Il Settecento: Giovannina


Giovannina, la strega della Val Masino


Processo a Giovannina Obizzi, 1712

ASSo, Biblioteca Rajna, DI, II/31

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Processo, c. 1 r.

1. L’accusa


Lunedì 22 agosto 1712, nell’ufficio del landamano Ercole de’ Capoli (von Capuol), podestà della squadra di Traona nonchè giudice dei malefici, viene presentata una notifica. Contiene una denuncia a carico di certa Giovannina Obizzi figlia di Pietro, una donna residente nella frazione di S. Antonio in Val Masino, «da molto tempo in qua […] imputata, et incolpata di strega» (c 1r). Ad accusarla un vicino, tale Pietro Stellino figlio di Giovanni, che ascrive le disgrazie occorsegli negli ultimi cinque anni all’intervento della menzionata Giovannina.

Motivo dell’ultima contesa sarebbe un tronco d’albero (borra) che il famiglio della presunta strega avrebbe estratto dal fiume, e sul quale anche lo Stellino reclama diritti (cc 1v – 2r). Alle sue formali accuse presentate «in Palazzo» si uniscono anche quelle della moglie e delle sorelle dell’accusatore, e presto la macchina della giustizia, al fine di indagare e raccogliere prove, estende il giro di interrogatori a diversi testimoni delle zone circonvicine: Filorera, Cataeggio e Caspano.

2. Le testimonianze

Il principale accusatore Giovanni Stellino porta svariate prove delle malìe di Giovannina Obizzi: dalla morte improvvisa dei suoi capi di bestiame presso un pascolo oggetto di lite (c. 5r) fino agli inspiegabili accessi di malattia che l’avrebbero colto a seguito di minacce e «imprecationi» ricevute dalla vicina, dalle quali dichiara che non potesse guarire se non ricorrendo a «qualche religioso per la beneditione.» (c. 6r).

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Processo, c. 6 r.


Riferisce il medesimo di un episodio singolare: mentre si trovava a far foglia, la Giovannina, comparsa dal bosco, gli avrebbe fatto «certo giro a torno un puoco di lonano» e immediatamente lo Stellino avrebbe patito un malore tale da fargli quasi perdere i sensi«mi sentii subito a cascar la vita, et imbalordito», tanto da doversi aggrappare a un albero (c. 3v).

Ben presto le accuse si estendono. Ogni delazione diventa motivo di prova per sostenere l’accusa di stregoneria: i testimoni riferiscono (spesso dichiaratamente per diceria) che qualcuno addirittura «l’habbi vista di notte a transformarsi in diverse figure» (c. 8r), e si sostiene che persino la matrigna della donna sarebbe stata tenuta «in concetto di strega» (c. 30r). Anche la scoperta di un figlio avuto fuori del matrimonio sembra assurgere a imputazione a carico della Obizzi (c. 12v).

Tutti i testimoni giurano toccando la Bibbia.

3. Una voce fuori dal coro

Solo una voce sembra levarsi, se non a difesa dell’imputata, quantomeno a rifiutare ogni calunnia contro di essa: è quella di Giacomo Scetti, un vecchio di Filorera convocato controvoglia a testimoniare: «testis ex offitio citatus, et juratus sine tamen eius praeiuditio, quae protestatio non admittitur» (cc. 40v-41r). Interrogato sulla reputazione della Giovannina Obizzi, dichiara di non aver sentito altro che una «voce in aria» alla quale non sembra voler attribuire troppo credito. Messo alle strette su cosa esattamente sia questa diceria nell’aria, risponde laconico: «Che sii una strega, ma che ci sii fondamento non lo posso dire, perchè l’ho sentito discorrere solamente da femine, e regazzi, e non da huomini». Interrogato infine sull’identità di queste femine e regazzi, chiude seccamente: «deve sapere che io ho settantadue anni, e che non mi ricordo, neanche de i fatti miei» (c. 41r). L’interrogatorio finisce qui.

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Processo, c. 41 r.

Anche un’altra teste sembra dapprima esitare di fronte alla gravità delle imputazioni sul banco: si tratta di Domenica Stellino, nientemeno che la sorella del principale accusatore. Richiesta sulla reputazione della Giovannina, rifiuta di parlare ed esita, il che viene interpretato dagli inquisitori come segno di mendacità: «renueret dicere, et hesitaret super ombibus responsionibus, ita ut demonstraret animus defraudandae veritatis» (c. 43v). A questo punto la testimone viene trattenuta, ma prima di pervenire al carcere cede e dichiara di essere pronta a parlare. L’interrogatorio riprende ed è del tenore di tutti gli altri.

4. L’arresto

In tutto ciò Giovannina Iobizzi, «se bene si confessa gran peccatrice per altro», si protesta del tutto innocente quanto all’accusa di stregoneria, «netta come Iddio Benedetto, la Vergine Santissima, et li Angeli non voglino sopportar più tal cosa» (c. 2r). Si reca dunque al palazzo del giudice dei malefici, «dimandando che da sua Signoria Illustrissima si faccia riffare il suo honore, e pagar le sue andate» (c 2v).

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Processo, cc. 2r-2v

La discolpa dell’imputata non basta: il 5 settembre 1712, dopo aver esaminato la maggior parte dei testi, («praecipue masculi», ossia «specialmente i maschi», come si premura di far notare il cancelliere, benché la più parte delle testimonianze raccolte provenga da donne), viene emanato l’ordine di arresto nei confronti di Giovannina Iobizzi (c. 25r).
Dal resoconto degli incaricati dell’esecuzione dell’ordine si apprende come Giovannina non si trovasse, e di come la sorella, fingendo di andarla a chiamare («variisque simulatis astutiis suavisse eius sorores adeam vocandam»), ne abbia favorito il tentativo di fuga; raggiunta tuttavia dalle guardie, Giovannina, pur tentando di resistere alla cattura «con i denti e con le unghie» («dentibus, et unguibus resistente vinculis»), viene infine legata e condotta in carcere (c. 26r).

5. L’interrogatorio

Il primo interrogatorio della presunta strega è datato venerdì 16 settembre 1712, a undici giorni dalla carcerazione (c. 48r).
Giovannina afferma con forza la propria innocenza: dice di essere senza macchia, e che il contrario «non me lo proveranno mai se venisse fori tutta la gente della Valle di Masino» (c. 48v), rigettando anzi le accuse come frutto di invidia e vecchi dissapori con il vicino Pietro Stellino, e aggiunge, con riferimento alle di lui accuse di considerarla la responsabile delle sue sventure: «ma se succedono qualche danni a me, devo forsi incolparlo lui, e trattarlo da strione?» (49v).
Interrogata poi sulle imprecazioni e maledizioni che avrebbe lanciato ai danni del vicino, risponde che certe parole sono da attribuirsi unicamente a un impeto d’ira usuale durante una lite: «se è per quello, ne vengono poi fuori quando si ha quella colera...» (53v).
Così procede a smentire ogni accusa rivoltale: quella di aver causato la morte di un giovane (c. 54v); la malattia ad una coscia al figlio di una donna di Cataeggio (c. 55); quella di aver causato un’indigestione di tortelli a due donne (c. 56); la morte di un castrato e l’infermità di una donna ammalatasi dopo un diverbio con lei (cc. 56v e 57r).

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Processo, cc. 48v-49r


L’atteggiamento degli esaminatori, a giudicare dalle chiose in latino già nelle prime pagine dell’interrogatorio, non è dei più favorevoli: nel descrivere l’atteggiamento di Giovannina riportano che parlava «curando lugere, sed sine lacrimis, transeundo a simulato fletu, ad semirisum, et deinde ad varios, et impertinentes discursos», cioè «procurandosi di piangere, ma senza lacrime, passando dal pianto simulato al mezzo sorriso, e poi a discorsi mutevoli e impertinenti» (c. 49r).

6. L’ammissione di colpa

Il giorno seguente, tuttavia, Giovannina, dal carcere, chiede di essere sentita nuovamente. Si rivolge in particolare a uno degli esaminatori, il tenente Andrea Paravicini, al quale chiede la lista dei reati a lei ascritti affinché possa «far le sue riflessioni». La lista le viene consegnata in serata e letta punto per punto dal tenente Paravicini stesso, al quale solo Giovannina desidera confidarsi, non senza prima essersi assicurata che «le cose sarebbero state secrete tra essa, et detto signor Tenente». Nonostante le rassicurazioni ricevute, nella stanza di fronte siede il cancelliere estensore del documento, che ha ricevuto esplicito ordine di nascondersi «per sentir quello che da detta Giovannina si deliberasse» (cc. 57v e 58r).
A questo punto Giovannina confessa, «dicendo d’esser stata accecata dal Demonio, ma poi d’essersi emendata» e di «haver negata la Santa Fede», pretendendo però nuovamente che nulla di ciò sia messo per iscritto (c. 58r).
Il colloquio ha termine.

7. La smentita

A due giorni dalla confessione orale Giovannina chiede ancora di essere sentita dal tenente Andrea Paravicini. Questa volta viene condotta al banco della cancelleria.
Nuovamente la Obizzi chiede che il colloquio abbia carattere di riservatezza, ma il suo atteggiamento sembra essere mutato: stavolta chiede anche di aver salvo l’onore, e che «si dia adosso a quel furfante di Stelino per le spese, e farmi pagare anchora li miei danni, per li quali voglio almeno un filippo al giorno», promettendo poi il denaro del risarcimento al suddetto tenente Paravicini in cambio del suo aiuto (c. 60r).

Se dapprima la presunta strega ammette di aver fatto «certo ghiroldino attorno a Pietro qm Giovanni Stelino […] per il qual ghiroldino detto Pietro restasse tutto stordito, et indebolito», in un secondo momento, messa davanti ad altre manifeste accuse di aver lanciato maledizioni, la Giovannina sembra piccarsi, e risponde: «questo lo po’ mettere se vole, ma è ne anche vero», per poi soggiungere più apertamente che «anzi questa cosa non andava ne anche messa perché è troppo brodega», ossia «sporca». (c. 61r).

Il tenente Paravicini a questo punto spiega come, affinché le dichiarazioni abbiano validità, sia necessario metterle per iscritto davanti a un cancelliere. La Giovannina acconsente e il cancelliere esce dall’ombra per farla giurare sulla Bibbia. Dopo il giuramento e la lettura delle dichiarazioni rilasciate, tuttavia, Giovannina nega tutto e afferma di aver confessato solo nella speranza di essere liberata: «no, non è vero niente, e se l’ho detto lo dico così per venir fuori di queste miserie» (c. 62v).

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Processo, c. 62v

Il giorno seguente, 20 settembre 1712, l’imputata, «fatti molti strepiti nella priggione» (c. 63v), chiede nuovamente udienza, ma stavolta per negare ancor più recisamente ogni precedente dichiarazione di colpevolezza, trovandosi «pentita e matta la testa, che non sapevo quello che facessi» (64r), e affermando di non voler confessare altro, senza recedere neppure di fronte alla minaccia della tortura: «quella verità che non vuole confessar spontaneamente la dovrà dir con li tormenti» (c. 65v).

8. Un episodio controverso

Dopo un secondo giro di testimonianze volto a corroborare le dichiarazioni dei testi già sentiti, anche Giovannina viene sottoposta a un nuovo interrogatorio il 23 settembre 1712.

Gli inquisitori mettono l’imputata di fronte alle numerose e circostanziate testimonianze a suo carico. Questa risponde di avere contezza delle testimonianze a suo sfavore, e di attribuirle all’altrui invidia. Gli esaminatori, a questo punto, non si spiegano come la Giovannina, incarcerata al tempo delle audizioni dei testimoni, possa sapere di queste, e attribuiscono la sua conoscenza ad un’intesa col Demonio, che definiscono «Amico» di Giovannina, con proteste di quest’ultima (c. 75v). Insistono nel farle notare come l’imputata risponda all’«interroganza che porta consequenza» sempre in modo impreciso, laddove viceversa, quando si tratta di «risponder in suo soglievo», le risposte si facciano molto più chiare. Giovannina ribatte semplicemente: «io dico quello che so, e quello che non so non lo posso dire» (cc. 76v – 77r).

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Processo, c. 77r

Dopo aver lamentato le dure condizioni della prigionia, che la costringono a stare «sempre in cruscione», ossia accovacciata, «perché vi vien aqua» e aver negato nuovamente ogni accusa, accade qualcosa di inaspettato. Nel tragitto tra la prigione e il banco dei testimoni, al vestito della Giovannina sono state segretamente attaccate «certe cose benedette»; accortasene, «le ha subito strappate via, e buttate da parte, e stremita, e sconvolta tutta» ha preso ad imprecare contro tutti, mettendosi «in ginocchio a dire sotto voce certe parole, quali però non si sono intese» (cc. 82r – 83v).

Giovannina si scusa dicendo che non sapeva si trattasse di oggetti sacri, ma la decisione è ormai presa: si delibera che Giovannina Obizzi debba essere punita secondo la legge («servatis, tamen de iure servandis») e che perciò abbia diritto ad essere assistita da un difensore (c. 83v).

9. La difesa

La difesa, affidata ad Ascanio Malacrida, riassume le vicende esposte nei tredici capi d’accusa sotto forma di domande da porre a nuovi testimoni (c. 87 e sgg.), i quali per lo più si limitano a rispondere affermativamente o negativamente riguardo la loro conoscenza dei contrasti occorsi tra Giovannina Obizzi e il vicinato. Seguono poi altre domande generiche sulla reputazione della presunta strega. I testimoni convocati dalla difesa certificano l’integrità dell’accusata, definendola «donna savia» e «soda» (c. 99r); c’è chi tenta di spiegare i suoi comportamenti più eccentrici: «non è matta, so bene, che quando va in colera esce come da sé stessa, ma ritorna poi anche in sé subito» (c. 100v); e chi testifica la sua condotta religiosa: «l’ho vista con la corona in mano, et andar anchor a messa» (salvo poi chiosare: «ma per questo ponno essere santi et anchora ponno esser un diavolo»).
Il difensore presenta la sua arringa finale nella quale chiede l’assoluzione della sua assistita in quanto le accuse rivoltele non sarebbero che calunnie, e la parziale confessione le sarebbe stata «extorta per suggestionem» (c. 118r).

10. La sentenza

Sfortunatamente non sappiamo come si concluda la vicenda processuale né quale sorte sia toccata a Giovannina Obizzi: le carte in nostro possesso, come si evince dall’introduzione (c. 1), non sono che una memoria presentata al podestà di Traona affinché avvii le indagini preliminari, e dalla nota di uno degli esaminatori, il già citato tenente Andrea Parravicini (c. 91), apprendiamo come il memoriale che abbiamo tra le mani sia destinato al vicario di Valtellina affinché giudichi il caso (c. 95v).

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