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Sabato 5 ottobre, ore 21
MODENA Chiesa di Sant’Agostino
STABAT MATER
Monteverdi, Vivaldi, Pergolesi
Cristina Fanelli soprano
Hannah Fraser contralto
I MUSICALI AFFETTI
Matteo Zanatto violino
Alessandro Lanaro viola
Carlo Zanardi violoncello
Fabiano Merlante arciliuto
Nicola Lamon organo
Fabio Missaggia direzione
In collaborazione con il Festival Spazio e Musica
CLAUDIO MONTEVERDI (1567-1643)
Il pianto della Madonna
da Selva morale et spirituale, Venezia 1641
ANTONIO VIVALDI (1678-1741)
Sinfonia avanti lo Stabat Mater
dai concerti per archi e b.c. RV 143, 119, 120
Adagio, Allegro, Largo, Allegro
Stabat Mater per alto solo, due violini, viola e continuo RV 621
“Stabat Mater dolorosa” (Largo)
“Cuius animam gementem” (Adagissimo)
“O quam tristis” (Andante)
“Quis est homo qui non fleret” (Largo)
“Quis non posset contristari” (Adagissimo)
“Pro peccatis suae gentis” (Andante)
“Eja Mater, fons amoris” (Largo)
“Fac ut ardeat cor meum” (Lento)
“Amen”
GIOVANNI BATTISTA PERGOLESI (1710-1736)
Stabat Mater per soprano, alto, due violini, viola e continuo
“Stabat Mater dolorosa” (Grave)
“Cuius animam gementem” (Andante amoroso)
“O quam tristis et afflicta” (Larghetto)
“Quae moerebat et dolebat” (Allegro)
“Quid est homo” (Largo-Allegro)
“Vidit suum dulcem natum” (A tempo giusto)
“Eja Mater, fons amoris” (Andantino)
“Fac ut ardeat cor meum” (Allegro)
“Sancta mater, istud agas” (A tempo giusto)
“Fac ut portem Christi mortem” (Largo)
“Inflammatus at accensus” (Allegro)
“Quando corpus morietur” (Largo assai)
“Amen” (Presto assai)
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STABAT MATER
Il testo della sequenza medievale Stabat mater dolorosa era di sorprendente attualità nel clima culturale a cavallo tra XVI e XVII secolo quando quello delle lacrime diventa un vero e proprio genere letterario di successo. Moltissime sono le composizioni musicali su questo argomento, basti pensare alla raccolta delle Lagrime di San Pietro musicata da Orlando di Lasso nel 1594 o al travestimento sacro dell’aria “Lasciatemi morire”, noto come Pianto della Madonna sopra il lamento di Arianna di Claudio Monteverdi. Rielaborato e modificato dal suo stesso autore, già all’epoca quel Lamento diverrà materia di imitazione-emulazione da parte di altri compositori sia in ambito polifonico sia monodico. Il turbamento lacerante che percorre quella monodia è espresso anzitutto nelle alterazioni cromatiche, nelle disarmonie tra canto e basso continuo, nell’audacia degli intervalli densi di tinte patetiche. Fra le innumerevoli versioni musicate spiccano quella di Antonio Vivaldi, di cui si scrive dopo, e lo Stabat di Pergolesi, composto sotto commissione dal 1734 al 1736, su richiesta della confraternita napoletana dei Cavalieri della Vergine dei Dolori di San Luigi al Palazzo, per officiare alla liturgia della Settimana Santa. Pur rimanendo nell’alveo della tradizione formale rispettando quasi sempre la classica struttura bipartita dell’aria da chiesa, questa composizione rivela una moderna attenzione agli affetti e una proiezione verso una nuova visione della musica sacra.
VIVALDI: UNO STABAT A METÀ? Il giovane Vivaldi riceve nel 1712 la commissione da parte dei Filippini della Chiesa di Santa Maria della Pace di Brescia di comporre lo Stabat Mater. Si tratta di uno dei primi incarichi fuori dalle mura veneziane seguito l’anno seguente dall’ingaggio per il Teatro delle Grazie di Vicenza per comporre la sua prima opera, “Ottone in villa”. Il Prete Rosso aveva già acquisito una certa notorietà sia come violinista che come compositore non solo tra le mura veneziane ma anche all’estero con la pubblicazione in Olanda dell’Estro Armonico” op. III nel 1711. Il testo dello Stabat Mater (la cui paternità come noto è contesa tra Jacopone da Todi e Innocenzo III) si sviluppa in 20 stanze di tre versi ciascuna, due ottonari e un senario sdrucciolo; da un punto di vista ritmico la successione delle rime (sempre AAB CCB) unisce le stanze a due a due, anche se ogni unità a tre righe è sintatticamente completa. Vivaldi, in modo molto singolare, utilizza solo le prime dieci stanze tagliando la seconda metà dello Stabat e trasforma così il brano in un inno per i Vespri. Anche se questa scelta potrebbe sembrare azzardata, riesce invece con un finale geniale e inaspettato a dare un convincente senso di compiutezza alla sua composizione. Le ultime parole musicate prima dell’amen finale sono un accorato appello a Maria per accrescere l’amore del narratore per Cristo (Fac ut ardeat): un finale forse meno drammatico ma altrettanto carico di emozione rispetto a quello del versetto 20 (Quando corpus morietur) che rimanda alla speranza della vita eterna. Per la divisione del testo all’interno della composizione Vivaldi, come faranno anche Pergolesi e Scarlatti, non si preoccupa più di tanto del fatto che le rime tenderebbero a unire le stanze a due a due ma ne resta svincolato. Il primo, il secondo, il settimo e l’ottavo numero mettono in musica una sola stanza mentre il terzo e il sesto ne uniscono due. I numeri dal quattro al sei ripetono poi, caso forse unico in tutte le versioni conosciute dello Stabat, in modo simmetrico la stessa musica modificando solo il testo (una sorta di auto-parodia). Ci sono alcune particolarità che appaiono subito evidenti rispetto alle altre sue composizioni sacre e che ne fanno un unicum di particolare suggestione. Innanzitutto non appare alcun tempo veloce nonostante lo Stabat sia distribuito in 9 movimenti. Si passa da Largo (primo, quarto e settimo movimento) a Adagissimo (secondo e quinto) a Andante (terzo e sesto) a Lento (ottavo) fino ad arrivare all’Amen finale che è il solo a non avere indicazioni di tempo. Questo incedere sempre lento, anziché dare un senso di monotonia alla composizione, riesce ad esprimere in modo convincente l’affetto molto intimo e triste del testo, senza indulgere nella tentazione di spettacolarizzare la musica (accusa molto frequente in tutta la sua produzione vocale). La seconda cosa che ci sorprende in questa composizione di Vivaldi è il costante focus tonale sempre oscillante tra Fa minore e Do minore che dona un colore particolarmente “scuro” al brano con un senso drammatico molto profondo; questo tipo di “monotonalità” sarà più presente nei lavori tardi (op. XI e XII) che non in quelli giovanili. Nel primo movimento (e quarto) la forza drammatica della composizione viene espressa subito dal violino che propone un canto per gradi congiunti preso con salti di ottava rendendo quasi irriconoscibile una melodia di per sé molto semplice. Interessante l’uso al basso di una figura retorica molto espressiva (passus duriusculus) con un tetracordo cromatico discendente simbolo del lamento f in dai tempi di Monteverdi e Cavalli. Il secondo (e quinto) movimento è una sorta di recitativo accompagnato seguito da un arioso dove Vivaldi affida alla voce un lungo melisma per valorizzare le parole “pertransivit gladius” e “Dolentem cum filio”. Il terzo (e sesto) movimento (che mette in musica due strofe anziché una) è in ritmo ternario e in forma di ritornello, tipico della scrittura vivaldiana; sulle parole “poenas” e “desolatum” affida alla voce un lungo melisma virtuosistico che però mantiene un affetto drammatico. “Eja Mater”, il settimo movimento, si differenzia da tutti gli altri per l’orchestrazione molto particolare: tacciono tutti gli strumenti del continuo, i violini sono all’unisono e alla viola viene dato il ruolo di bassetto sostituendosi di fatto al basso. Questo procedimento è tipico della scrittura vivaldiana sia nella musica sacra (basti pensare al “De torrente” nel Dixit Dominus RV 595) che nella strumentale (esempi anche nell’Estro Armonico pubblicato un anno prima nel 1711). La scrittura dei violini è molto evocativa con ritmi puntati e stretti che rimandano all’immagine “flagellis” (usata anche da Bach nella Johannes Passion). Gli intervalli usati anche molto ampi (addirittura fino alla quattordicesima) danno un tocco molto teatrale al brano per il grande contrasto con la linea melodica della voce che ha un andamento molto languido ed espressivo. Resta curioso il fatto che nel manoscritto, all’inizio di questo brano, ci sia la seguente indicazione: “In caso non vi fossero Violette suoni il Violini(o)”. Probabilmente Vivaldi non sapeva bene se l’orchestra per cui aveva composto il brano avesse nel suo organico le viole. Difficile però immaginare un’esecuzione senza la viola visto che in altri brani il suo ruolo non è solo di sostegno armonico ma anche in dialogo con i violini (basti pensare al terzo e sesto movimento e soprattutto all’Amen f inale). Caratteristico nell’ottavo movimento il ritmo di 12/8 che Vivaldi userà poi in molte altre composizioni sacre e, da un punto di vista armonico, l’uso del Sol bemolle, caso rarissimo in tutta la sua produzione sia sacra che strumentale. L’Amen finale è una sorta di fuga anche se la durata contenuta del movimento non permette uno sviluppo troppo elaborato del contrappunto. Particolare e tipico della sua produzione anche posteriore l’uso dei controsoggetti (ne possiamo trovare almeno tre). Il finale con l’accordo in maggiore rimanda allo “stile antico” e dopo tanta tonalità in minore sembra essere quasi una trasfigurazione, una visione del Paradiso (come non pensare al finale del Combattimento monteverdiano).
E SE FOSSE ANDATA COSI’?
Siamo a Venezia nel 1712 e Antonio Vivaldi lavora come Maestro di violino all’Ospedale della Pietà dove a capo di tutta l’attività musicale c’è Francesco Gasparini. Quest’ultimo però è molto preso e distratto dall’attività di operista al Teatro Sant’Angelo e per questo motivo il giovane Prete Rosso lo sostituisce spesso nel ruolo principale alla Pietà componendo non solo musica strumentale ma anche sacra. Ha appena pubblicato l’anno precedente per i tipi di Estienne Roger di Amsterdam la sua opera III “L’Estro Armonico”, una raccolta di 12 concerti che lo sta facendo conoscere anche in tutta Europa. È l’opera però ad essere in quegli anni il genere musicale più alla moda ed economicamente vantaggioso. È a questo punto che entra in azione il padre di Vivaldi, Giovanni Battista, violinista a San Marco e al Teatro di San Giovanni Grisostomo e suo più fido consigliere e mentore. È sull’opera che deve puntare il figlio per accrescere prestigio e fama e con esso privilegi economici. Deve solo trovare il modo di farlo debuttare come compositore di opera, magari fuori dalle mura veneziane, per acquisire esperienza da mettere poi a frutto nella capitale della Serenissima e magari più avanti in altre corti europee. Il figlio deve dunque iniziare ad avere “ingaggi” da altre città italiane. E se il debutto avvenisse a Brescia, città natale del nonno dove il padre conservava ancora dei forti contatti all’interno del tessuto sociale della città? Forse ci sarebbe anche la possibilità di farsi scritturare per comporre un’opera a Vicenza per il nuovo Teatro delle Grazie appena inaugurato. Meglio prima avere altri ingaggi però, magari con un incarico di musica sacra, un campo dove ha già una certa esperienza. Ecco arrivare l’occasione giusta: i Filippini stanno allestendo un Vespro alla Chiesa di Santa Maria della Pace di Brescia e hanno deliberato di far musicare un inno a un compositore “foresto”. Il testo è già deciso: sarà quello dello Stabat Mater, ma solo la prima metà perché tutto sarebbe troppo lungo. Quale soluzione migliore per il giovane e ambizioso Prete Rosso: sfruttare la musica di un mottetto già composto e non ancora eseguito e adattarla per lo Stabat richiesto. Certo il mottetto ha solo tre movimenti e l’amen finale, ma se si ripete due volte ogni numero, con testo diverso, basterebbe comporre solo due tempi in più e il gioco è fatto. E così avviene. Vivaldi e il padre Giovanni Battista partono per Brescia con il “nuovo” Stabat Mater. Sarà un successo e così arriverà anche il nuovo ingaggio per l’Ottone in villa dell’anno successivo al Teatro delle Grazie a Vicenza. Nel 1714 Antonio Vivaldi, con il sostegno del padre, diventa impresario e “direttore delle musiche” del Teatro Sant’Angelo a Venezia. Il resto è storia. Fantasia o realtà? Alcuni di questi fatti raccontati sono reali e altri frutto della mia fantasia. Ma se le cose fossero andate realmente così? Dietro capolavori straordinari si nascondono spesso fatti imprevedibili e circostanze misteriose. L’unica cosa veramente importante però è che lo Stabat di Vivaldi ci emoziona e ci entusiasma ancora oggi ogni volta che la suoniamo o la ascoltiamo.
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