Raineri il quale non era giunto in tempo a causa di un ritardo di tre ore sulla linea ferroviaria, e quella del Prefetto, trattenuto al Consiglio Provinciale, e del deputato on. Pallastrelli.
Prese poi la parola il direttore delle Regie Poste cav. Faillan che esaltò le figure dei due scomparsi.
Al termine del discorso, mentre la banda intonava l’Inno del Piave e la truppa presentava le armi, vennero scoperte le lapidi.
Chiuse poi l’onorevole Piatti che, scrive il giornale, “con la facilità ed eleganza di parola che lo rende così suggestivo”, fece un commovente racconto degli episodi che avevano preceduto la morte dei due dipendenti delle poste e chiuse, acclamatissimo, invocando la concordia degli animi per il bene dell’Italia.
Alla cerimonia era presente il padre di uno dei caduti, Dante Guardamagna, con un altro figlio sottotenente delle Regie Guardie. Prese la parola per ringraziare commosso del ricordo dedicato al figlio, ricevendo una grande manifestazione di affetto da parte dei presenti.
Parlò per ultimo l’Ufficiale Telegrafico Dainelli, venuto apposta da Firenze, che aveva lavorato a Piacenza ed era legato da profonda amicizia a Guardamagna, il quale recò in dono al padre un album fotografico con le immagini e le firme dei colleghi del figlio.
Le due lapidi vennero collocate ai lati interni della porta d’entrata, mentre oggi sono state spostate nella parte sinistra della galleria dell’atrio.
La epigrafe della lapide di Guardamagna fu dettata dal poeta Bertacchi di Roma, mentre la epigrafe dedicata a Bisotti fu invece opera del concittadino prof. Mons. Lotteri